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Archive for the ‘J. Broadbent’ Category

Tratto dal romanzo di Julian Barnes, Il senso di una fine – che trovate nei post della scorsa settimana – L’altra metà della storia mi ha incuriosita fin da subito.

Per il cast e per Barnes. E anche perché, nonostante si tratti di un romanzo breve e, tutto sommato, lineare, non era così scontato che si prestasse all’adattamento cinematografico.

La regia di Ritesh Batra e la sceneggiatura dell’esordiente Nick Payne tuttavia hanno fatto un lavoro più che egregio riuscendo a raggiungere un buon equilibrio tra fedeltà al testo e le necessarie modifiche imposte dall’adattamento ma, soprattutto, riuscendo a non tradire il tono e lo spirito del libro benché il film risulti, nel complesso, un po’ meno amaro.

Un ottimo Jim Broadbent veste i panni di Tony Webster, pensionato divorziato e abitudinario, la cui routine e le cui certezze riguardo a presente e passato vengono messe in crisi nel momento in cui Sarah Ford, madre della sua ex fidanzata dei tempi dell’università, lo nomina nel testamento lasciandogli una strana e inaspettata eredità.

Tony si trova ributtato a forza in mezzo a ricordi che credeva sepolti, costretto a rivivere una storia che, man mano che la ripercorre, risulta essere sempre più diversa da come pensava di ricordarla.

Quanto sono affidabili i ricordi che abbiamo della nostra vita? Quante cose modifichiamo – più o meno consciamente – per trasformare la nostra esistenza nel copione coerente e autogiustificatorio che meglio si adatta al personaggio che vogliamo/pensiamo di incarnare?

Veronica Ford emerge dalle nebbie di un passato che Tony voleva credere risolto – al punto da non averne mai parlato neanche con l’ex moglie Margaret al tempo in cui erano sposati, dettaglio questo dalle molteplici interpretazioni – e lo costringe a fare i conti con una parte di sé che era riuscito tranquillamente a ignorare per quasi cinquant’anni.

Egoismo o sopravvivenza? Memoria selettiva e responsabilità.

Cosa c’è dietro il suicidio di Adrian, una volta migliore amico di Tony?

Com’è andata a finire tra Adrian e Veronica, dopo che lei e Tony avevano rotto?

Cosa c’è dietro il riflesso appannato di ricordi che, di punto in bianco, sembrano cambiare forma?

Basta un piccolo, impercettibile spostamento e la prospettiva viene sconvolta.

Come il ricordo di un weekend lontano, a casa della famiglia di Veronica.

Come il peso delle parole.

Veronica è interpretata da una grande Charlotte Rampling, mentre una non meno brava Harriet Walter interpreta Margaret, la ex moglie di Tony.

Nel cast anche Emily Mortimer e Matthew Goode (fratello e sorella in Match Point di Woody Allen).

Cinematografo & Imdb.

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 Ricordo, in ordine sparso:

– un lucido interno polso;

– vapore che sale da un lavello umido dove qualcuno ha gettato ridendo una padella rovente;

– fiotti di sperma che girano dentro uno scarico prima di farsi inghiottire per l’intera altezza di un edificio;

– un fiume che sfida ogni legge di natura, risalendo la corrente, rovistato onda per onda dalla luce di una decina di torce elettriche;

– un altro fiume, ampio e grigio, la cui direzione di flusso è resa ingannevole da un vento teso che ne arruffa la superficie;

– una vasca da bagno piena d’acqua ormai fredda da un pezzo, dietro una porta chiusa.

L’ultima immagine non l’ho propriamente vista, ma quel che si finisce per ricordare non sempre corrisponde a ciò di cui siamo stati testimoni.

Tony Webster. Un uomo normale. Nella media. Conduce e ha condotto una vita altrettanto normale, altrettanto regolare. Niente picchi di genio, niente colpi di testa o abissi di disperazione.

Tony racconta la sua vita, i suoi ricordi. Agli altri ma soprattutto a se stesso. Con l’aiuto di un tempo che, tutto sommato, sembra in qualche modo stare dalla sua parte, evitando di fornire smentite o insinuare dubbi.

Esiste al mondo una cosa più ragionevole di una lancetta dei secondi?

Finché.

Finché il lascito inaspettato del diario di un amico morto suicida molti anni prima apre uno squarcio improvviso nella coerente realtà del suo passato.

I fatti non combaciano più con i ricordi. I ricordi si fanno improvvisamente frammentari e incompleti. Ciò che Tony pensava di ricordare con chiarezza, ciò che pensava di sapere, viene reso fragile e incerto dallo specchio della memoria altrui. Uno specchio che restituisce un riflesso distorto di ciò che Tony avrebbe voluto essere ma non è riuscito a diventare.

Procediamo a casaccio, prendiamo la vita come viene, ci costruiamo a poco a poco una riserva di ricordi. Ecco il problema dell’accumulo, e non nel senso inteso da Adrian, bensì nel semplice significato di vita che si aggiunge a vita. E, come ricorda il poeta, c’è differenza tra addizione e crescita.

La mia esistenza si era sviluppata o solo accumulata?

Conosco Barnes da poco ma sta rapidamente diventando uno dei miei autori preferiti.

La bellezza, l’assoluta lucida perfezione dei ritratti cui riesce a dare vita è qualcosa di grandioso e al tempo stesso estremamente doloroso.

Il senso di una fine è un libro crudele e verissimo.

L’inganno della memoria ma, soprattutto, dell’autogiustificazione. Il peso della responsabilità. Anche la responsabilità stessa di scegliere di rimanere in vita.

L’immensa ineluttabilità del rimorso e la sua stupida banalità.

E allora perché Adrian si era tolto la vita? Cosa manca al quadro così lineare che Tony ha dipinto nella sua mente per quasi tutta la sua esistenza? Cosa ha guardato, per tutti questi anni, senza riuscire realmente a vederlo?

Il tempo molto inquieto.

 

Il 19 ottobre arriva nelle sale il film tratto da questo libro – che essendo solo di 150 pagine sono riuscita a leggere al volo in tempo utile.

Titolo modificato in italiano con L’altra metà della storia, che se non era necessario, almeno non è dannoso o eccessivamente anticipatorio.

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Londra, anni Settanta.

Lui è Alan Bennett, il noto commediografo inglese. Lei è semplicemente Miss Shepherd. E vive in un furgone.

Lui si è trasferito da poco a Camden. Lei è conosciuta e non sempre ben tollerata in tutto il quartiere.

Lui vive solo, cercando di scrivere per il teatro. Lei gli chiede la cortesia di poter parcheggiare temporaneamente il furgone-casa nel vialetto di casa sua.

Lui accetta, per qualche settimana. Lei rimane, per quindici anni.

La storia quasi vera (a raccontarla è pur sempre un commediografo e le libertà sono d’obbligo) della singolare amicizia tra Bennett e questa signora dai modi bruschi, dall’igiene carente e dal passato impenetrabile.

Mary Shepherd si porta dietro ricordi da quello che sembra il passato di molte vite. E custodisce un fardello che non riesce a lasciare andare ma che si trascina appresso come i sacchi malconci in cui ammucchia la sua roba. Un fardello che affiora nel nome di Margaret e in una figura misteriosa che si presenta periodicamente a reclamare un tributo.

Alan è mite, chiuso in se stesso, riservato. Miss Shepherd è diretta e sfacciata. Alan parla da solo. Miss Shepherd parla con Dio.

E’ uno strano equilibrio, quello che si crea fra di loro. Fatto di non detti e di una strana forma di compensazione.

Lui è Alex Jennings e lei è Maggie Smith.

The Lady in the Van è adorabile.

Meraviglioso, dissacrante, spassosissimo umorismo inglese allo stato puro.

E’ divertente e delicato. Ed è reso al meglio prima di tutto dall’interpretazione impagabile di Maggie Smith, ma anche da tutto il resto del cast, tra cui spiccano i nomi di Jim Broadbent e Frances de la Tour (no, non sto parlando di Harry Potter anche se può sembrare).

Spero tanto che arrivi nelle sale. Al momento non è ancora prevista una data d’uscita al di fuori del festival.

Cinematografo & Imdb.

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Cronache dal Festival.

Oggi è il primo giorno che passo interamente in sala. L’unico spettacolo in cui ho avuto un posto libero a fianco è stato quello delle 9 del mattino. Per il resto sale strapiene. E non solo per Maggie Smith, che si sa, richiama. Pure per Under Electric Clouds di non mi ricordo più che regista russo di cui magari parlerò nei prossimi giorni e che non era esattamente la cosa più scorrevole che abbia mai visto. Mi auguro che i dati di afflusso confermino la percezione di un festival che continua a funzionare e che ha veramente tanti film interessanti in programma.

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Uscita dell’Uci Cinema Lingotto (Torino), Interno 8Gallery, Sera.

Una tizia palesemente in ritardo per qualcosa si precipita fuori dal cinema e si fionda dentro l’antistante Feltrinelli dove punta una commessa e con occhi lucidi e arrossati bofonchia qualcosa che probabilmente alla malcapitata suona come

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Dato lo sguardo vacuo della commessa, la tizia ritiene sia il caso di schiarirsi la voce, dimenticarsi per un attimo il corso intensivo di dizione-Bellamy a cui si sta sottoponendo in vista di futuri eventi musicali e provare a scandire.

Sto cercando il libro da cui è tratto cloud atlas

Al che la commessa capisce, sfodera un odioso sorrisetto condiscendente del tipo gioia-penserai-mica-di-essere-l’unica e con malcelata soddisfazione comunica che è finito.

Morale della favola. Causa ristampa in occasione dell’uscita del film la tizia deve ancora riuscire a mettere le mani sul libro in questione (David Mitchell, 2004) e da una settimana sta presidiando svariate librerie in attesa di intercettarne la consegna. Quando riuscirà nel suo intento, probabilmente recensirà anche il libro. Per ora si deve limitare al film.

Our lives are not our own. From womb to tomb, we are bound to others. Past and present. And by each crime and every kindness, we birth our future. 

Sei diversi momenti nello spazio e nel tempo.

Metà Ottocento. Su una nave in viaggio dalle isole del Pacifico verso San Francisco.

Anni Trenta – Scozia – il momento della composizione di The Cloud Atlas Sextet

Anni Settanta – California

2012 – Inghilterra

2144 – Nuova Seoul

2300 – Oltre il futuro

Sei diverse storie e sei diversi intrecci di personaggi e vicende.

A rendere chiara fin da subito la connessione tra tutte le narrazioni è il fatto che i personaggi, nelle varie epoche, sono interpretati sempre dagli stessi attori (il cast – nel quale troviamo, Tom Hanks, Halle Berry, Jim Broadbent, Hugo Weaving, Susan Sarandon, Hugh Grant, tanto per dirne alcuni – è relativamente limitato in proporzione alla quantità di ruoli). A questo si unisce tutta una serie di particolari, di dettagli che, seppur in forme diverse, ricorrono ad incarnare fisicamente, in ogni momento storico, la realtà di un legame con tutto ciò che è stato e tutto ciò che seguirà.

Fear, belief, love phenomena that determined the course of our lives. These forces begin long before we are born and continue after we perish. 

I fratelli Wachowski (Matrix) e Tom Tykwer (Profumo), tornano nelle sale con un lavoro senz’altro ambizioso ma anche estremamente valido.

Cloud Atlas è un film molto articolato ma non contorto. Se anche all’inizio si ha una sensazione di spiazzamento dovuta ai repentini salti spazio-temporali, non ci si mette molto ad abituarsi ai cambi di storie e personaggi e subentra anche la curiosità di riconoscere gli attori, sotto i vari travestimenti. Dal punto di vista della trama è sicuramente più complicato da spiegare che non da seguire perchè alla fine tutte le storie coinvolgono e in tutte le storie si ha la chiara consapevolezza del legame con tutte le altre.

E poi è un film di una bellezza disarmante. Bellezza visiva di scenari e ambientazioni, da quelle storiche a quelle nel futuro. Bellezza narrativa, che non si riesce a descrivere semplicemente parlando della trama e delle sue implicazioni perchè suona banale. Di per sè, il concetto di una connessione superiore al di là e al di sopra dello spazio e del tempo, unito all’idea che le conseguenze delle nostre azioni non sono limitate all’ambito delle nostre esistenze in quanto parte di un quadro generale più ampio, ecco, questi concetti non sono nuovi di per sè. Ma sono raccontati con estrema delicatezza, rappresentati, nelle diverse storie, in modo tale da renderne tutta la potenza emotiva.

Mi dispiace un po’ la totale esclusione dagli oscar. Come dicevo all’inizio, non ho letto il libro ma, a naso, una candidatura come miglior sceneggiatura non originale non sarebbe stata immeritata.

Una curiosità. A chi ha visto Matrix sicuramente non può sfuggire l’autocitazione (parecchio esplicita in verità) verso la parte finale in Nuova Seoul.

Bellissimo. Da vedere, da vedere e ancora da vedere.

And all becomes clear. Wish I could make you see this brightness. Don’t worry, all is well. All is so perfectly, damnably well. I understand now, that boundaries between noise and sound are conventions. All boundaries are conventions, waiting to be transcended. One may transcend any convention, if only one can first conceive of doing so. Moments like this, I can feel your heart beating as clearly as I feel my own, and I know that separation is an illusion. My life extends far beyond the limitations of me. 

Un’ultima cosa. La tematica di realtà diverse e lontane nello spazio e nel tempo ma indissolubilmente legate tra loro, il ripetersi di elementi uguali eppure diversi che incarnano questi legami e, soprattutto, il modo in cui tutto ciò è stato rappresentato mi ha ricordato tantissimo Gli dei di pietra di Jeanette Winterson. Mentre ascoltavo le parole di Sonmi continuavo a sentire anche le parole di Spike.

Ogni cosa porta per sempre in sè l’impronta di ciò che è stato prima. 

Questo è un universo quantico […] non è né casuale, né predeterminato. Ogni secondo dischiude una nuova possibilità. Tutto quello che puoi fare è intervenire.

Cinematografo & Imdb.

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