continuando a dilettarsi, per abitudine secolare, di mere immagini della verità. Ma essere stati educati dalle fotografie non è come essere stati educati da immagini più antiche e più artigianali. Per prima cosa, oggi sono molto più numerose le immagini che reclamano la nostra attenzione. L’inventario è cominciato nel 1839 e da allora è stato fotografato quasi tutto, o almeno così pare. E questa insaziabilità dell’occhio fotografico modifica le condizioni di prigionia in quella grotta che è il nostro mondo. Insegnandoci un nuovo codice visivo, le fotografie alterano e ampliano le nostre nozioni di ciò che val la pena guardare e di ciò che abbiamo il diritto di osservare. Sono una grammatica e, cosa ancor più importante, un’etica della visione. Infine la conseguenza più grandiosa della fotografia è che ci dà la sensazione di poter avere in testa il mondo intero, come antologia di immagini.
Collezionare fotografie è collezionare il mondo. I film e i programmi televisivi illuminano le pareti, tremolano e spariscono; ma nelle fotografie l’immagine è anche un oggetto, leggero, poco costoso, facile da portarsi appresso, da accumulare, da conservare. Nei Carabinieri (1963) di Godard, due pigri lumpen-contadini vengono allettati ad arruolarsi nell’esercito del re dalla promessa che potranno saccheggiare, violentare, uccidere o fare al nemico qualsiasi altra cosa che gli salti in testa, e nel contempo arricchire. Ma la valigia di bottino che qualche anno dopo quel Michelangelo e quell’Ulisse riportano trionfalmente a casa e alle loro mogli, contiene di fatto soltanto cartoline illustrate, a centinaia, di Monumenti, Grandi Magazzini, Mammiferi, Meraviglie della Natura, Mezzi di Trasporto, Opere d’Arte e altri classificati tesori del mondo intero. La gag di Godard ridicolizza brillantemente l’equivoca magia dell’immagine fotografica. Le fotografie sono forse i più misteriosi tra gli oggetti che formano, dandogli spessore, quell’ambiente che noi definiamo moderno. Esse sono in realtà esperienza catturata, e la macchina fotografica è l’arma ideale di una consapevolezza di tipo acquisitivo.
Fotografare significa infatti appropriarsi della cosa che si fotografa. Significa stabilire con il mondo una relazione particolare che dà una sensazione di conoscenza e quindi di potere. Si ritiene che sia stata una prima e ormai notoria caduta nell’alienazione, abituando gli uomini ad astrarre il mondo e a tradurlo in parole stampate, a generare l’eccedenza di energia faustiana e di danno psichico necessaria all’edificazione delle inorganiche società moderne. Ma come strumento per filtrare il mondo e trasformarlo in oggetto mentale, la stampa sembra meno pericolosa delle immagini fotografiche, che sono oggi le fonti principali di ciò che noi sappiamo sull’aspetto del passato o sulla gamma del presente. Ciò che si scrive su una persona o su un evento è chiaramente un’interpretazione, come lo sono i rendiconti visivi fatti a mano, quali la pittura e il disegno. Le immagini fotografate invece non sembrano tanto rendiconti del mondo, ma pezzi di esso, miniature di realtà che chiunque può produrre o acquisire.
Le fotografie, che alterano le proporzioni del mondo, vengono a loro volta ridotte, ingrandite, tagliate, ritoccate, alterate, truccate. Invecchiano, afflitte dai mali comuni a tutti gli oggetti di carta; spariscono; diventano preziose; vengono comprate e vendute, vengono riprodotte. Le fotografie, che impacchettano il mondo, sembrano sollecitare l’impacchettamento. Vengono incollate negli album, incorniciate e posate sulle scrivanie, appese alle pareti, proiettate come diapositive. Le pubblicano i giornali e le riviste, le espongono i musei, le raccolgono gli editori.
Per molti decenni è stato il libro il modo più diffuso di mettere in ordine (di solito miniaturizzandole) le fotografie, garantendo loro in questo modo – le fotografie sono oggetti fragili, che si rompono o si smarriscono con facilità – se non l’immortalità, la longevità e insieme un pubblico più vasto. In un libro la fotografia è, ovviamente, l’immagine di un’immagine. Ma poiché, già in partenza, è un oggetto liscio e stampato, riprodotta in un libro, perde la sua qualità essenziale assai meno di un quadro. Tuttavia il libro non è un sistema del tutto soddisfacente per assicurare una larga diffusione a un gruppo di fotografie. La sequenza nella quale le fotografie devono essere guardate è proposta dall’ordine delle pagine, ma niente impone al lettore l’ordine raccomandato o indica la quantità di tempo da dedicare a ogni fotografia. Il film di Chris Marker, Si j’avais quatre dromadaires (1966), una meditazione brillantemente orchestrata su fotografie di tutti i generi e su tutti i temi, suggerisce un modo più sottile e più rigoroso di impacchettare (e ingrandire) le fotografie stesse. Sia l’ordine sia il tempo esatto in cui guardare ogni fotografia sono imposti, e c’è anche un guadagno in termini di leggibilità visiva e di impatto emotivo. Ma, trascritte in un film, le fotografie smettono di essere oggetti collezionabili, mentre rimangono tali se riprodotte in un libro.
Susan Sontag, Sulla fotografia – Realtà e immagine nella nostra società, 1973