Pare che Martin McDonagh non sbagli un colpo.
Dopo il bellissimo In Bruges (2008) e il geniale (e per lo più sottovalutato) 7 Psicopatici (2012), ritorna e con 4 Globes vinti su sei candidature si piazza comodamente in zona nomination anche per i prossimi Oscar.
Dark comedy, strillano manifesti e recensioni. E una volta tanto ci azzeccano, quanto meno sul dark, anche se nei Tre manifesti a Ebbing, Missouri c’è molto di più.
Mildred Haynes è la madre di Angela Haynes.
Angela è stata brutalmente assassinata ma sono passati mesi e non si è trovato un colpevole. Neanche un indiziato. Nessuno da incriminare. Niente.
Il dolore ha effetti diversi e imprevedibili sulle persone. Alcune rimangono schiacciate, paralizzate sotto di esso. Altre cambiano. O reagiscono in modi che non si sarebbero aspettate da se stesse.
La rabbia è una reazione. Una forma di difesa, anche.
E’ meglio essere incazzati che feriti, no?
E Mildred è molto incazzata. Con tutti. Col mondo intero. Ma in particolare con la polizia della sua piccola città, Ebbing, nel Missouri, dove sembra che a nessuno importi realmente di risolvere il caso di sua figlia.
E così un giorno, mentre torna a casa lungo una statale ormai praticamente inutilizzata se non da chi si è perso e ci finisce per sbaglio, Mildred vede tre grossi cartelloni pubblicitari vuoti e abbandonati e decide di piazzarci tre manifesti che riportino l’attenzione su Angela.
L’attenzione la ottiene. Anche troppa se è per questo perché i suoi manifesti scatenano il putiferio nella cittadina.
McDonagh mette in scena il grottesco teatrino delle dinamiche di una piccola comunità, con i suoi equilibri, i suoi personaggi incastrati in se stessi, le sue sacche di insormontabile e quieta stupidità.
I pregiudizi di un’America rurale e piena di retaggi anacronistici vengono messi a nudo e svergognati senza pietà.
E Mildred è spietata. E’ anche crudele in molte occasioni. Di quella cinica crudeltà che solo la disperazione più profonda riesce a generare.
A volte è proprio stronza, Mildred. E ostinata al di là di ogni buon senso. Ossessionata dalla sua sete di giustizia. O rivalsa. Dopo un po’ le differenze si assottigliano.
Accanto a Mildred – una strepitosa Frances McDormand – c’è lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson), capo di un dipartimento di polizia che oscilla in modo a tratti surreale tra applicazione della legge e concessioni all’arretratezza della mentalità locale dominante.
Sullo sfondo – ma neanche poi troppo – l’agente Dixon (Sam Rockwell) – un po’ ubriacone, un po’ testa calda, che vive ancora con sua madre e che prende molto sul personale l’attacco di Mildred all’operato della polizia.
Una commedia drammatica, tagliente e nera, in diversi momenti anche realmente spassosa ma sempre perfettamente bilanciata.
Un cast eccezionale – giustamente premiata anche l’interpretazione di Rockwell e assolutamente non da meno, benché un po’ ignorata dalla critica, la parte di Harrelson, che è forse un po’ sopra le righe, come sempre del resto, ma risulta davvero toccante.
Ed eccezionali sono anche i personaggi stessi perché, se da un lato incarnano tutta una serie di cliché comportamentali, d’altro canto escono dai loro limiti e si rivelano essere persone vere, complesse, complete nelle loro contraddizioni e nella loro umanissima incoerenza.
Non ci sono personaggi positivi e negativi. Ci sono persone.
Non ci sono personaggi da amare o odiare in toto perché cambiano, si evolvono, si scoprono nelle loro paure, nelle loro debolezze, nella loro rabbia, nella loro disarmante umanità.
Bellissimo.