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Archive for the ‘G. Van Sant’ Category

 

No, ecco, è che poi uno a un certo punto si ricorda pure di avere un blog.

Come frase di rientro direi che non c’è male ma almeno WordPress non si è aggiornato, non ha cambiato grafica e funziona così come l’ho lasciato e questo è già qualcosa.

Per farla breve, a questo punto mi si presentano sostanzialmente un paio di opzioni. Opzione a) = tento (senza speranza di riuscirvi) di colmare il vuoto dei mesi precedenti abbozzando scorci di ricordi, bozze di riflessioni, vaniloqui dal tono ironicamente filosofeggiante e garbatamente ammiccante – cercando di distogliere l’attenzione dal fatto che, alla fin fine, a giugno, ho davvero piantato tutto sulle note di Mr. Brightside – oppure, Opzione b) = la smetto di cazzeggiare e vado col primo film utile che ho per le mani.

Direi Opzione b.

E quindi Don’t Worry.

Titolo originale Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot, lo stesso dell’autobiografia da cui il film è tratto.

Si tratta di una delle freddure del vignettista John Callahan, l’autore.

A distanza di tre anni dal discutibile La foresta dei sogni  – non brutto ma neanche poi troppo bello – Gus Van Sant torna in concorso al 68° Festival di  Berlino con un format e un approccio decisamente più nei canoni e racconta la storia di John Callahan, alcolista, tetraplegico a seguito di un brutto incidente stradale e vignettista quasi per caso.

Un tema e una storia dalle forti potenzialità drammatiche che però vengono trattate in modo asciutto, pulito, senza sbavature patetiche ma con una forte dose di (auto)ironia e di cinismo nero come l’umorismo delle vignette di Callahan stesso.

Una storia in tre tempi, raccontata dal protagonista in diversi momenti del suo percorso di rinascita – lungo i dodici passi degli Alcolisti Anonimi – dopo l’episodio che ha spezzato irreversibilmente la sua vita e il suo corpo.

Un Joaquin Phoenix come sempre bravissimo offre un’interpretazione essenziale di un ruolo fortemente a rischio di trovarsi sopra le righe.

Originariamente nei panni di Callahan avrebbe dovuto esserci Robin Williams che aveva già acquistato i diritti per l’autobiografia del vignettista. Poi Callahan morì nel 2010 e nel 2014 morì anche Williams e il progetto non prese mai forma.

Un po’ di polemiche intorno alla scelta di Phoenix per un ruolo di disabile perché definita discriminatoria nei confronti della categoria – un po’ sullo stesso livello di un whitewashing, per dare l’idea – cosa che, onestamente trovo quanto mai oziosa, quando non fuori luogo, ma tant’è.

Accanto a Phoenix un Jonah Hill davvero sorprendente – non perché ci fossero ancora dubbi sulla sua bravura ma per il ruolo piuttosto diverso dai suoi standard.

Nel cast anche Jack Black e Rooney Mara.

Odore di candidature agli Oscar? Forse è prematuro ma il pensiero non sarebbe poi così poco plausibile – anche se Phoenix è appena passato a Venezia con The Sisters Brothers.

In ogni caso, molto consigliato.

Cinematografo & Imdb.

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Arthur Brennan (Matthew McConaughey), americano, scienziato, compra un biglietto di sola andata per Tokyo.

Non ha bagaglio con sé. Non ha accompagnatori.

E’ diretto ad Aokigahara.

Aokigahara è un posto bellissimo e terribile. Ed esiste davvero. E’ conosciuto in tutto il mondo, eppure è quasi dimenticato.

Aokigahara è una foresta immensa e intricata ed è nota come la foresta dei sucidi.

Perché è bellissima, appunto. Perché una volta entrato, è molto raro uscirne. E forse questo aspetto costituisce una sorta di garanzia contro i ripensamenti. Chi si reca ad Aokigahara lo fa per una ragione, nella maggior parte dei casi.

Aokigahara è il posto perfetto per morire.

All’ingresso della foresta ci sono dei cartelli che mettono in guardia contro la pericolosità dei sentieri, il rischio di perdersi, l’irrimediabilità del gesto che presumibilmente molti si apprestano a compiere.

Arthur entra nella foresta.

Seguiamo i suoi passi e seguiamo i suoi ricordi.

Attraverso una serie di flashback conosciamo la sua vita di prima. Rivediamo sua moglie Joan (Naomi Watts) e riattraversiamo la loro vita insieme. Riviviamo la storia che lo ha portato fin lì.

A disturbare i suoi piani però arriva Takumi Nakamura (Ken Watanabe). Malconcio e disperato, Takumi cerca una via d’uscita che non riesce a trovare e Arthur non può fare a meno di aiutarlo.

Persi nella foresta, Arthur e Takumi vagano lungo i sentieri di quella che è una realtà sempre più labile, sempre più sottile.

La foresta non li lascia andare. I ricordi non li lasciano andare.

C’è qualcosa. Qualcosa che la cultura giapponese di Takumi sa chiamare per nome. Qualcosa per cui la cultura americana e scientifica di Arthur non è preparata.

Riguardavo la filmografia di Gus Van Sant ed è veramente molto varia, sia come toni che come argomenti. Non sono sicura che il suo filone drammatico sia quello che preferisco.

La foresta dei sogni – che oltre ad essere un titolo di merda è anche vergognosamente esplicativo e che quindi d’ora in poi mi rifiuterò di usare – quindi, meglio The See of Trees – titolo, oltretutto, così meravigliosamente adatto – è indubbiamente un bel film. Perfetto e misurato in ogni sua parte. Delicato nell’affrontare un tema che poteva scappare di mano da un momento all’altro. Solo che è un po’ come Restless (L’amore che resta, 2011): bello ma un po’ troppo.

Non so, forse sono io, ma alla terza disgrazia di fila che si abbatte su un solo personaggio finisco col perdere empatia.

Poi, per carità, McConaughey e Watts sono dei mostri di bravura – lui in particolare – e la costruzione della storia è tale per cui, nonostante i toni tristi, riesce a evitare bene i rallentamenti. Però…

Però.

C’è un momento preciso in cui capisci dove sta andando a parare e dici no, cazzo, non può farlo davvero. Eppure il buon Gus lo fa. E forse pecca un po’ di eccesso di dramma – quanto meno a livello di trama visto che il fronte della recitazione rimane molto contenuto.

Cinematografo & Imdb.

THE SEA OF TREES

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Questo esce il 28 aprile, ossia la prossima settimana.

Resta da capire come sia possibile che, pur passando l’esistenza a guardare trailer, cercare film e altre amenità a tema, io non mi sia assolutamente accorta del fatto che Gus Van Sant stesse facendo un film con Matthew McConaughey e Naomi Watts.

Un film che, tra l’altro, ha partecipato a Cannes 2015.

Boh, ogni tanto vengo rapita dagli alieni.

Resta anche da capire in quale lingua The Sea of Trees voglia dire La foresta dei sogni.

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Gus Van Sant è un regista che amo molto anche per la sua capacità di cambiare continuamente generi e tematiche. Difficilmente si ripete, e il suo stile ben si adatta di volta in volta al nuovo contesto. E’ un regista dall’impronta delicata, non invasiva, capace di raccontare le realtà più diverse in modo coinvolgente ma senza inutili eccessi di pathos.

A quindici anni esatti di distanza da Will Hunting, ritorna a lavorare con Matt Damon per raccontare la storia di due rappresentanti di una grande multinazionale del gas che girano per le campagne povere degli stati centrali degli Stati Uniti per comprare dai contadini, spesso già in difficoltà, la terra da trivellare per installare i pozzi. Vendono il gas come l’unica speranza per il futuro. Vendono il sogno di milioni di dollari. Vendono l’emancipazione dai vincoli economici e dalle necessità. Vendono un futuro che presentano come l’unica possibile alternativa ad un lungo declino.

Steve (Matt Damon) è bravo nel suo lavoro e, quel che è più importante, crede davvero in quello che fa. Viene lui stesso dalla campagna e ha un’esperienza personale a supporto delle sue motivazioni. La sua collega, Sue (Frances McDormand) è forse un po’ meno motivata di lui ma non si fa domande, non si pone troppi problemi. A casa ha un figlio da cui tornare. Quello che fa è solo lavoro.

All’inizio sembra tutto fin troppo facile, l’accoglienza calorosa, gli abitanti della piccola città interessati, quasi entusiasti. Poi gradualmente tutto comincia a scricchiolare. Ci sono i dati diffusi su internet che contrastano con le parole di Steve. Ci sono le voci sui danni irreparabili causati alla terra dalle trivellazioni. C’è un professore che insinua il dubbio nei propri concittadini e un ambientalista che mette in atto una campagna serrata contro questa enorme società.

C’è l’assolutismo con cui inizialmente Steve abbraccia la sua causa che comincia a  vacillare di fronte a realtà e verità che forse per primo aveva scelto di ignorare. Molto bello il modo in cui è reso questo passaggio evolutivo del personaggio, senza troppe parole, senza un vero capovolgimento di quelli che siamo abituati a vedere in molti film americani, ma con un discreto mutare di gesti ed espressioni fino ad un episodio – uno solo – che segna veramente un punto di svolta nella vicenda.

Ottima come sempre Frances McDormand, in un ruolo duro ma molto ricco e anche Matt Damon offre un’interpretazione impeccabile, basata molto su un’espressività discreta e molto impregnata del non-detto.

Accompagnato da una buona dose di polemiche – i petrolieri americani che non volevano farlo uscire, gli arabi che figurano invece nella produzione (Imagenation Abu Dhabi Fz) – se per la tematica può riportare alla mente Erin Brockowich, di fatto si sviluppa in tutt’altra direzione e si limita a ritrarre una situazione ancora ben lontana dal trovare una soluzione.

Non c’è lo schema classico di redenzione-ribellione-vittoria. C’è il divario sempre più evidente tra la realtà che Steve crede di conoscere e quella che invece si trova a dover fronteggiare con sempre meno frecce al suo arco. E c’è la scelta che tutti devono fare, la decisione che alla fine tutti devono prendere.

Da vedere.

Cinematografo & Imdb.

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Bello è bello, per carità. Ma che massacro.

Non ho visto proprio tutto di Gus Van Sant ma sono comunque abbastanza certa che questo sia il suo film più triste.

Una struggente e delicatissima storia d’amore tra una ragazza, Annabel (Mia Wasikowska), a cui restano solo tre mesi di vita a causa di un tumore al cervello e un ragazzo, Enoch (Henry Hopper – al suo esordio), dalle potenziali tendenze suicide, che non riesce a rielaborare il lutto per la perdita dei genitori in un incidente stradale e passa il tempo imbucandosi ai funerali e giocando a battaglia navale con Hiroshi, il fantasma di un ragazzo, kamikaze giapponese della seconda guerra mondiale.

Drammatico, su questo non ci piove. Non melodrammatico. Le parole chiave che salvano il tutto sono “delicatissima” e “fantasma”. Non c’è traccia dell’autocommiserazione compiaciuta dei film a tema malattia terminale che andavano tanto di moda negli anni Novanta. Non ci sono le lunghe trafile mediche e le accurate descrizioni delle miserie della malattia. La situazione si capisce per immagini, tramite ellissi e allusioni. E basta e avanza. Solo nei dialoghi tra Annabel e Enoch le cose vengono chiamate con il loro nome. Come se alla fine solo loro ne avessero il diritto poichè le portano sulla propria pelle.

Annabel deve morire ma è piena di una serenità e di una voglia di vivere travolgenti. Enoch deve vivere ma non ha nè interesse nè una vera energia per farlo davvero. Hiroshi lo accompagna e cerca in qualche modo di guidarlo anche nel rapporto con Annabel che, anche se non riesce a vederlo, accetta la sua presenza come naturale. La figura del fantasma è un elemento che in qualche modo stempera la drammaticità, conferendo un tono leggero e surreale anche a ciò che leggero non è. Ha la stessa funzione del milkshake al funerale. Sdrammatizzare anche quello che non si può sdrammatizzare. Riportare la morte alle sue proporzioni di elemento – uno tra tanti, uno qualsiasi – della vita. Il fantasma incarna la conflittualità di Enoch con la morte, ma al tempo stesso la sua familiarità con essa per averla vissuta anche in prima persona, a seguito dell’incidente.

Il fantasma è anche una delle chiavi per interpretare il titolo (l’originale, Restless, non quella schifezza italiana de L’amore che resta, per carità), poichè Hiroshi non trova pace per una cosa che non ha fatto in vita. Anche Enoch non trova pace e non riesce a stare lontano dalla morte cui la sua vita è stata strappata così arbitrariamente.

Annabel. Una dolce Amélie condannata e apparentemente fortissima. A ripensare il suo personaggio dall’esterno, sembrerebbe forse fin troppo perfetta, troppo bella e saggia nel suo affrontare la morte imminente, per essere  vera. Eppure a vederla non c’è traccia di forzatura, ma anzi un’estrema naturalezza.

Entrambi gli attori sono molto bravi e molto belli in questi due ruoli solitari e malinconici: si muovono sullo sfondo di un autunno esteticamente perfetto, nei loro vestiti retrò, con i loro passatempi diversi e lontani dalla quotidianità scolastica dei loro coetanei.

A completare il tutto le musiche, come sempre azzeccatissime, di Danny Elfman.

Morale, ho retto bene fin quasi alla fine salvo poi continuare a lacrimare e a tirar su col naso ancora per cinque minuti buoni di Tremors 4 che ho beccato a caso su non so che canale (chiedendomi anche, tra un singhiozzo e l’altro, quando diavolo fosse uscito il 4 e perchè me lo fossi perso).

Poi, boh, sarà che passati i trenta la mia emotività è diventata del tutto ingestibile, ma è davvero un film bello ma tanto tanto triste.

Cinematografo & Imdb.

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