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Archive for the ‘D. Argento’ Category

Quando ho sentito che volevano fare il remake di Suspiria ho provato coerentemente un brivido di terrore.

Perché, che piaccia o non piaccia Dario Argento, Suspiria è comunque un classico del genere. Forse non archetipico nell’immaginario quanto un Profondo Rosso ma non ci andiamo tanto distanti.

Poi ho sentito che il remake era di Guadagnino e ho detto vabbè.

Poi ho visto che c’era Tilda Swinton e ciao proprio. Neanche la presenza di Dakota Johnson è bastata a dissuadermi.

In pratica, ho visto questo film perché c’era Tilda.

E mi sono piazzata in sala con sguardo critico e un sopracciglio rigorosamente alzato in piena modalità ok-do-your-magic, con tutto il sarcasmo applicabile alla cosa.

Che tra l’altro, prima di entrare in sala non mi ero neanche accorta che dura 152 minuti il che ha ulteriormente aumentato la mia maldisposizione di partenza.

Detto ciò. Gli dei conservino lungamente Guadagnino perché ha fatto veramente un capolavoro.

Già dopo i primi minuti il mio sopracciglio si era riposizionato a livello dell’altro e dopo la prima mezz’ora ho smesso del tutto di pormi il problema del remake per godermi il film.

Suspiria 2017 è di una potenza incredibile.

La colonna sonora di Tom Jorke accompagna una sceneggiatura che da un lato omaggia il film originale con moltissimi riferimenti e dall’altro la amplia, sviluppandone a fondo tutte le potenzialità inespresse.

Sempre ambientato in Germania, qui siamo in una Berlino divisa in cui il contesto storico è molto più presente rispetto al primo film creando un contrappunto molto stretto tra il Male nell’accademia di danza e il Male che ancora imperversa nel mondo in quegli anni.

Attraverso sei atti e un epilogo prende vita la storia di Susie Bannion, ballerina dell’Ohio, trasferitasi a studiare danza in Europa.

La storia di base è rimasta quella originale.

Nella scuola di danza succedono cose strane e le donne che la gestiscono altro non sono che una congrega di streghe.

Quindi, da un punto di vista strettamente di trama, non c’è la tensione della sorpresa sullo svolgersi della vicenda.

Cionondimeno la tensione si crea molto efficacemente e soprattutto non ha un attimo di cedimento per tutta la durata del film.

Visivamente curatissimo, molto incentrato sulla danza con le sue possibili valenze simboliche e rituali, Suspiria 2017 è un ballo di morte e resurrezione, un sabba moderno affascinante e letale.

Più che sul terrore nudo vero e proprio, Guadagnino punta sull’angoscia. Una sensazione di angoscia stringente e claustrofobica che, in definitiva, risulta molto più inquietante della paura stessa.

Alcune sequenze sono costruite in modo fenomenale da questo punto di vista, una per tutte – un piccolo spoiler –  la danza in parallelo di Susie – impegnata in una prova – e di una compagna di ballo chiusa in una stanza di specchi. Ad ogni salto di Susie, ad ogni movimento di Susie, ad ogni strattone, allungamento, scatto corrisponde un analogo movimento della ragazza nella sala che viene sballottata, lanciata, disarticolata e spezzata come in un rituale voodoo. E’ una sequenza piuttosto lunga ed è meravigliosamente disturbante.

Come anche molto disturbanti, oltre che bellissime, sono le sequenze semi oniriche.

Nel ruolo di Susie abbiamo Dakotan Johnson, curiosamente poco fastidiosa, con una recitazione piuttosto asciutta e senza le sue solite smorfie da aspirante superseduttrice.

E poi, meravigliosa, superba e fantastica, abbiamo Tilda Swinton nel ruolo sia di Madame Blanc sia del Dottor Klemperer, un anziano psicologo che si trova ad indagare sulle strane vicende che ruotano intorno alla scuola di danza.

Una Madame Blac carismatica, fredda, potente e bellissima. Una Tilda Swinton perfetta e intensa che mi ha ricordato gli anni di Orlando.

Nel cast anche Mia Goth, che non ho ancora capito se mi piace o meno ma era comunque adatta alla parte.

Cameo per Jessica Harper, la Susie del ’77.

I tempi e i modi della recitazione sono ovviamente più vicini al canone tradizionale rispetto al film originale ma si nota comunque un’impronta di lentezza e di sospensione che pare essere un tributo al primo Suspiria.

Così come la ricostruzione di alcune scene – le porte scorrevoli all’inizio – o l’impiego di effetti speciali non (quasi) digitalizzati ma fatti alla vecchia maniera, con trucco e sangue.

Splatter in generale moderato ma efficace con non pochi ammiccamenti allo stile di Dario Argento.

Dario Argento che non pare aver particolarmente apprezzato il remake perché, a suo dire, poco spaventoso e con poca musica.

Sarà. Immagino che ogni autore abbia una sensibilità propria per le sue opere. D’altronde a King non piace lo Shining di Kubrick.

In ogni caso per me questo Suspiria è stato una bellissima sorpresa.

Molto molto consigliato.

Cinematografo & Imdb.

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In uscita il 1 gennaio 2019.

Sono piuttosto preoccupata, in verità. Dario Argento ha uno stile troppo personale per poterne fare un remake. E Suspiria è un tale classico.

Non so. D’altro canto mi incuriosisce anche perché è di Guadagnino e perché c’è la mia amata Tilda Swinton.

Facevo volentieri a meno di Dakota Johnson ma pazienza.

 

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Un pomeriggio stavamo ascoltando il notiziario di Radio Montecarlo, quando a un certo punto lo speaker disse – un po’ tra le righe, fra le curiosità, che in America era stato scoperto l’autore di un omicidio grazie agli insetti presenti nella stanza in cui si era consumato il delitto: le larve sul corpo della vittima, infatti, erano servite a stabilire il momento esatto del decesso. La notizia mi colpì molto, e rimase a dormire dentro la mia memoria in attesa di germogliare.
[…]
Nel frattempo l’idea degli “insetti-detective” continuava a farmi visita: dopo aver sentito quella notizia alla radio avevo preso a documentarmi con sempre maggiore interesse, fino al giorno in cui m’imbattei negli studi del professor Marcel Leclercq – il vero pioniere dell’entomologia forense. Scoprii così che era davvero possibile utilizzare gli insetti per stabilire le cause di morte alla base di alcuni fatti di cronaca rimasti irrisolti. Ad esempio se si sigilla una stanza in cui è stato commesso un omicidio e si analizzano le forme di vita presenti nell’ambiente, è possibile capire se è stato esploso un colpo d’arma da fuoco (alcuni microrganismi muoiono in corrispondenza di un proiettile che attraversa l’aria), o se la vittima è stata avvelenata (il cadavere rilascia una serie di sostanze che intossicano un tipo particolare di insetti).

Phenomena è l’ottavo film di Dario Argento e per chi ne è un cauto estimatore e apprezza con riserva la sua produzione, si colloca in quel punto controverso della sua filmografia in cui molti identificano l’inizio della sua decadenza.

Nell’87 seguì Opera che, se è vero che ebbe comunque una notevole risonanza (e alcune sue scene fanno tuttora parte di un certo tipo di immaginario horror condiviso), è pur vero che a molti non piacque.

Con Phenomena si ritorna un po’ alle atmosfere di Suspiria, per il fatto che l’ambientazione è di nuovo un istituto femminile.

Protagonista una giovanissima e ancora sconosciuta Jennifer Connelly – al suo primo vero ruolo dopo la piccola parte in C’era una volta in America – che veste i panni di Jennifer Corvino, ricca figlia di un noto attore americano, abituata ad interagire con gli assistenti di suo padre e con il personale assegnatole più che con il padre stesso, riservata, un po’ solitaria, e dotata di una curiosa capacità di entrare in sintonia con gi insetti. Gli insetti non le fanno del male. Le vogliono bene. La sentono.

Nelle vallate circostanti il collegio, alcune ragazze sono misteriosamente scomparse. Finora sono state ritrovate solo parti di alcuni corpi.

Ad aiutare la polizia nelle indagini c’è un anziano entomologo paralitico (Donald Pleasence) che vive assistito da Inga, uno scimpanzè ammaestrato.

Lo scienziato analizza le larve e gli insetti presenti sui resti ritrovati per fornire ulteriori informazioni sulle possibili circostanze della morte (parte, questa, costruita in base alle teorie apprese da Argento nella sua fase di documentazione).

Per tutta una serie di circostanze – in cui anche l’elemento del sonnambulismo ha una parte rilevante – Jennifer entra in contatto con questo entomologo che, oltre a spiegarle la reale natura del suo legame con gli insetti, le chiederà di servirsene per aiutarlo a smascherare l’assassino.

Il 1984 fu l’anno delle mosche.

In un primo tempo, per le sequenze in cui era prevista la loro presenza, avevo pensato di ricorrere a degli insetti meccanici. Ma le prove che avevo visto non mi soddisfacevano affatto […]. Allora mi venne in aiuto Maurizio Garrone, che era stato fondamentale quando in Suspiria si era trattato di realizzare la famosa scena delle larve che cadono dal soffitto. Fu proprio lui, infatti, a mettersi in contatto con diversi entomologi e allevatori, e alla fine riuscì a procurarsi circa sei milioni di larve di mosca.
[…]
Mi spiegarono che non era possibile esporre le mosche sotto i riflettori per più di pochi minuti: il calore sviluppato dalle luci avrebbe finito per bruciare i loro corpicini.
[…]
Mi resi però ben presto conto di quanto fosse impossibile dare indicazioni sceniche a un insetto […].
[…]
Soltanto in una scena ricorremmo a un trucco, rudimentale ma efficace: lo sciame che assale il collegio frequentato da Jennifer fu ottenuto versando del semplice caffè macinato in una grande vasca colma d’acqua. Il diffondersi della polvere di caffè nel liquido, e la successiva sovrapposizione in ralenti di questa ripresa alle immagini del collegio, simularono alla perfezione l’attacco degli insetti.

Nel complesso, non lo trovo tra i più spaventosi dei film di Argento, anche se la tensione c’è e molti elementi sono inquietanti. Più che altro è disturbante da un punto di vista strettamente visivo. Non c’è lo splatter sanguinolento di Suspira o di Tenebre – in cui prevalgono gli effetti da arma da taglio, per così dire – ma ci sono moltissimi dettagli di cadaveri in putrefazione. Gli insetti di per sé possono essere un elemento macabro. Personalmente non ho reazioni schifate per l’insetto o la mosca, ma le larve mi fanno piuttosto schifo e quindi tutti gli effetti dei pezzi di cadaveri brulicanti mi han sempre suscitato il sano ribrezzo da horror (molto più che non il mostro finale, per dire).

Famosissima a questo proposito – anche per chi non ha visto il film – è la scena in cui la povera Jennifer Connelly finisce (in modo non proprio strettamente logico, se vogliamo essere pignoli, ma vabbè) a sguazzare in una vasca di pezzi di cadaveri putrescenti – e che, per quanto eccessiva, ha il suo perché in termini di resa perché stai proprio fisicamente male per lei.

Per ricreare la vasca sotterranea che ribolle di cadaveri putrescenti, riempimmo una piscina colma d’acqua riscaldata con la vermiculite, un minerale che opportunamente trattato suggeriva l’idea di larve e lombrichi galleggianti. Oltre a qualche manichino – i resti umani – aggiungemmo all’intruglio yogurt, menta e cioccolato. Al di là dell’aspetto, dunque, per la protagonista starvi immersa non era poi tutta questa tortura.

Mah, se lo dice lui.

Personalmente credo che non sarei più riuscita ad avvicinarmi a nessuno dei tre alimenti per almeno un paio d’anni.

A curare gli effetti speciali compare per la prima volta Sergio Stivaletti, che collabora con Argento ancora oggi.

Nel cast anche Daria Nicolodi – nei panni della rigida Signora Bruckner (che a me continua a ricordare la Frau Blucher di Frankenstein Junior, non posso farci niente, e, se anche non è fatto apposta, non posso credere che non sia venuto in mente a nessuno durante la lavorazione del film) – e Fiore Argento per la sequenza iniziale.

Cinematografo & Imdb.

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“Per questo film sarà vietato l’accesso in sala dopo 10 minuti di proiezione. Intendiamo così proteggere la concentrazione degli spettatori”.

Già ai tempi di 4 mosche avevo chiesto e ottenuto che nei cinema in cui veniva proiettato il mio film non ci fosse l’intervallo. Non mi andava che la gente chiacchierasse, si rilassasse sorseggiando in caffè o fumandosi una sigaretta. Dovevano restare inchiodati alla seggiola, bersi la storia in un colpo solo senza possibilità di tirare il fiato.

Per Profondo Rosso alzai l’asticella della mie richieste: entrare a film iniziato sarebbe stato un delitto perpetrato ai miei danni, mentre fino a prova contraria sporcarsi le mani di sangue era un privilegio riservato al sottoscritto. Del resto era messo bene in evidenza il fatto che riabbracciavo un vecchio amore: “Dario Argento torna al thrilling!” urlavano i flani pubblicitari – storpiando persino la lingua inglese.

Ricordo che i distributori storsero il naso di fronte alla mia proposta: obiettarono che impedire l’accesso in sala per qualche minuto di ritardo sarebbe potuto risultare controproducente. Dalla mia, però, avevo ancora una volta Alfred Hitchcock. Era stato proprio lui, nel 1960, a rivoluzionare per sempre le abitudini del pubblico: quand’ero un ragazzo nei cinema si entrava in qualsiasi momento, anche durante il secondo tempo; il resto del film lo si recuperava assistendo alla proiezione successiva. Ma per il suo Psyco il grande regista aveva messo un veto, lo stesso che volevo venisse applicato ora al mio nuovo film.

Sarò spoilerosa. L’ho già detto nel titolo ma lo ripeto. Un po’ perché sono ipersensibile sull’argomento – non è che perché un film ha 40 anni vuol dire che tutti debbano per forza averlo visto; un po’ perché, davvero, è uno di quelli che è proprio un peccato rovinarsi con delle anticipazioni.

E’ uno di quei film che mi piacerebbe non aver ancora visto per poter rivivere le stesse impressioni di quando lo vidi per la prima volta. La tensione continua e crescente. I tentativi di capire chi potesse essere l’assassino. La sensazione di essere a un passo dalla soluzione. L’immedesimazione con il protagonista e l’opprimente sensazione di ansia. Di essere braccati da qualcuno troppo folle per poter pensare di sfuggirvi.

E comunque, anche ora, conoscendolo praticamente a memoria, ogni volta che mi metto a guardarlo non posso fare a meno di spaventarmi.

Profondo Rosso è un pezzo di storia del cinema. E’ sinonimo di thriller-horror. Col passare del tempo è diventato una sorta di canone esso stesso, per la quantità di elementi che ha introdotto e che successivamente sono entrati a far parte del repertorio referenziale di base per questo genere di film. E’ il film di Dario Argento che hanno visto e ammirato anche coloro che Dario Argento proprio non lo possono sopportare. Anche chi non apprezza in generale il suo modo di fare cinema, di solito finisce col salvare Profondo Rosso.

E Profondo Rosso è un capolavoro.

Di costruzione, di tecnica e di innovazione.

L’idea stessa di costruire un thriller – quindi con una struttura di trama logico-consequenziale, un colpevole e una serie di fatti ricostruibili – innestandolo su una rappresentazione della realtà prevalentemente emotiva e (soprattutto) onirica, dava origine a un ibrido del tutto fuori dagli schemi.

Il film è fatto per catturare lo spettatore sia avvincendolo con lo svolgimento della trama sia, soprattutto, coinvolgendolo emotivamente, trascinandolo a fondo in uno stato di ansia e inquietudine sempre più totalizzante.

E’ come se la prospettiva si spostasse dentro e fuori dalla mente – deviata – dell’assassino ma senza che questo venga in qualche modo esplicitato.

Il fatto che l’assassino non sia svelato fino alla fine ma, di fatto, si veda nella prima mezz’ora di film e il modo in cui si vede è qualcosa che va oltre la definizione di geniale.

Il mio protagonista, nel tentativo di soccorrere la medium ormai priva di vita, doveva percorrere un lungo corridoio abbellito da quadri antichi e cornici di ogni genere – una versione non troppo diversa dal corridoio che io stesso ero stato costretto ad affrontare ogni notte da bambino. E il killer, provando a mimetizzarsi contro un quadro che rappresentava un insieme scomposto di volti, si sarebbe in realtà messo in bella vista piazzandosi a favore di uno specchio. L’impavido pianista, e insieme a lui lo spettatore, per un solo istante avrebbe registrato la sua faccia: ma tanto bastava. All’epoca non c’erano supporti per rivedere i film, né tantomeno per bloccare un singolo fotogramma. Avrei mostrato a tutti l’assassino, senza che nessuno se ne rendesse conto.

E ora, ogni volta che lo vedo, fermo per un momento l’immagine sul fotogramma del volto di Clara Calamai riflesso in quello specchio e ogni volta mi stupisco della semplicità e della perfezione di quell’espediente. Perché se non lo sai, davvero non la vedi. Ti passa davanti al naso, ma sei talmente immedesimato in Mark-David Hemmings che è fisicamente impossibile che tu la noti. La sovrapposizione di visione tra lo spettatore e il protagonista è già completa.

E poi l’estetica dell’omicidio, come la definisce Dario stesso, che si delinea in modo sempre più dettagliato film dopo film e che ha fatto scuola per certi elementi che sono diventati sia un marchio di fabbrica sia un must del genere, radicandosi saldamente nell’immaginario collettivo. Basti pensare ai guanti di pelle nera dell’assassino.

[…] l’assassino in guanti neri seguiva un preciso rituale prima di commettere le sue efferatezze. Si truccava gli occhi, contemplava le sue armi, e indugiava a lungo su alcuni piccoli oggetto, che potevano essere tanto reali quanto proiezioni della sua mente malata. Dovevo dire grazie allo Snorkel, un’avveniristica microcamera snodabile che funzionava col principio dell’endoscopia […].

Le scene di violenza non sono forse tanto dettagliate quanto saranno nella produzione successiva ma mostrano già il genere di splatter che caratterizzerà poi gli horror veri e propri.

Dall’accetta che si abbatte sulla medium, alla scrittrice Amanda Righetti (Giuliana Calandra) affogata nell’acqua bollente, al professor Giordani (Glauco Mauri), massacrato contro gli spigoli dei mobili e poi pugnalato, fino alla celebre scena della decapitazione di Clara Calamai con la sua collana che resta impigliata nell’ascensore in movimento (un trucchetto che a Dario piacque e che riutilizzò anni dopo anche in Trauma, se non ricordo male).

A fare più paura però, come sempre, non sono le scene cruente in sé, quanto i particolari al contorno. Le bambole impiccate a casa della Righetti, tanto per fare un esempio. O il pupazzo meccanico che compare a casa di Giordani. E che nessuno voleva inserire. Tutti quelli coinvolti nella lavorazione l’hanno ostacolata, la scena del pupazzo. Non volevano fargliela girare. Personalmente, come ho già avuto modo di esternare, sono piuttosto terrorizzata da bambole, bambolotti & affini, quindi magari son di parte, ma per me quella scena è una delle più inquietanti in assoluto.

Insieme alla casa. La bellissima villa Scott, sulla collina di Torino, che all’epoca era un istituto gestito dalle suore. Alle suore e alle ragazze della struttura venne pagata una vacanza e il film ottenne la sua Villa del bambino urlante.

Se piazza Cln, con la famosissima sequenza del primo omicidio, è quella che ha sancito definitivamente l’associazione di Torino con Dario Argento, anche la villa ha goduto per un consistente periodo di tempo dell’inquietante fama derivata dal film.

E poi la colonna sonora. Non solo il pezzo, anch’esso storico, composto dai Goblin, ma anche la canzoncina infantile dell’antefatto, che poi accompagna anche gli omicidi. Composta da Giorgio Gaslini, si tratta di una musichetta tutta dissonante, cantata da una voce femminile accompagnata da un carillon, e devo ammettere che pure a distanza di così tanto tempo riesce ancora a spaventare.

Accanto a David Hemmings, una bellissima Daria Nicolodi negli anni della relazione con Argento, poco prima della nascita di Asia, e un giovanissimo Gabriele Lavia nel ruolo di Carlo.

Nel corso della mia carriera ho imparato che se riesci a costruire un universo coerente, per quanto folle esso sia, hai già ottenuto la sospensione dell’incredulità necessaria a raccontare quello che vuoi. L’importante è stabilire fin da subito un patto d’acciaio con lo spettatore: io non ti frego, fidati di me e vedrai che non te ne pentirai.

La gente vuole rassicurazioni, e io mi guardo bene dal fornigliele.

Cinematografo & Imdb.

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“Susy Benner decise di perfezionare i suoi studi di balletto nella più famosa scuola europea di danza. Scelse la celebre accademia di Friburgo. Partì un giorno, alle nove di mattina, dall’aeroporto di New York, e giunse in Germania alla dieci e quarantacinque ora locale”.

Se fino a quel momento l’unica parte di me che compariva nei miei film erano state le mani (anche se nascoste dai guanti), con Suspiria decisi di far sentire per la prima volta anche la mia voce. Sono io che, durante i titoli di testa, do il via alla narrazione con queste poche parole – proprio come il “c’era una volta” delle fiabe.

E l’horror della settimana non poteva essere che questo.

Pur avendolo visto svariate volte e conoscendolo quasi a memoria, non posso fare a meno di stupirmi tutte le volte per l’assoluta genialità di questo film. E per quanto fosse avanti per gli anni in cui è uscito (siamo nel ’77).

Con Suspiria Argento compie definitivamente il passaggio dal thriller all’horror. Cerca l’orrore puro, la paura atavica, irrazionale, incontrollabile. Cerca i mostri annidati nel buio della mente e li trasporta negli angoli bui dei lunghi e inquietanti corridoi di questa scuola di danza dall’aspetto surreale e fiabesco.

Susy Benner arriva nella nuova scuola proprio nel momento in cui un’altra ragazza la sta lasciando perché espulsa. Il giorno seguente scoprirà che questa ragazza è stata aggredita e uccisa la notte stessa.

La scuola di danza è gestita da due anziane sorelle. La direttrice non c’è mai ma un’amica di Susy giurerebbe di averne riconosciuto il respiro dietro una tenda.

Accadono cose inquietanti e non del tutto spiegabili e gradualmente si insinua il dubbio che la ragazza uccisa la prima sera non se ne stesse solo andando ma stesse scappando da qualcosa. Qualcosa dentro la scuola.

Nell’incontro dell’altra sera si è parlato abbastanza di Suspiria e sono emersi particolari interessanti sulla sua genesi.

Oltre al dettaglio delle 1600 inquadrature diverse – in realtà Dario ha anche specificato che è presente un unico doppione, un campo e controcampo che ha dovuto per forza ripetere e non ha proprio potuto evitare, ma a parte questo, le altre sono davvero tutte diverse – il regista ha raccontato di come volesse trasmettere l’idea che le ragazze della scuola fossero in realtà delle bambine. Bambine piccole catturate dalle streghe, proprio come nelle fiabe. E questo è il motivo per cui le maniglie delle porte sono piazzate molto più in alto del normale, per far apparire più piccole le ragazze, come se si muovessero in un mondo di grandi.

L’aspetto fiabesco è molto presente e molto marcato. Il fiabesco gotico della Biancaneve originale, e delle streghe cattive.

In Suspiria, con l’orrore, arrivano le streghe. Le stesse che popoleranno anche gli altri due film che andranno a costituire la trilogia delle Tre Madri, Inferno e La Terza Madre.

Argento ha raccontato di essersi documentato moltissimo prima di girare il film, di aver viaggiato in lungo e in largo per l’Europa in cerca di una strega. Ne ha trovate molte, in effetti. Di vera, neanche una.

Neanche una vera strega cattiva. Una regina nera terribile e immortale come la Mater Sospiriorum che ha invece creato nel suo film.

Inoltre, poiché era il primo film completamente di genere, il passaggio all’horror doveva essere chiaro e inequivocabile fin dall’inizio. Motivo per cui i primi quindici minuti sono costruiti come un susseguirsi ininterrotto di dettagli inquietanti. L’intenzione era quella di catapultare subito lo spettatore in una dimensione di angoscia straniante.

E in effetti la sequenza iniziale di Suspiria è qualcosa che rasenta la perfezione da questo punto di vista. Già solo il particolare delle porte scorrevoli dell’aeroporto appena Susy arriva è qualcosa di geniale (se dopo questa uso ancora una volta l’aggettivo geniale qualcuno mi abbatta, grazie). Non succede niente di strano. Sono porte scorrevoli che si aprono e si chiudono. E’ tutto un gioco di musica, buio e pioggia torrenziale al di là delle porte, vento e l’inquadratura del meccanismo che scorre e arriva a fondo corsa con lo scatto secco di una ghigliottina. Poi il temporale, il tassista che pare non capire, la ragazza che esce di corsa, il portone che non viene aperto, la ragazza di prima che corre nei boschi bui.

Siamo buttati di colpo in una fiaba gotica alla era una notte buia e tempestosa e da qui in poi cominciamo ad avere l’ansia per quello che succederà.

Visivamente poi, Suspiria è un capolavoro. L’edificio della scuola è un perfetto mix di art déco, strutturalismo, Esher e anni Settanta in generale. I lunghi corridoi dalle tinte forti e soffocanti sono l’amplificazione di quei corridoi fisici che Argento confessa di aver sempre trovato terrorizzanti.

L’impiego delle luci, sempre con tonalità estreme prevalentemente rosse e blu, richiama l’Espressionismo tedesco, ha un effetto fortemente disturbante e contribuisce a creare una dimensione alienante. E’ la dimensione onirica e surreale dell’incubo. E’ quello scarto che lascia un passo indietro la verosimiglianza a favore dell’immediatezza della sensazione. E’ pura emotività. Puro istinto.

Gli effetti macabri e splatter non mancano, a partire dal cuore pugnalato in primo piano, tuttavia non sono quelli a fare davvero paura. Al di là del fatto che materialmente la realizzazione di alcune scene può risultare un po’ datata (una per tutte, il pipistrello meccanico – anche se, a dire il vero, fa comunque parte del fascino retrò del film e, in ogni caso, torna sempre il discorso dell’idea di ciò che spaventa più che della sua rappresentazione verosimile), il vero terrore non deriva dal sangue in sé ma dall’atmosfera claustrofobica che si crea. Assolutamente terribile la scena delle larve. Personalmente quella mi ha sempre fatto più impressione di qualsiasi sequenza di sangue.

Il cast.

Nei panni di Susy c’è Jessica Harper.

L’agente della Harper mi rivelò che al momento c’era in ballo un altro film, ma non sapevo quale: il nostro incontro sarebbe stato decisivo. Quando la conobbi, fui molto colpito dal volto. Quei grandi occhioni, i tratti morbidi, la facevano sembrare una bambinetta. Era una novella Alice nel Paese degli orrori, o un’eroina di un film animato della Disney – dunque perfetta per la parte. Aveva già letto la sceneggiatura di Suspiria, e mi disse che le era piaciuta. Solo tempo dopo, quando seppi che aveva accettato, scoprii quale sarebbe stata l’alternativa: Woody Allen la voleva per Io e Annie, ma alla fine lei scelse di lavorare con me – credo perché nel mio film avrebbe avuto un ruolo da protagonista, e intorno a questa faccenda negli anni è stato scritto di tutto.

Altro nome di rilievo nel cast è quello di Joan Bennett, nel ruolo di madame Blanch, la vice-direttrice dell’accademia.

Il suo nome alle mie orecchie era sinonimo di un mostro sacro: Fritz Lang. […] Per quanto mi riguardava, oltre a possedere uno sguardo che avrebbe potuto benissimo appartenere a quello di una strega, solo un pazzo avrebbe rifiutato Joan Bennett […].

E poi Alida Valli, Flavio Bucci e Miguel Bosè, in una particina relativamente minore.

Colonna sonora in collaborazione con i Goblin, con un pezzo che, a mio avviso, è anche più bello di quello di Profondo Rosso (e che so di aver già postato anni fa, ma qui non si può proprio farne a meno).

[Tutte le citazioni sono tratte dall’autobiografia di Argento, Paura di Einaudi].

Cinematografo & Imdb.

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Sono ancora solo, sono ancora io.

E’ stato un po’ un regalo inaspettato, questa autobiografia.

Amo moltissimo Dario Argento e già da ragazzina avevo divorato tutti i suoi film. Sono profondamente legata al suo lavoro ed è uno di quei posti dove ritorno periodicamente. Perché suona familiare. Perché è un po’ un pezzo di casa.

Ieri sera, 18 novembre, Dario Argento ha presentato Paura, la sua autobiografia, al Circolo dei Lettori qui a Torino.

Insieme a lui, Luca Beltrame, Giulia Carluccio e Marco Peano (editor del libro presso Einaudi).

E’ stato un incontro ricco e divertente. Mi era già capitato di assistere a qualche presentazione di Argento e, dal vivo, Dario è una persona di rara gentilezza e dai modi quieti e garbati. E poi, sarà anche l’accento romano, ma il suo tono sempre leggero trasmette la piacevole sensazione di partecipare ad una chiacchierata informale.

Il libro ho cominciato a leggerlo effettivamente da poco, per cui non posso ancora parlarne per intero.

Alcune cose che avevo già letto sono emerse dai racconti di Dario, ad altre non sono ancora arrivata.

Paura è un testo piacevole e avvincente. La scrittura fluida e fortemente narrativa ripercorre da un punto di vista privilegiato la storia di uno dei più grandi registi italiani contemporanei, ne fa emergere la passione incondizionata. Al tempo stesso è uno spaccato lucido e vivissimo della vita culturale italiana dagli anni Quaranta ad adesso.

Sulla traccia delle domande poste da Beatrice e Carluccio, Dario ha ripercorso episodi ed aneddoti della sua infanzia, della sua formazione, della sua carriera.

L’odore pungente della cipria e dei trucchi di una volta nello studio fotografico Luxardo, di proprietà della famiglia materna. Lo studio fotografico dove passavano tutte le grandi dive di allora e dove il suo amore per quei corpi femminili perfetti e reali – che raffigurerà costantemente nei suoi film – prese vita prima ancora che ne fosse cosciente.

Gli eccessi, la frenesia ma anche il pensiero del suicidio.

Il suo dialogo costante  e diretto con la sua metà oscura, come direbbe il suo amico King.

Aneddoti imbarazzanti ma buffi, qualche tresca sul set e qualche retroscena poco poetico sulle effettive abitudini di alcune attrici del passato.

Le influenze e le collaborazioni con Leone e Bertolucci.

La fuga parigina e la Cinémathèque française.

Il cinema europeo e americano. Tutto il cinema.

Il modo in cui le sue immagini vengono prima di tutto dai sogni e alla logica del sogno fanno riferimento, e il suo sperimentalismo visivo.

L’evoluzione dal thriller, seppur inquietante, alla ricerca dell’orrore puro.

Il perfezionismo e le sfide con se stesso, tra cui quella di Suspiria di non fare nessuna inquadratura uguale all’altra. 1600 inquadrature, tutte diverse.

E la sua indole solitaria, le sue idiosincrasie, la paura dei corridoi.

La paura.

Ero così rapito dal mio fantasticare, che una mattina accadde un fatto curioso. Ricordo che ero solo in casa e, come sempre non appena sveglio mi ero messo subito a lavorare al film. A un certo punto, nel pieno di una scena – l’assassino è appostato dietro una porta e attende la sua vittima – m’immedesimai così tanto da convincermi che in casa ci fosse qualcuno. Cessai per un attimo di battere sui tasti come un forsennato, e mi misi in ascolto. Silenzio. Sapevo che Marisa non sarebbe rientrata prima di sera, eppure quando mi immersi nuovamente nella storia sentii un rumore di passi.

Avevo bisogno di aiuto, di una presenza umana che mi confermasse se stavo impazzendo o meno, ma a quell’ora tutti erano al lavoro. Se avessi gridato chi mi avrebbe sentito? Chi avrei potuto chiamare per tranquillizzarmi un po’, per darmi coraggio? Sollevai il telefono, convinto di trovarlo staccato: invece il tu-tu della linea libera mi inquietò ancora di più. Riattaccai.

Da solo non ci volevo più stare, questo mi era chiaro. E allora presi l’unica decisione possibile: scesi giù dal portiere così com’ero – in pigiama, con le ciabatte – e mi misi a chiacchierare con lui del più e del meno. Era molto simpatico, anche lui come me tifava Lazio e ogni volta ci confrontavamo sulle partite. Mi offrì un caffè che consumammo in piedi, nella guardiola. Io non avevo il coraggio di arrivare al punto, ma neppure quello di tornare a casa. Esaurito l’argomento calcio, mi disse che gli dispiaceva tanto dovermi salutare ma aveva varie faccende da sbrigare. Deglutii prima di parlare. “Ma non è che per caso c’è posta per me? – improvvisai. – Perché aspetto una lettera da un po’ e non è ancora arrivata…”

Insomma, alla fine con una scusa lo feci salire. Lui venne su, gli feci girare tutta la casa e poi lo mandai via. Quella fu la prima volta in cui intuii che se qualcosa che avevo scritto io stesso riusciva a terrorizzarmi così tanto, forse sugli altri poteva avere il medesimo effetto.

E i ricordi della sua Torino, cui è legato da prima ancora di diventare regista. Torino che finisce nei suoi film non tanto per il suo pur affascinante lato di occultismo, quanto perché è proprio bella e soprattutto adatta per farci del cinema. 

La location di pizza Cln sarebbe stata il luogo in cui il killer avrebbe ucciso la medium. Ho sempre avuto una fascinazione per gli scorsi inusuali, e quella piazza così geometrica sembrava appartenere a una città aliena. Marc e il suo collega e amico Carlo (un giovane Gabriele Lavia) si sarebbero trovati lì nei primi minuti del film, vicino alla fontana del Po – sotto gli occhi vigili e minacciosi di quelle due enormi statue risalenti agli anni Trenta. Ormai pensavo molto all’estero, e mi dissi che uno spettatore straniero sarebbe stato certamente colpito da un luogo simile: non era la tradizionale cartolina italiana, quella piazza possedeva qualcosa di insolito, di suggestivo. La illuminai quasi a giorno, e per riprenderla usai la Chapman: un dolly capace di raggiungere i dodici metri di altezza – questo espediente la fece apparire ancora più grande e profonda di quanto è in realtà.

Ma non mi bastava. In quel periodo uscì un libro fotografico su Edward Hopper, e mi venne il desiderio di omaggiare uno dei suoi quadri più famosi: Nighthawks, “i nottambuli”. Consideravo quell’opera d’arte una specie di manifesto dell’iperrealismi che il film aveva al suo interno; e così, poco più in là rispetto alla fontana, fra le colonne dei portici di piazza Cln, feci ricostruitre con precisione assoluta (nelle forme, nei colori, persino nella posa degli avventori) il locale dipinto dal pittore americano. Quello nella mia immaginazione era il Blue Bar, e ora che tutto era allestito alla perfezione la sventurata Helga – interpretata da Macha Méril -, colpevole soltanto di aver avvertito grazie ai suoi poteri la presenza dell’assassino, poteva essere uccisa con una mannaia da macellaio. L’omicidio, dal punto di vista della composizione fotografica vagamente ispirato al celebre Urlo di Munch, sarebbe avvenuto proprio dietro una di quelle finestre che davano sulla piazza.

Proiettata la scena di piazza Cln da Profondo Rosso, oltre a quella delle due vetrate dell’Uccello dalle piume di cristallo e a quella della stanza sommersa di Inferno, sulla quale ha raccontato alcuni dettagli del retroscena per la selezione dell’attrice – sostanzialmente come prima cosa al provino chiedeva all’aspirante come se la cavasse sott’acqua, dal momento che la scena è girata esattamente come la si vede.

La presentazione si è chiusa con un ricordo di suo padre e del loro rapporto dapprima un po’ problematico e poi molto stretto, quando hanno iniziato a lavorare insieme.

A seguire la consueta firma delle copie, con Dario ancora una volta gentilissimo e disponibile a far due parole e a farsi fotografare con tutti.

Mercoledì 19 (oggi) mi pare sia in programma un’altra presentazione alla scuola Holden mentre la prossima settimana assisterà alla proiezione della versione restaurata di Profondo Rosso nell’ambito del Torino Film Festival.

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Mi considero una fan piuttosto fedele di Dario Argento. Penso di aver visto praticamente tutto quello che ha fatto e sono in quella condizione – tipica da fan appunto – che alla fine mi piace anche quando non mi piace, se si capisce il concetto.
E’ pur vero che per Dario Argento bisogna adottare dei parametri di giudizio appositamente dedicati e dimenticarsi tutta una certa abitudine al canone horror a cui Hollywood ci ha assuefatti.

Questa sera sono reduce da Dracula 3D. Dracula secondo Argento.

Sinceramente ero parecchio dubbiosa sul risultato e invece son rimasta persino stupita perchè è un film decisamente raffinato sotto diversi aspetti. Tolto Il Fantasma dell’Opera che era ambientato più o meno a fine Ottocento ma si svolgeva quasi interamente all’interno del teatro, questo è il primo film di Argento di ambientazione interamente storica.

Il 3D è fatto bene anche se, come ormai nella maggior parte dei casi, non aggiunge nulla al film. Splatter ridotto davvero al minimo, sia come inquadrature truculente – pressoché assenti – sia come quantità di sangue – che comunque è davvero troppo chiaro e a volte tende pure un po’ al fucsia. Piccola eccezione, peraltro ben riuscita, la scena in cui Dracula costringe Delbruck a spararsi alla gola e si vede un bel rallentatore del proiettile che attraversa la bocca e poi il palato per uscire dal cranio spalmandone il contenuto sul soffitto.

Enorme debito nei confronti del Dracula di Bram Stoker di F.F. Coppola. Per carità, la storia di partenza è sempre la stessa non è che si possano fare molte varianti, ma la scelta di alcune battute (i figli della notte, che dolce musica fanno in questo e i figli della notte, quale dolce musica emettono nell’altro) e l’impostazione di alcune scene (per esempio quella dove Harker si affaccia alla finestra e vede il Conte camminare a quattro zampe sulle mura, tanto per dire la prima che mi viene in mente) rivelano davvero troppo palesemente l’eredità di quel precedente in particolare.

Il digitale. Volendo sorvolare sul fatto che DA lo usa se non per la prima volta poco ci manca con quei dieci anni abbondanti di ritardo rispetto al resto del mondo del cinema, non offre grandi rielaborazioni. Pessime le fiamme che avvolgono Lucy; assolutamente bocciate. Spesso e volentieri utilizza ancora interiora di maiale per le scene truculente e per una volta che qualcosa va fatta alla vecchia maniera ci mette in mezzo il digitale, ma pazienza. Bocciatissima anche la mantide. Ecco, lì poteva anche prendere l’idea di Coppola e rifare la sagoma fatta di topi.

Kretschmann nei panni del Conte ci sta abbastanza bene (anche se le scene in cui urla e vorrebbe essere spaventoso non sono esattamente il massimo).

Lucy è interpretata da Asia Argento che, per quanto io le voglia davvero bene, dovrebbe smetterla di doppiarsi da sola dato che parla come se si stesse lavando i denti.

Rispolverato per l’occasione un ormai un po’ incartapecorito ma ancora valido Rutger Hauer nei panni di Van Helsing.

La storia è quella nota a tutti, ridimensionata un po’ per l’occasione, trasportata in un piccolo paesino (molte riprese si sono svolte nel suggestivo Ricetto di Candelo) e riadattata su scala decisamente più ridotta, con qualche concessione qua e là e atmosfere giustamente molto goticheggianti.

Musiche ancora una volta di Claudio Simonetti.

Morale. Piacerà come sempre agli appassionati di Argento ma è comunque apprezzabile anche da chi non è strettamente addicted.

Cinematografo & Imdb.

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Sono distratta, deconcentrata e con un sorrisetto ebete stampato in faccia. Stamattina ho preso i biglietti dei Muse per giugno a Torino. Capitemi. Prima o poi riacquisterò una qualche forma di dignità. Già sto facendo enormi sforzi per non infestare questo posto con i loro video. E per non mettermi a squittire. E per cambiare argomento. E comunque sinceramente speravo in una red-zone sotto il palco (no tesoro, non diciamo cazzate, tu speravi in un’opzione del tipo “in braccio a Matt/Dom”) ma non l’hanno fatta e quindi mi accontento del prato. Il che non esclude che venerdì monitorerò le prevendite ufficiali per vedere se per caso la aggiungono (e in tal caso, fammi capire, vorresti ricomprare altri biglietti?). E comunque no, non ho ancora cambiato argomento, adesso arrivo. E sì, forse è il caso di inaugurare una nuova categoria per questo genere di sproloqui e nominarla “segni di cedimento”.

Masters of Horror è una serie americana di film per la tv ideata da Mick Garris e andata in onda anche in Italia tra il 2007 e il 2008. Due stagioni composte da mini-film di circa un’ora, diretti da vari registi. Ovviamente horror.

Dario Argento, nelle sue 100 pallottole, di tanto in tanto, ne inserisce qualcuno e capita così che riesca a beccare qualcosa che non ho ancora visto. Nello specifico, ieri sera davano Contro natura di Joe Dante, Il gatto nero e La casa delle streghe di Stuart Gordon. Va detto che mi sono miseramente addormentata a metà del gatto nero per svegliarmi di soprassalto sulla scena in cui Edgar Allan Poe (qui reclutato tra i personaggi) infilza l’occhio del felino, con il mio gatto nero appollaiato sulla spalliera del divano che mi fissava con inequivocabile risentimento. Della casa delle streghe quindi manco a parlarne. Sono riuscita però a vedere Conto natura. Joe Dante. Quello dei Gremlins!! Ok, perdonate i punti esclamativi, ma mi sono sempre piaciuti un sacco, i Gremlins. Prima e dopo lo spuntino di mezzanotte. Un giorno o l’altro ne parlerò decentemente.

Dicevamo. Contro natura – The Screwfly Solution, 2006, presentato anche al 24° Torino Film Festival e tratto dall’omonimo racconto di Alice Sheldon pubblicato nel 1977 sotto lo pseudonimo di Raccoona Sheldon – è un film con una buona idea di base ma purtroppo pochi mezzi e pochi spazi per svilupparla come meritava. Un’epidemia che colpisce solo gli uomini andando a incasinare il meccanismo per cui normalmente istinti sessuali e pulsioni di rabbia, pur avendo una matrice comune, dovrebbero rimanere separati. Il risultato è che tutti i maschi diventano dei pazzi invasati che in preda ad un delirio che, come se non bastasse, predilige le forme religiose per esprimersi, puntano a liberare la terra dalla donna. Alla base ci sono gli esperimenti condotti su un tipo di insetto infestante che la scienza ha tentato di eliminare tramite una sostanza che agisce bloccando l’istinto riproduttivo del maschio al fine di indurre un’estinzione forzata. Qualcuno ha fondamentalmente rielaborato questa sostanza per renderla efficace sull’uomo. O comunque ha applicato lo stesso principio per liberare la terra dal parassita più infestante, ossia la specie umana. Chi e come, non si sa. O meglio si saprà ma in modo piuttosto sbrigativo. Da quando si capisce che la situazione sta precipitando la conclusione diventa fin troppo frettolosa, sprecando tutta una serie di spunti che avrebbero potuto creare situazioni parecchio kinghiane. Anche sulla parte orrorifica si sarebbe potuto osare un po’ di più e in generale si poteva ampliare un po’ la materia di base del racconto.

Nel cast c’è anche Jason Priestley, che non vedevo più in circolazione dai tempi di Beverly Hills, mentre A. Sheldon viene indicata nei credits del film con il nome di James Tiptree Jr.

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Suspiria

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Sto cercando di seguire 100 pallottole d’Argento su RaiMovie, impresa che si è rivelata più ardua del previsto dal momento che per la seconda serata in genere, se non sono in coma, sono iperattiva e sto tendenzialmente facendo qualcos’altro per cui mi dimentico. Segue scenetta standard in cui io sgrano gli occhi e me ne esco con un “..azz..! Dario!” (manco fosse un mio amico), mi fiondo al televisore, bestemmio per altri cinque minuti perché col digitale terrestre non riesco mai a trovare i canali che voglio (sono refrattaria, sta cosa del digitale non mi è ancora andata giù) finché non approdo al film immancabilmente iniziato. Oltretutto, dato che i film in programma li ho visti quasi tutti, in genere punto a vedermi almeno le intro di Dario Argento, che trovo carine sia per le curiosità che tira fuori, sia perché il suo modo di presentarle ha un che al tempo stesso di surreale e scazzato che mi garba.

Comunque. Ieri sera ce l’ho fatta e mi sono anche guardata il film, dato che non l’avevo mai visto. In effetti non ho mai visto nessuno degli episodi originali del ciclo di Non aprite quella porta, neanche la primissima versione di T. Hooper del ’74, per cui non sono in grado di dare un giudizio sul film in quanto remake.

Di per sé questa versione del 2003 (di M. Nispel) – sulla quale peraltro ho letto critiche pessime – non è poi così malvagia. Siamo a un livello da Notte Horror degli anni ’90, per cui non proprio altissimo, ma si fa guardare nonostante i cliché del genere siano spesso fin troppo palesi. Sì ci sono diverse situazioni che sono un tantino pretestuose e i personaggi non è che agiscano proprio in base ad una logica ferrea, però anche questo, a suo modo, fa parte del genere. E’ il principio di Wes Craven per cui la Ragazza Inseguita dall’Assassino/Psicopatico di turno scappa sempre su per le scale. Poi, la casa e Leatherface. Non so, sarà che a me le carrellate su svariati attrezzi metallici atti a tagliare/infilzare/macellare fanno paura per principio (penso che potrei confessare qualsiasi cosa alla sola vista di un tagliaunghie, se brandito in modo convincente), ma nel complesso si crea anche abbastanza tensione. Leatherface invece non è tra i “cattivi” più spaventosi che abbia mai visto e anche la sua famiglia avrebbe potuto essere molto più inquietante, magari evitando di eliminare l’elemento del cannibalismo.

Un’ultima cosa. L’autostoppista suicida. Esattamente, da dove l’ha tirata fuori quella pistola?

Cinematografo e Imdb.

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