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Archive for the ‘D. Lane’ Category

In una sorta di continuazione ideale degli eventi raccontati da Il Post di Spielberg, con The Silent Man andiamo a ripercorrere la storia del Watergate e di come essa sia venuta alla luce anche grazie all’aiuto fornito a Bob Woodward e Carl Bernstein del Washington Post dall’informatore noto come Gola Profonda.

Peter Landesman ritorna dopo il buon Zona d’ombra del 2015 e mette insieme un thriller di cronaca dai toni asciutti e dal ritmo lineare.

Un immenso Liam Neeson veste i panni di Mark Felt che dopo la morte di J.E.Hoover si trova a dover fare i conti con le ingerenze della Casa Bianca nella direzione dell’FBI e con un drastico cambio di gestione delle politiche di indagine.

Lo scandalo Watergate è una copertura, serve per distogliere l’attenzione ma da cosa?

Anni di segreti, di registri, di ordini e di manipolazioni.

Dopo anni – trenta – al servizio di un’istituzione in cui crede profondamente, Mark Felt si trova sull’orlo di una voragine che si spalanca ai suoi piedi e promette di inghiottirsi tutto. Lealtà, onestà, integrità, idealismo.

L’unico modo per rimanere fedele a ciò in cui ha sempre creduto è tradire tutto ciò in cui ha sempre creduto, ed è così che Felt diventa gradualmente uno degli informatori più famosi della storia.

“Gola Profonda” fu il soprannome che gli venne attribuito, che lo rese celebre e che permise la scoperta e la divulgazione di materiale e notizie di portata storica e di potenza devastante.

Il bel volto espressivo di Liam Neeson regge quasi in solitaria tutto il film, in quello che oltre ad essere lo spaccato di uno dei momenti più bui della politica americana recente, è anche il ritratto di un uomo tormentato, combattuto e schiacciato dai suoi fantasmi, dai suoi ideali e da un sistema ormai impazzito.

Accanto a Neeson, Diane Lane – sua moglie – e anche Bruce Greenwood –  curiosamente presente anche in The Post.

Se da un lato il personaggio di Felt non avrebbe potuto avere ruolo e spazio migliori, difetti del film sono sicuramente una certa lentezza e una certa eccessiva pacatezza di toni. Ben lungi dal voler scadere nel solito format narrativo paragiornalistico dal ritmo serrato e dai personaggi ostentatamente accattivanti, resta il fatto che un po’ più di pathos, empatia, emotività avrebbero conferito al film un’altra carica.

Così com’è rimane un film interessante, ben strutturato e con un’ottima interpretazione ma un po’ carente dal punto di vista del coinvolgimento.

Cinematografo & Imdb.

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Allora. La mia intenzione sarebbe di non spoilerare. Vediamo se ci riesco. Perché in definitiva questo film mi è piaciuto eh, ma ci ho un paio di cosette sullo stomaco e non so se riesco ad esprimerle senza rivelare punti cruciali di questa complessa e assolutamente imprevedibile trama.

Punto primo.

Ben Affleck è il peggior Batman della storia.

E non è perché a me Ben Affleck non piace in generale. E’ davvero terribile.

Comincio a credere che il caro Ben abbia una certa propensione per rovinare supereroi, visto che già nel 2002 ci aveva regalato il peggior Daredevil della storia. E almeno nel 2002 era un po’ più magro.

Qui, tra il fatto che si è ingrossato in modo imbarazzante – apparentemente l’intenzione sarebbe quella di apparire muscoloso, di fatto il risultato è che sembra il pesce palla di Nemo quando si gonfia per sbaglio – e la nuova Bat-Tuta corazzata per resistere alla forza di Superman, il risultato è che l’agile pipistrello a malapena riesce a muoversi e pencola maldestro qua e là.

E poi, diciamolo, penso sia l’unico che riesce a sembrare un coglione anche mascherato, con quella bocca sempre mezza aperta.

A questo si unisce il fatto che nella prima parte di film la trama è deboluccia.

Come ho già avuto modo di esprimere, Superman non è mai stato tra i miei eroi preferiti. Non mi ha mai esaltato più di tanto. Magari è colpa del mantello rosso, visto che diffido anche di Thor, non so. Sta di fatto che non ho visto quasi nessuno dei film recenti su Superman, e nemmeno L’uomo d’acciaio che è il reboot della saga e il capitolo immediatamente precedente a questo.

Anyway, da quel che si intuisce, la storia di questo film prende le mosse dallo scontro finale dell’Uomo d’acciaio che rende Superman una figura controversa mettendo in crisi l’immagine del salvatore univocamente buono.

Entrano in scena concetti come la legittimità del potere e via così.

E fin qui la cosa mi sta anche bene.

Insomma, a tutti i supereroi è successo di venir messi in discussione per la natura inevitabilmente assoluta del loro potere. E a quasi tutti i supereroi è toccata la condanna della massa come in prima battuta è toccata l’adorazione.

E mi sta anche bene tutto il discorso – più o meno fuor di metafora e più o meno simbolico – sul rapporto uomo-dio e su un’umanità che non ha più bisogno di dei. Un’umanità che destituisce e condanna i suoi dei. Un’umanità che vuole vendicarsi della potenza dei suoi dei.

Ok. Tutto questo è molto giusto e anche molto figo, se ben articolato. Rende complessa la figura del supereroe, in particolare di uno come Superman, che non è umano e per il quale il discorso risulta particolarmente calzante.

Quello che non mi torna in tutto ciò, è perché diavolo Bruce Wayne di punto in bianco deve avercela così a morte con il povero Superman.

Ecco, questo non sta proprio in piedi.

Sì, è vero, hanno arbitrariamente piazzato la Wayne Tower a Metropolis (e già lì, vabbè…) e gliel’hanno fatta accidentalmente abbattere da Superman. E ok, rimangono uccise persone che lavoravano per Bruce.

Però no. No e ancora no.

Dai, non basta. Non sta in piedi che per questo Bruce monti su una guerra pseudo-ideologica che, nel migliore dei casi, sa molto più di vendetta personale che di crociata da giustiziere.

Tutta la prima metà del film di fatto non decolla proprio perché non è reso in modo credibile il presupposto dell’antagonismo alla base della storia.

E non basta un Jeremy Irons in versione Alfred a salvare un Batman mal costruito come personaggio e ancora peggio interpretato come di attore.

Posto che comunque l’Alfred-Michael Caine per quel che mi riguarda rimane insuperabile, ma questo è ancora un altro discorso.

Diciamo che tutta la sceneggiatura della prima metà del film è da annoverarsi tra i danni collaterali del combattimento di Superman. E’ stata centrata da qualche esplosione vagante e amen.

Di questa prima parte, l’unica cosa che mi è sinceramente piaciuta e che mi ha reso tollerabile il tutto è Lex Luthor.

Ora, spero che Kevin Spacey non me ne voglia, ma Jesse Eisenberg potrebbe quasi essere il miglior Lex Luthor della storia.

Parentesi del disagio. Ma sono l’unica ad essere turbata dal fatto che il nome di Jesse Eisenberg è praticamente il riassunto di Breaking Bad, grafia a parte? Chiusa la parentesi del disagio.

Sì, ok, io ho sicuramente una propensione per i personaggi squilibrati, ma forse proprio per questo li apprezzo tanto quando sono ben fatti.

Il Lex di Eisenberg è un cattivo-cattivo, cosa che è in tono con il personaggio originale, con però l’aggiunta di un atteggiamento teatrale a metà tra il Jocker di Nolan e Tremotino di Robert Carlyle e che, in definitiva, fa sì che ci guadagni in carisma.

E lo so, che queste aggiunte caratteriali non sono invece in tema con l’originale, ma il risultato mi garba ugualmente.

Anni di trasposizioni Marvel mi hanno educata a giudicare separatamente i personaggi dei fumetti originali e le loro versioni cinematografiche.

Sono due mondi collegati, ovviamente, ma molto diversi per contesto e modi di comunicazione. Non vedo perché per l’universo DC il discorso dovrebbe essere diverso.

Ergo, no, non la vivo come blasfemia il fatto di apprezzare un personaggio filmico distante anche anni luce dal suo originale disegnato. E’ un po’ lo stesso discorso che potrei fare per Wolverine. Eddai, a chi non piace Hugh Jackman che fa Wolverine anche se non c’entra una fava con il fumetto?

*e ricevette una carrettata di ortaggi direttamente sulla tastiera*

Comunque. Vado avanti che sennò qui non arrivo più alla fine.

Tra la prima e la seconda parte c’è un momento di passaggio che dal punto di vista della trama era necessario ma che, per come è stato reso, mi ha fatto storcere il naso anche qui.

Ora, non voglio elargire troppi dettagli, ma il succo è che c’è un momento in cui Superman prende davvero un sacco di legnate. Cosa che di per sé, ripeto, ci sta anche. E’ solo che…boh, immagino sia per effetto del fatto che non ritenevo motivata l’ostilità di Batman nei suoi confronti, ma il risultato è che ho trovato veramente troppo cattiva questa parte. Ero proprio sinceramente dispiaciuta per il povero Superman (sempre Henry Cavill). E dire che non mi sta neanche troppo simpatico. E, per contro, ero mortalmente incazzata con Batman che si confermava un inequivocabile coglione.

Poi qualcuno mi ha ricordato che nessuno dei due è reale.

La seconda parte del film migliora sensibilmente e diventa un bel videogiocone, con tanto di big boss preso di peso dalla grafica del Signore degli Anelli I e Harry Potter I (per effetto di una strana proprietà transitiva tra Gentle Giant Studios e Weta Digital), vale a dire che hanno riciclato lo stesso troll con gli occhi laterali come Vincent Cassel. In più questo qui fa scintille e accumula energia in perfetto stile videogioco. E se lo colpisci nei calcagni si inginocchia preciso sputato come i boss intermedi di Prince of Persia, fateci caso.

Ad ogni modo la parte di scontri più o meno finali è divertente.

Tirano in ballo Wonder Woman – una Gal Gadot che non ho ancora capito se mi garbi o meno nella parte perché di fatto qui fa davvero troppo poco per farsi un’idea.

L’unico dubbio che avevo era sullo scudo perché, è vero che c’è in diverse rappresentazioni, ma mi sono persa da dove salta fuori perché non era parte dell’equipaggiamento originale, se non sbaglio.

Viene aperta la strada agli altri membri DC della Justice League ma per il momento si vede ancora troppo poco per dire che piega vogliano dare alla cosa.

Bon, ho finito. E sono anche riuscita a non rivelare niente di compromettente.

Ah, dimenticavo, c’è Amy Adams che fa Lois e Diane Lane che fa la mamma di Superman ed è tanto bella come sempre.

Se siete puristi del fumetto probabilmente vi irriterà oltremodo. Se, come la sottoscritta, vivete i film-fumetto come una sorta di AU rispetto alla continuity originale, probabile che vi divertirete.

Cinematografo & Imdb.

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Bisognerebbe guardare questo film a stretto giro prima o dopo aver visto Il ponte delle spie. E, a pensarci, è una curiosa coincidenza che questi due film siano usciti lo stesso anno, a breve distanza, e partecipino alla stessa edizione degli Oscar. Neanche a farlo apposta, sono entrambi tasselli di quel quadro ampio e complesso che è l’America della guerra fredda, tra gli anni Cinquanta e Sessanta.

Se il Ponte delle spie puntava i riflettori, seppur tramite un caso singolo, sul fronte giudiziario, con Trumbo (il titolo originale è vagamente più sintetico di quello italiano. Da non credere eh?) diamo una sbirciata – letteralmente – dietro le quinte dell’industria hollywoodiana.

Dalton Trumbo è uno sceneggiatore. Già alla fine degli anni Quaranta è tra i più pagati di Hollywood. Ed è anche un fervente attivista per i diritti civili e per i diritti dei lavoratori. Hollywood non è fatta solo di stelle. E’ banale dirlo ma Hollywood va avanti grazie a migliaia di lavoratori anonimi. Migliaia di tecnici che muovono gli ingranaggi di questa pachidermica macchina da soldi.

Dalton Trumbo organizza scioperi di categorie. Si fa portavoce di rivendicazioni economiche ed egualitarie. E, tra le altre cose, ha anche la tessera del Partito Comunista.

La guerra è finita.

La guerra è appena cominciata.

Una guerra ideologica e subdola. La guerra fredda.

E allora si vede come la democraticissima America, paladina della giustizia e sempre pronta a schierarsi in difesa degli oppressi, violasse tranquillamente gli emendamenti della sua stessa beneamata costituzione.

Si vede come il Congresso si arrogasse arbitrariamente il diritto di sindacare sull’appartenenza politica del singolo individuo e pretendesse di conoscerne il voto.

Si vede come venissero stilate liste nere di persone indesiderate in quanto antiamericane.

Si vedono le ondate di odio e isteria collettiva.

Proprio a proposito del Ponte delle spie riflettevo di come sia turpe e banale il meccanismo della massa per cui basta identificare un nemico. Basta avere qualcuno contro cui accanirsi, da ritenere colpevole di tutto il male possibile.

E si vede, soprattutto, l’avvilente analogia di schemi e linguaggi che si trovava oltreoceano, nella tanto demonizzata Unione Sovietica. Sempre per le coincidenze, proprio in questo periodo ho finito di leggere un libro di cui tra un po’ parlerò anche e che, tra le altre cose, illustra in modo preciso e raggelante i meccanismi del regime sovietico, quindi le analogie a livello di dinamiche istituzionali mi sono balzate agli occhi in modo ancor più scioccante.

Poi, certo, gli Stati Uniti avevano, per fortuna, un altro contesto e un altro retroterra culturale, dotato di maggiori armi in difesa delle libertà rispetto all’allora URSS.

Però resta il fatto che gli anni Cinquanta in America – sì, proprio quei bellissimi anni Cinquanta alla Grease – sono stati anni di caccia alle streghe. Caccia spietata.

Il 1953 è l’anno dei Rosenberg condannati a morte.

Il 1953 è anche l’anno in cui Trumbo vince l’Oscar per Vacanze Romane, la cui sceneggiatura però porta il nome del collega Ian Mc Lellan Hunter, perché lui era già stato estromesso dal circuito e non poteva più lavorare.

Per anni scrive sotto falsi nomi.

Nel 1956 – l’anno prima dell’arresto della presunta spia Rudolf Abel del Ponte – vince un’altra statuetta per La più grande corrida, sempre sotto falso nome.

Gli anni Cinquanta sono stati anni di guerra.

Una guerra che non bombardava e non lasciava macerie ma che licenziava e lasciava nella più completa disperazione e solitudine.

La disperazione di chi veniva etichettato ed emarginato. Improvvisamente nemico in casa propria, destinato a porte sbattute in faccia e rifiuti e povertà.

Dalton Trumbo ha combattuto, si è infilato nel sistema, lo ha sfruttato e lo ha sconfitto con le sue stesse armi, giocando sul suo stesso terreno e riuscendo a riconquistare il suo nome e il suo diritto con quei due grandi pilastri della storia del cinema che sono Exodus di Otto Premiger e Spartacus di Kubrick.

Ma per una voce che è riuscita a farsi sentire, centinaia di altre sono state soppresse nell’ingiustizia e nell’oblio.

Ed è un pensiero agghiacciante.

Il film di Jay Roach è basato sulla biografia di Trumbo di Bruce Cook ed è costruito in modo interessantissimo.

Per chi è appassionato di cinema, o anche solo per chi abbia un po’ di conoscenza dei grandi nomi del cinema di quegli anni, scoprire i retroscena riguardanti alcuni personaggi notissimi come John Wayne o Kirk Douglas fa un po’ l’effetto di una collisione tra due mondi.

Forse si ha sempre un po’ la tendenza a considerare Hollywood come un mondo a parte e questo film illumina invece in modo chiaro e impietoso gli innumerevoli collegamenti tra il mito dorato delle scene e la realtà, spesso sgradevole, delle basse macchinazioni di politica e denaro che si muovono appena oltre la linea d’ombra.

Trumbo è interpretato da un spettacolare Bryan Cranston, candidato a miglior attore e per il quale non faccio il tifo proprio solo per non fare uno sgarbo a Leo. E che comunque finora è l’unico che mi impensierisca sul fronte pronostici degli Oscar – nel senso che non è così remota la possibilità che freghi la statuetta a Di Caprio (anche se negherò di aver mai detto una cosa del genere).

Tutto il cast è ottimo, a partire da Diane Lane – che, permettetemi il giudizio poco tecnico, diventa sempre più bella con gli anni – fino a Helen Mirren (odiosissima) e John Goodman. Bel ruolo anche per Elle Fanning, che si sta dimostrando decisamente più consistente della sorella Dakota.

Secondo me poteva starci anche una candidatura per la sceneggiatura non originale.

Da vedere assolutamente.

Cinematografo & Imdb.

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Riflessioni sparse del giovedì.

Lavorare in un ambiente (quasi) esclusivamente femminile provoca inevitabilmente misoginia. E’ fisiologico.

Apparentemente slegati ma intimamente connessi a questo fenomeno: i clichè.

Odiati, evitati come la peste, incarnazione di tutto ciò che è male. Ma se esistono, purtroppo, un motivo c’è quasi sempre.

Non che questo mi induca a rivalutarli, semplicemente serve a focalizzare meglio che cosa detestare.

E sempre per rimanere in tema di donne e cliché, l’altra sera mi sono imbattuta in questo.

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Unfaithful (2002). Titolo sapientemente arricchito nella versione italiana con L’amore infedele. Grazie, davvero, se ne sentiva il bisogno.

Io giuro che non avevo intenzione di vederlo. Poi, un po’ per il fatto che il televisore in cucina, per qualche ragione che tuttora mi sfugge, prende pochi canali del digitale, un po’ perchè lo stavano dando su Iris che in genere ha un livello decoroso, mi sono ritrovata a guardarlo fino alla fine.

La storia è standard che più standard di così si muore. Coppia di mezz’età, famiglia perfetta con tanto di figlio, cane e casa strafiga nei dintorni di New York. Lei (Diane Lane – che è comunque sempre bella, questo va pur detto) incontra per caso un affascinante (?) giovane intellettuale (??) che le scatena la passione repressa che evidentemente nella dorata normalità del suo matrimonio latitava.

Sfilata di cliché – appunto – sulla donna che diventa preda di un’attrazione incontrollabile mista a sensi di colpa e che, in quanto innamorata, si rincoglionisce al punto di non riuscire neanche più a gestire un’acqua che bolle. E neanche il marito (Richard Gere – sempre brutto, anche questo va pur detto) ne esce tanto meglio. Tra indizi discreti quanto un’insegna al neon e goffi tentativi di non vedere la realtà.

Date le premesse, bisogna almeno concedere che l’evoluzione finale fa un tentativo – per quanto inutile – di elevarsi un po’ – ma proprio pochino – al di sopra della melma di ovvietà in cui sguazza.

C’è però un elemento che ha reso non del tutto vana questa visione. La filmografia del regista, Adrian Lyne (cito solo i principali):

Flashdance (1983)

9 settimane e ½ (1986)

Attrazione fatale (1987)

Proposta indecente (1993)

Prima considerazione. Ma il regista di Flashdance è lo stesso di 9 settimane e ½?!? E oltretutto. Com’è possibile che non l’abbia mai saputo?!? Son cose che fanno riflettere.

Seconda considerazione. Non ha per niente la fissa della donna travolta da passione ingestibile. Assolutamente no, anzi, è un argomento che gli sta pure un po’ sul culo.

In definitiva, il film potete perdervelo tranquillamente; io, in ogni caso vi metto lo stesso i link.

Cinematografo e Imdb.

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