Diciamolo subito. Youth è un film tutt’altro che perfetto. E’ un film che ha un sacco di difetti, alcuni anche macroscopici. Eppure è un film bellissimo. Di una bellezza prepotente che si impone su tutte le pecche e che neanche la più scontata delle banalità riesce a scalfire.
Per certi versi Youth è una sorta di seguito ideale de La grande bellezza. E’ come se fosse La grande bellezza all’ennesima potenza.
Ancora. E’ Sorrentino stesso ad essere all’ennesima potenza. E’ tanto, forse anche troppo, se stesso. E’ un po’ come se stesse cercando il limite, come se volesse vedere fin dove può spingersi con le sue ossessioni, con l’amplificazione del suo modo di girare.
I campi lunghi e le inquadrature fisse che creano l’equivalente di fotografie viventi. L’estetica portata all’estremo con la costruzione maniacale di ogni singolo dettaglio. L’ossessione per il corpo con i nudi sicuramente non volgari ma a volte un po’ estemporanei. Una bellezza artificiale e ultraricercata che vuole essere struggente a tutti i costi, che esige la totalità. Una grande bellezza davvero. Enorme.
E’ anche un film molto pretenzioso, questa Giovinezza. A partire dal titolo ambiguo che di fatto non viene davvero motivato ma apre alla più ampia molteplicità possibile di significati oltre all’ovvio contrasto con la condizione dei protagonisti.
Sullo sfondo di un lussuosissimo albergo nelle Alpi si intrecciano scorci di esistenze che nulla paiono avere in comune se non l’esigenza di ritirarsi momentaneamente dalla vita.
I residenti della struttura sono tutte persone ricche, più o meno di successo. Tutte in pausa, per così dire. O al termine della propria carriera o in un momento di svolta, o temporaneamente in cerca di nuove energie per ripartire.
Attori, modelle, sportivi. Non c’è niente che li lega, se non il fatto di essere lì.
Fred Ballinger e Mick Boyle sono amici da tutta la vita. Fred (Michael Caine) è un direttore d’orchestra e compositore ormai ritiratosi mentre Mick (Harvey Keitel) è un regista alle prese con la sceneggiatura di quello che dovrebbe essere il suo film-testamento.
La figlia di Fred, Lena (Rachel Weisz) è sposata al figlio di Mick e si occupa di gestire gli interessi e gli strascichi residui della vita professionale del padre.
E poi c’è Jimmy Tree (Paul Dano), un attore che cerca il senso del nuovo ruolo che dovrà interpretare.
E Maradona (o il suo fantasma).
E un monaco buddista che dovrebbe saper levitare.
Il ritmo delle giornate è quello di Fred e Mick, la voce quella dei loro dialoghi stanchi e familiari allo stesso tempo. Dialoghi di miserie quotidiane e di grandi verità buttate lì in modo troppo ostentatamente casuale per risultare davvero efficaci ma che comunque non riescono a stonare.
Una continua, ininterrotta riflessione sull’esistenza e sull’arte che presenta diversi punti deboli – perché ci sono passaggi che, si intuisce, si vorrebbero memorabili ma, di fatto, non sono nulla di nuovo – e che tuttavia coinvolge, e avvolge con la delicata e forse ingenua malinconia di chi ha fatto tutto e forse non ha fatto niente. Con l’umanità immediata di grandi personaggi che non sono altro che piccoli uomini e ai quali, per questo, si perdona anche la banalità.
Molta riflessione del cinema su se stesso. E se è vero che il cinema che si autoanalizza è cosa già vista in tutte le salse, fa comunque uno strano effetto presentata da un regista italiano che sembra a tratti prendere in prestito problematiche non proprie. Moltissime citazioni. Riferimenti incrociati e a più livelli – dalla scena esplicita della galleria di donne dirette da Mick che simboleggia, omaggia e riassume quasi un secolo di film, ai riferimenti più o meno sottili disseminati tra inquadrature o accenni di personaggi. Un po’ Birdman con la dicotomia celebrità commerciale vs celebrità intellettuale. E la realizzazione personale che vaga nel mezzo e non si sa dove collocarla.
E una Jane Fonda decadente e maestosa che pare incarnare in un certo senso una nuova Marchesa du Merteuil.
E le emozioni, che forse sì, sono sopravvalutate, ma in definitiva sono tutto quello che abbiamo.
E i silenzi.
E i ricordi.
E quello che si nasconde in tutte le cose non dette.
E i gesti fraintesi da tutta la vita.
E le lacrime che ho versato.
E una trama solida e impietosa, che avanza inesorabile, offre ribaltamenti e cambi di prospettiva e mette in luce una relatività assoluta.
Cast strepitoso nel suo insieme con un Micheal Caine immenso.
Un po’ di amarezza per Sorrentino che esce sconfitto da Cannes anche se, onestamente, non saprei dire se a torto o a ragione, perché quest’anno ho seguito veramente poco dei film in concorso.
Da vedere assolutamente.