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Archive for the ‘D. Elfman’ Category

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Nel 1983, Christopher Walken interpreta Johnny Smith, il protagonista de La zona morta, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King. Johnny Smith è un giovane insegnante di letteratura e, ad un certo punto del film, consiglia ad un suo studente la lettura del Mistero di Sleepy Hollow – orribilmente tradotto nella versione doppiata di allora con Il mistero del recesso addormentato. Dice al ragazzo che lo avrebbe trovato divertente, dal momento che, nel racconto di Washington Irving, un cavaliere senza testa cerca di far fuori un giovane insegnante, Ichabod Crane.

Sedici anni dopo, nel 1999, Christopher Walken si trova a vestire i panni di quello stesso cavaliere senza testa nella versione di Tim Burton del Mistero di Sleepy Hollow e a inseguire il povero Ichabod, interpretato da un terrorizzato Johnny Depp.

Burton si prende non poche libertà rispetto al racconto originale di Irving, mantenendo intatti di fatto solo alcuni nomi e la figura del cavaliere senza testa (del quale però modifica la leggenda), e lo trasforma in un fiaba gotica intrisa di mistero e magia.

Siamo a New York, nel 1799, e il giovane investigatore Ichabod Crane cerca invano di introdurre metodi d’indagine scientifici nelle sommarie pratiche di giustizia delle istituzioni dell’epoca. Viene quindi spedito, con intenti palesemente provocatori e punitivi, a Sleepy Hollow, dove si sono verificati alcuni inspiegabili omicidi.

Ichabod parte con la sua valigetta di strumenti e il suo pensiero razionale e arriva in mezzo a leggende e superstizioni, in un paesino dove tutti i principali rappresentati dell’autorità sembrano fermamente convinti che il responsabile degli omicidi sia un cavaliere senza testa, fantasma di un sanguinario cavaliere dell’Assia morto decapitato, che per qualche motivo si è risvegliato a reclamare teste altrui.

Ricordi che riemergono in forma di sogni. Vendette soprannaturali per complotti anche troppo concreti. E segreti nascosti dappertutto.

Visivamente bellissimo. Cupo, gotico, fiabesco, visionario, in una parola, Burton fin nel più piccolo dettaglio.

Le tinte sono lugubri e pochi colori spiccano, tra i quali, ovviamente il rosso del sangue.

La struttura della fiaba dark si mescola a quella del mistery più classico e viene lasciato spazio anche per la storia d’amore, pur sempre con la dovuta ironia a scongiurare la melensaggine.

Johnny Depp è fenomenale con quell’aria stralunata, assurda e credibile che è il marchio di fabbrica del binomio Burton-Depp e che lo rende inequivocabilmente l’attore più adatto a interpretare i personaggi di questo regista. Non mancano i richiami a Edward mani di forbice, soprattutto per quel che riguarda arnesi e attrezzature – anche se non c’è quel risvolto steampunk che tanto era evidente in Edward.

Cast ricchissimo di nomi. La protagonista femminile è Christina Ricci, che era ancora lontana dalla fase di iperdimagrimento e ben si adattava al ruolo di donna burtoniana con il volto tondo alla Helena Bonham Carter (al tempo non ancora scoperta dal regista).

E poi Miranda Richardson, Michael Gambon, Jeffrey Jones, Richard Griffiths e anche Christopher Lee, in una piccola parte.

Musiche come sempre di Danny Elfman.

Definito spesso horror da molti siti, pur con tutta la buona volontà non riesco a farlo rientrare nel genere. In generale non ci riesco con i film di Burton.

Burton sfrutta molti dei canoni dell’horror, certo, ma nessuno dei suoi film può definirsi tale. Neanche Sweeney Todd, che forse è quello che ci si avvicina maggiormente.

Burton rielabora gli elementi dell’horror, li mescola ad altri canoni, li utilizza in modo diverso, creando quel genere che è solo suo, quanto meno nel cinema contemporaneo. Se proprio bisogna scegliere una definizione, direi che gotico è quella che potrebbe risultare più calzante, pur con le dovute riserve anche in questo caso, dato che il gotico vero e proprio manca totalmente di quell'(auto)ironia che è cifra stilistica di Burton.

Non bastano un fantasma e un po’ di sangue a fare un horror, ecco, la faccenda è un po’ più articolata di così. E trovo che sia una semplificazione scorretta anche nei confronti del genere horror in sé, oltre che del film in questione.

Una finezza che passa quasi inosservata la scena della zucca, omaggio al racconto originale – anche se di natura del tutto simbolica dato che la vicenda si sviluppa in modo completamente diverso.

Cinematografo & Imdb.

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Ho in loop Delta Machine dei Depeche Mode e, benché sia un dato di fatto che in certi punti sono stati colpiti da un potente attacco di blues – oltre che di nostalgia per un certo minimalismo elettronico – al momento sono davvero parecchio esaltata. Non so se è l’entusiasmo del primo approccio, dovrò verificare nei prossimi giorni, ma tant’è, al momento sono decisamente soddisfatta dell’acquisto – tanto più che l’ho comprato avendo ascoltato solo Heaven.

Il lato positivo.

Se non fosse stato per l’oscar e per la conseguente permanenza nelle sale oltre i tempi consueti, l’avrei sicuramente snobbato. Non so bene perché, è un misto di fattori. Il trailer che non mi comunicava granché, B. Cooper che non è tra i miei attori preferiti e il regista, David O. Russel, che non avevo riconosciuto essere proprio quello di The Fighter. Insomma, le uniche cose che mi attiravano erano Jennifer Lawrence – che mi era piaciuta molto agli Hunger Games – e De Niro, per ovvi motivi.

Invece è stato, se non proprio una rivelazione, quanto meno una sorpresa, quello sì. Molto più di quello che mi aspettavo.

Non so come parlare della trama senza scadere nel banale – che è un po’ il problema di quando si raccontano le storie delle commedie. Lui appena dimesso da un istituto psichiatrico dopo otto mesi di detenzione, sotto farmaci, affetto da disturbo bipolare, incapace di accettare la separazione dalla moglie Nikki. Lei giovanissima vedova di un poliziotto; tenta di elaborare il lutto dandola a tutti; si nasconde dietro ad un carattere difficile.

Entrambi stanno cercando di gestire una vita sfuggita di mano, di riappropriarsi di quello che hanno perso per non voler ammettere che non si può tornare indietro.

Trama ben congegnata, dialoghi serrati, vivaci, intelligenti. Momenti spassosi e un romanticismo assolutamente ben dosato senza eccessi mielosi. Non viene calcata la mano neanche sull’aspetto patologico-psichiatrico, il che rende il tutto meno pesante – se la sbrogliano con un generico disturbo bipolare, che ci sta sempre bene e può essere attribuito un po’ a tutti, me compresa, qualche citazione di Xanax e Klonopin, ma la cosa finisce lì.

Cast davvero molto azzeccato con un Bradley Cooper che ho decisamente rivalutato e che – non ci avevo mai fatto caso – ha una mimica facciale che ricorda in modo impressionante Ralph Finnes.

Su De Niro è persino scontato dire qualcosa ed è ovviamente impeccabile nel ruolo del padre ossessivo-compulsivo.

Jennifer Lawrence. Brava. Più di quello che mi aspettavo, nonostante l’oscar. Alterna momenti di durezza, di follia a momenti di una dolcezza infinita. Cambia registro con naturalezza e rende il personaggio di Tiffany profondo e vivo in ogni sua sfumatura.

Carina l’idea della gara di ballo, anch’essa ben gestita in modo da non scadere nei cliché dei film sul ballo degli anni Ottanta-Novanta (anche se, quasi sul finale, c’è una mini citazione di Dirty Dancing che mi ha fatto sorridere).

C’è anche Julia Stiles, che non si vedeva in circolazione da un po’ e la colonna sonora è di Danny Elfman.

Cinematografo & Imdb.

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Ricostruire la bibliografia completa (e soprattutto priva di strafalcioni) di tutte le storie ambientate nella terra di Oz è impresa più ardua di quello che potrebbe sembrare, anche volendosi limitare alle sole opere di L.F. Baum, che del Meraviglioso Mondo è il creatore.

Qui potete trovare a grandi linee (è una voce da verificare per molti aspetti, ma per dare un’idea può andare) l’elenco dei libri principali, a partire dai quattordici di Baum, nucleo di partenza.

Mi sembra quindi logica conseguenza che, con una così vasta scelta di materiale a cui attingere, la Disney sia riuscita a fare un film genericamente tratto “dalle opere di L.F. Baum” ma che di fatto non è la trasposizione di nessun libro in particolare – sempre che non abbia preso una colossale cantonata, in tal caso, si apprezzano segnalazioni.

No, scherzi a parte, davvero, mi sta sorgendo il dubbio che quello di Oz sia il regno più movimentato della letteratura fantastica, sia dal punto di vista delle vicende sia dal punto di vista del traffico di autori che vi ha messo mano in una forma o nell’altra.

Esaurite le questioni di ordine filologico, resta comunque un giudizio positivo sul film – si può dire quel che si vuole, ma è un dato di fatto che la Disney rappresenta una garanzia dal punto di vista delle trame. Poi si può stare a discutere di quanto siano standardizzate e/o moraleggianti, ma comunque funzionano.

Probabilmente in vista di un futuro remake de Il Mago di Oz, quello della vicenda classica di Dorothy (tratto dal primo libro Il Meraviglioso Mago di Oz, 1900) – che, per inciso, è sempre stato tra le mie fiabe preferite fin da piccola – ci troviamo qui di fronte ad una sorta di prequel dove si racconta di come Oz sia diventato il mago e sovrano del regno che porta il suo nome.

Anche in questo caso si parte dal Kansas – terra che per me, quando ero bambina, è sempre stata fiabesca e irreale quanto il regno di Oz, non avendo io alcuna percezione concreta dell’esistenza né dell’una né dell’altro – dove Oz – diminutivo di Oscar – è un mago da fiera imbroglione, dongiovanni e dallo scarsissimo successo.

Anche in questo caso arriva un uragano che coglie Oz mentre è in fuga su una mongolfiera e lo trasporta nel regno.

Da qui partono una serie di vicende che, per quanto al di fuori del canone, si integrano bene con gli aspetti più noti della vicenda di Dorothy e spiegano la storia dei personaggi che vi prenderanno parte. Oltre a capire come Oz diventa il Mago di Oz, vediamo chi erano in origine le streghe cattive dell’Est e dell’Ovest, così come la strega buona del Sud.

Molte delle creature sono quelle che già si conoscono. C’è una scimmia alata, c’è una fugace apparizione di un leone incidentalmente definito codardo e ci sono spaventapasseri animati.

Bellissimo inoltre il personaggio della bambina di porcellana.

Nei panni di Oz c’è James Franco, che se la cava bene, con un personaggio che è molto più autoironico di quanto non sembri ad una prima occhiata.

Le streghe. Mila Kunis – oltre ad essere bellissima, ma questo è un commento poco tecnico – interpreta Theodora, che, se all’inizio mi ha lasciato qualche perplessità perché sembra un personaggio fin troppo svampito, si riscatta ampiamente con un’evoluzione inaspettata.

Rachel Weisz – anche lei bella e brava come sempre – veste i panni di Evanora e per Glinda c’è Michelle Williams, che avrà pure interpretato Marilyn ma a me continua a non piacere granché. Non che reciti male, ma in questo caso il suo aspetto rende forse un po’ troppo stucchevole il personaggio.

La regia è di Sam Raimi e le musiche di Danny Elfman.

Visivamente è molto bello e molto ben fatto. Si sono sbizzarriti a dar vita a creature e ambientazioni un po’ prese dai testi e un po’ – almeno così mi pare – elaborate ad hoc. Anche il 3D ci sta bene. E’ divertente e ben sfruttato – con un paio di scene dove ti ritrovi un bestio non meglio identificato che ti salta fuori all’improvviso davanti al naso facendo fare un salto ai bambini presenti in sala. E ovviamente alla sottoscritta.

Morale. Andate a vederlo.

Per quel che mi riguarda, ogni volta che rientro per qualche motivo in contatto con il Mondo di Oz, mi riprende la fissa, per cui parto a caccia di libri e film che non ho visto o che ho visto anni addietro. Ergo, probabilmente seguiranno sviluppi sul tema.

Cinematografo & Imdb.

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Devo dire che sono molto soddisfatta di come è cominciato quest’anno sotto il profilo cinematografico. Passare davanti ad un multisala e constatare di aver visto tutti i film in programmazione è cosa che mi riempie d’orgoglio. Poi, probabilmente, qualcuno penserà che ho i miei problemi e non si può dargli neanche completamente torto, ma tant’è. Son soddisfazioni.

Frankenweenie.

Dopo aver rimandato per anni, finalmente Burton rimette mano ad un progetto nato nel 1984 e realizzato allora solo in forma di cortometraggio.

Una piccola e tranquilla cittadina (che ricorda molto quella di Edward mani di forbice); un ragazzino, il piccolo Victor, con il suo affezionatissimo cagnolino Sparky; i compagni di scuola, ciascuno con il suo animaletto domestico; un sindaco antipatico e un professore di scienze decisamente insolito. Un giorno Sparky viene investito da un’auto e Victor, ispirato dagli insegnamenti del suo professore, mette in pratica un peculiare esperimento.

Come sempre a metà strada tra fiaba e grottesco, Burton riprende la grafica di Nightmare before Christmas e la tecnica della stop motion animation già sperimentata con Mars Attak (1996) e con La Sposa Cadavere (2005) e mette in scena una sorta di parodia in versione infantile della storia di Frankenstein.

Tutto in bianco e nero, in 3D e costellato di citazioni cinematografiche, Frankenweenie non sarà forse all’altezza di una Sposa Cadavere ma è simpatico e divertente, sia per la storia sia per tutti i particolari e le trovate geniali che come sempre connotano i personaggi di Burton – le predizioni del gatto mi hanno fatto ridere tantissimo, così come ho trovato assolutamente deliziosa l’apertura sul filmino casalingo che Victor mostra ai suoi genitori.

Musiche come sempre di Danny Elfman.

Per chi fosse curioso, qui, trovate il cortometraggio originale con Shelley Duvall.

Cinematografo & Imdb.

La citazione del titolo è di Frankenstein Junior (1974, Mel Brooks).

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Bello è bello, per carità. Ma che massacro.

Non ho visto proprio tutto di Gus Van Sant ma sono comunque abbastanza certa che questo sia il suo film più triste.

Una struggente e delicatissima storia d’amore tra una ragazza, Annabel (Mia Wasikowska), a cui restano solo tre mesi di vita a causa di un tumore al cervello e un ragazzo, Enoch (Henry Hopper – al suo esordio), dalle potenziali tendenze suicide, che non riesce a rielaborare il lutto per la perdita dei genitori in un incidente stradale e passa il tempo imbucandosi ai funerali e giocando a battaglia navale con Hiroshi, il fantasma di un ragazzo, kamikaze giapponese della seconda guerra mondiale.

Drammatico, su questo non ci piove. Non melodrammatico. Le parole chiave che salvano il tutto sono “delicatissima” e “fantasma”. Non c’è traccia dell’autocommiserazione compiaciuta dei film a tema malattia terminale che andavano tanto di moda negli anni Novanta. Non ci sono le lunghe trafile mediche e le accurate descrizioni delle miserie della malattia. La situazione si capisce per immagini, tramite ellissi e allusioni. E basta e avanza. Solo nei dialoghi tra Annabel e Enoch le cose vengono chiamate con il loro nome. Come se alla fine solo loro ne avessero il diritto poichè le portano sulla propria pelle.

Annabel deve morire ma è piena di una serenità e di una voglia di vivere travolgenti. Enoch deve vivere ma non ha nè interesse nè una vera energia per farlo davvero. Hiroshi lo accompagna e cerca in qualche modo di guidarlo anche nel rapporto con Annabel che, anche se non riesce a vederlo, accetta la sua presenza come naturale. La figura del fantasma è un elemento che in qualche modo stempera la drammaticità, conferendo un tono leggero e surreale anche a ciò che leggero non è. Ha la stessa funzione del milkshake al funerale. Sdrammatizzare anche quello che non si può sdrammatizzare. Riportare la morte alle sue proporzioni di elemento – uno tra tanti, uno qualsiasi – della vita. Il fantasma incarna la conflittualità di Enoch con la morte, ma al tempo stesso la sua familiarità con essa per averla vissuta anche in prima persona, a seguito dell’incidente.

Il fantasma è anche una delle chiavi per interpretare il titolo (l’originale, Restless, non quella schifezza italiana de L’amore che resta, per carità), poichè Hiroshi non trova pace per una cosa che non ha fatto in vita. Anche Enoch non trova pace e non riesce a stare lontano dalla morte cui la sua vita è stata strappata così arbitrariamente.

Annabel. Una dolce Amélie condannata e apparentemente fortissima. A ripensare il suo personaggio dall’esterno, sembrerebbe forse fin troppo perfetta, troppo bella e saggia nel suo affrontare la morte imminente, per essere  vera. Eppure a vederla non c’è traccia di forzatura, ma anzi un’estrema naturalezza.

Entrambi gli attori sono molto bravi e molto belli in questi due ruoli solitari e malinconici: si muovono sullo sfondo di un autunno esteticamente perfetto, nei loro vestiti retrò, con i loro passatempi diversi e lontani dalla quotidianità scolastica dei loro coetanei.

A completare il tutto le musiche, come sempre azzeccatissime, di Danny Elfman.

Morale, ho retto bene fin quasi alla fine salvo poi continuare a lacrimare e a tirar su col naso ancora per cinque minuti buoni di Tremors 4 che ho beccato a caso su non so che canale (chiedendomi anche, tra un singhiozzo e l’altro, quando diavolo fosse uscito il 4 e perchè me lo fossi perso).

Poi, boh, sarà che passati i trenta la mia emotività è diventata del tutto ingestibile, ma è davvero un film bello ma tanto tanto triste.

Cinematografo & Imdb.

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