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Archive for the ‘F. Jones’ Category

locandina

Mah. Stavo per esordire con un ‘pensavo peggio’ ma in realtà non è vero. Non pensavo un granché e basta, a proposito di questo Inferno. Speravo che fosse meglio di Angeli e Demoni e più simile al Codice da Vinci ma in effetti ero più curiosa che speranzosa.

Terzo capitolo di una saga che di fatto non è mai decollata davvero, per lo meno non sullo schermo, e che procede per episodi chiusi incentrati sulle avventure del professore esperto di simbologia religiosa Robert Langdon.

Di per sé il presupposto presenta risvolti interessanti e la costruzione di thriller che ruotino intorno ad enigmi storico-religiosi offre la possibilità di attingere a bacini di spunti pressoché illimitati.

Eppure.

Eppure evidentemente l’idea non è sufficiente.

Ora, io non ho mai letto i libri di Dan Brown e non so dire se i difetti siano all’origine o siano propri della versione cinematografica.

Sta di fatto che Inferno non funziona.

Il Codice da Vinci, al di là dell’inutile polverone mediatico che gli si era sollevato intorno – piuttosto gratuitamente, in verità – mi era piaciuto. C’era la novità, c’era la cura nella costruzione e nell’introduzione dei personaggi. Ed era un onesto thriller che faceva il suo lavoro e ti teneva lì a vedere come si sarebbe sbrogliata la faccenda.

Angeli e Demoni, per contro, non mi era piaciuto per niente. Seppur costruito bene, aveva un grossa, enorme, gigantesca falla in termini di plausibilità. Per quanto tecnicamente ben strutturato in termini di azione, ritmo e via dicendo, la storia dell’antimateria stroncava sul nascere qualsiasi tentativo di sospensione dell’incredulità e rendeva difficile godersi la trama.

Inferno, al contrario, non presenta grosse assurdità ma è un prodotto complessivamente inferiore.

E’ girato peggio, sceneggiato peggio, diretto peggio. E pure recitato peggio.

Poi ok, la trama è esile ma di per sé fila abbastanza. Anzi, forse anche troppo – è talmente scarna che, a pensarci bene, quasi quasi fa rimpiangere pure un po’ l’antimateria.

Ron Howard cerca palesemente di sfruttare l’ultima scia del fenomeno editoriale ma non si impegna più di tanto.

I personaggi – a partire da Langdon stesso – sono connotati grossolanamente.

La coppia investigativa Robert-Sienna si forma in modo troppo improvvisato e pretestuoso.

Dopo appena una breve introduzione di storia, i due cominciano a correre qua e là in giro per l’Italia, sciorinando enigmi, citazioni in latino mal pronunciato seguendo un percorso di tracce sottili quanto le indicazioni delle cartoline del Monopoli.

Andate all’inferno senza passare dal via.

Robe così.

Il cattivo di turno è forse uno dei più banali e meno carismatici che siano passati sugli schermi negli ultimi quindici anni. E’ un cattivo generico, che guarda un po’, si mette in testa di voler salvare il pianeta sterminando buona parte dell’umanità.

Se per la prima metà il film è solo piatto – neppure Tom Hanks pare credere più di tanto a quello che sta facendo – la seconda parte diventa pure un tantino confusa, con tutta una serie di ribaltamenti che paiono infilati uno dietro l’altro come per spuntare la lista della spesa e che vorrebbero essere dei colpi di scena ma, di fatto, sembrano più un modo per allungare la durata del film – dato che, in definitiva, non sono neanche abbastanza complicati da confondere le idee.

L’ambientazione italiana offre un ennesimo scorcio di come l’Italia venga vista dall’anglosassone medio – anche se fortunatamente, non viene calcata troppo la mano sui soliti cliché.

La versione originale offre il triste (o buffo, a seconda dei momenti e forse anche dell’umore di chi guarda) spettacolo di Hanks e compagnia alle prese con la pronuncia di latino e italiano.

Nei panni di Sienna, una insipida Felicity Jones, che nelle intenzioni dovrebbe ricalcare il personaggio di Audrey Tatou del Codice ma che, di fatto, non ci si avvicina neanche lontanamente. Per la cronaca, sono giunta alla conclusione che Felicity Jones mi sta cordialmente sul culo.

Piccola parte anche per Omar Sy-quello-di-quasi-amici.

Morale: deludente. Un po’ una perdita di tempo.

Cinematografo & Imdb

Tom Hanks and Sidse Babett Knudsen star in Columbia Pictures' "Inferno," also starring Felicity Jones.

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Langdon (Tom Hanks) with Sinskey (Sidse Babett Knudsen) and Harry Sims (Irrfan Khan) in Columbia Pictures' INFERNO.

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No, non è che mi sono già stufata del Weekly Horror, è solo che tra Globes, Oscar, nuove uscite di inizio anno e arretrati che mi trascino, la coda dei miei post si sta facendo un po’ sovraffollata, motivo per cui WH va in pausa, presumibilmente almeno fino alla cerimonia degli Oscar (che sarà il 22 febbraio, il che significa per un mesetto), in modo da smaltire un po’ di novità e magari riuscire a inserire anche qualche libro, che altrimenti non so quando parlarne.

 

E niente, la parola chiave di questi mesi – e di questa edizione degli Oscar – pare essere “biografia”.

E American Sniper. E Imitation Game. E Big Eyes. Di quelli che ho visto.

E anche Foxcatcher e Turner e Unbroken per dirne altri che non ho visto.

E dire che il biopic non è neanche in cima alle mie preferenze.

E arriviamo a questa teoria del tutto.

In breve.

Il film vale la pena sostanzialmente per l’interpretazione di Redmayne. Per il resto è un normale film biografico, senza grosse particolarità, fin troppo aderente ai requisiti di genere, a tratti persino un po’ mediocre.

La storia di per sé è senza dubbio notevole come notevole è la figura di Stephen Hawking. Alla base del film c’è Travelling to Infinity: My Life with Stephen di Jane Hawking, che con Stephen è stata sposata per venticinque anni e con il quale ha avuto tre figli.

La narrazione ha una prospettiva e una dimensione molto personali e quotidiane ma è comunque apprezzabile la scelta di non indulgere in eccessivi sentimentalismi che avrebbero compromesso sensibilmente la riuscita del film. La situazione è già sufficientemente carica di pathos di per sé, senza bisogno che le scelte di regia enfatizzino ulteriormente gli aspetti drammatici. Questo, sicuramente è uno dei pregi maggiori del film: il modo asciutto in cui viene raccontata una situazione che vede per forza coinvolto un eccesso di emozionalità difficilmente gestibile e che invece viene presentata senza fornzoli e senza troppi abbellimenti.

La storia di Jane e Stephen viene fotografata nella sua quotidianità. Una quotidianità forse un po’ addolcita ma non sicuramente idealizzata. Se, da un lato, Jane che sceglie di rimanere accanto a Stephen anche dopo la diagnosi della malattia che lo immobilizzerà, potrebbe avere i tratti di un’eroina romantica, d’altro canto l’immagine di lei che emerge è quella di una persona vera, reale, concretissima, con le sue scelte e la sua fatica. Così come è concreto e realistico il modo in cui si evolvono i rapporti tra le persone coinvolte. Il divorzio di Stephen e Jane è, se vogliamo, cinematograficamente scorretto. E’ contrario all’idealizzazione dei personaggi, contrasta con l’incarnazione di questa favola triste.

A prevalere è sicuramente la storia personale, umana. Non sarebbe stato male se avessero invece speso qualche scena in più per rendere meglio l’idea della portata del lavoro di Hawking. E’ pur vero che tentare di inserire concetti di quel livello di complessità nel copione di un film equivale nel 99 percento dei casi a propinare un sacco di sciocchezze pseudo-divulgative, quindi forse è meglio così.

Il ritmo è discreto e si viene coinvolti abbastanza, anche se l’impostazione è, come accennavo prima, fin troppo classica.

Il punto forte sono indubbiamente gli attori. Felicity Jones nei panni di Jane è brava e adatta alla parte, con il bel viso sereno, delicato, infantile ma forte e determinato.

E poi lui, Eddie Redmayne. La vera perla del film. Che per certi versi parrebbe ovvio, dato che è il protagonista, ma ovvio non è data la difficoltà della parte.

Parlare di difficoltà è persino riduttivo, in effetti. Il ruolo che interpreta richiede uno stravolgimento fisico totale che non è, come più spesso capita, legato ad un cambiamento nel proprio aspetto. Non si tratta di dimagrire o ingrassare. In questo caso si tratta di stravolgere completamente tutti i normali comportamenti del fisico. Dai movimenti più grandi fino alla più piccola espressione facciale. Sradicare la coordinazione motoria, imparare ad escludere progressivamente sempre più parti del corpo, imparare a utilizzare le parti che funzionano che sono via via sempre di meno. Fino a che tutta l’espressività si concentra in poco più che un sopracciglio inarcato.

E qui sicuramente salterà di nuovo fuori la solita polemica per cui se si vuole un Oscar basta rovinarsi fisicamente. Bah. Non lo so. Immagino che la discussione in sé lasci un po’ il tempo che trova. Christian Bale nel 2004 perse 40 chili per L’uomo senza sonno, battendo qualsiasi record di dimagrimento a scopo cinematografico ma non mi pare che abbiano fatto la fila per dargli un qualsivoglia premio. Anzi. Quel film, che pure è un gran bel film, è passato quasi inosservato.

Sicuramente il coinvolgimento fisico nella parte ha il suo effetto ma non credo, onestamente, che sia una via facile alla premiazione.

Nel caso specifico, non credo che La teoria del tutto meriti particolari riconoscimenti in sé. Certo non miglior film e neanche migliore attrice protagonista, per quanto la Jones sia brava. Miglior sceneggiatura non originale ancora meno (quello per ora lo darei a Imitation Game anche se sono impazientissima di vedere Vizio di Forma – che purtroppo uscirà dopo la cerimonia). E anche la candidatura per la colonna sonora non me la spiego poi molto perché non l’ho trovata niente di eccezionale.

Però il Golden Globe a Redmayne è indubbiamente meritato. E lo sarebbe anche l’Oscar. E’ vero che non ho visto ancora Bridman e magari resto folgorata da Micheal Keaton, però, chiunque ci sia in concorso, se Redmayne si porta a casa miglior attore protagonista lo fa a buon diritto.

Cinematografo & Imdb.

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