Generalmente evito di far passare troppo tempo per parlare di un film ma questo qui mi è rimasto particolarmente in sospeso, per così dire.
E credo di avere un problema con Yorgos Lanthimos.
Ma andiamo con ordine.
Steven Murphy è un affermato cardiochirurgo. E’ tutto ciò che il copione del suo stato sociale prevede che sia. Bella moglie, bella casa, due figli impeccabili.
Un brillante professionista con la sua vita perfetta e le sue perfette (??) trasgressioni (???) in camera da letto. Tutto sempre rigorosamente nei ranghi.
Nella vita di Steven c’è anche Martin.
La natura del rapporto tra Steven è Martin non è chiara. Steven si comporta un po’ come uno zio, un po’ come un tutore. E Martin sembra vedere nell’uomo una figura pseudo-paterna.
Gradualmente si capisce che – e non è uno spoiler, lo dicono già nel trailer – Martin è il figlio di un paziente di Steven, morto sotto i ferri.
Il legame che unisce i due assume quindi i tratti di un rapporto venato di codipendenza da una parte e senso di colpa dall’altra.
Martin entra sempre di più nella vita di Steven. Entra nella sua famiglia. Finché non si rivelano le sue vere intenzioni e Steven vede tutto il castello dorato della sua vita sul punto di crollare.
Solo lui può evitare il crollo ma per farlo dovrà sporcarsi di sangue. Dovrà portare consapevolmente il peso della colpa. Dovrà espiare e ristabilire un presunto equilibrio. Pagare un tributo ad una presunta giustizia.
Allora. Se ne avessi parlato a caldo, probabilmente il mio giudizio sarebbe stato un tantino più morbido.
Perché non è che sia un brutto film. Che Lanthimos abbia mestiere si vede, questo nessuno lo nega.
Diciamo che se è vero che The Lobster mi era piaciuto, è anche vero che non avevo gridato al miracolo come sembrava essere la moda del momento. Ed è altrettanto vero che per questo film nutrivo una sincera e piuttosto neutra curiosità – alimentata anche dal premio per la migliore sceneggiatura a Cannes 2017.
Tutto ciò per dire che, in definitiva, con questo Cervo Sacro forse il buon Yorgos ha voluto un tantino strafare.
E più ci ripenso e meno questo film mi piace.
Più ci ripenso e più mi rendo conto che tutti – ma proprio tutti – i protagonisti mi stanno irrimediabilmente e fortemente sul culo.
Più ci ripenso e più spaccherei la testa a tutti.
Anche a Lanthimos.
Poi, ripeto, non è un brutto film e non è fatto male.
Solo che è decisamente troppo.
Troppo pretenzioso. Troppo arrogante.
Hybris allo stato puro – che da un lato ha anche un suo senso ma non è sufficiente.
Già l’idea di partenza è ambiziosa perché l’intenzione è quella di costruire un parallelo con il canone della tragedia greca – in particolare con l’Ifigenia in Aulide di Euripide – e restituirne una sorta di versione trapiantata ai giorni nostri.
E quindi abbiamo una recitazione fortemente teatrale, lunghi silenzi, lunghe inquadrature, sguardi tormentati e una musica che pesta come un coro impazzito.
E tuttavia, la prima metà è impegnativa però regge ancora bene la dualità di canone.
La seconda parte vira decisamente e totalmente sul simbolico e non è solo faticosa, è proprio irritante.
Che al regista garbi il surreale/grottesco si era già capito con Lobster ma qui parte proprio per la tangente.
Se fosse rimasto a metà strada, se il piano simbolico fosse stato appena accennato, quel tanto che bastava a lasciare il dubbio sull’interpretazione, probabilmente il risultato sarebbe stato molto più riuscito.
Il fatto di staccare bruscamente dalla realtà/plausibilità il filo della narrazione ha l’effetto di staccare anche lo spettatore.
Strapparlo via dall’immedesimazione.
Fino ad un certo punto ti fa entrare nella vita di questi personaggi – pur strani e molto distanti – e poi ti sbatte fuori di colpo.
Ci sono molte buone idee nel giocare con gli elementi della tragedia greca – uno per tutti la funzione della figlia che canta nel coro e diventa coro della vicenda – ma c’è troppa ansia di dare risalto a questa dimensione metaforica e simbolica.
E se già i personaggi sono praticamente tutti negativi e tutti condannati e condannabili, il fatto di interrompere quel poco di immedesimazione e di empatia che si era creata non fa che rendere il tutto ancora più faticoso.
Buone le interpretazioni. Colin Farrell e Nicole Kidman sono ovviamente più che all’altezza di ruoli pur così ingrati e Barry Keoghan nei panni di Martin è veramente degno di nota in una parte che, per quanto discutibile, non è di certo facile.