E niente, alla fine doveva pur succedere. Nonostante tutte le mie lamentele per Daniel Craig in versione Bond, devo dire che ormai mi ci sono discretamente abituata. O rassegnata. Sta di fatto che ormai comincio a percepirlo non solo più come Daniel-Craig-che-fa-James-Bond ma come James Bond e basta. Il che significa, tra le altre cose, che per la prima volta da Casino Royale (2006) non ho passato la prima mezz’ora del film smadonnando per la scelta dell’attore.
Resta il fatto che alcune perplessità permangono e la principale è senz’altro legata all’impronta personalistica che hanno voluto conferire a questi nuovi Bond-movies. Il passato di James. Anzi. Il. Passato. Di. James. Che torna e ritorna, pieno di fantasmi pronti a tormentare il freddo agente segreto per tirar fuori la sua anima umana e vulnerabile.
Mah. Questa faccenda del Bond ferito e sensibile non mi ha mai convinta. Avevo trovato eccessivo il cordoglio per Vesper e ancora più discutibile l’incursione alla tenuta di famiglia in Skyfall.
Con Spectre si continua decisamente su questa strada anche se forse, in questo caso, in modo un po’ più integrato rispetto ai precedenti.
Come suggerisce velatamente il titolo, si va a scomodare addirittura la Spectre, fantomatica organizzazione segreta criminale con la quale Bond si trovò a fare i conti fin dal primo film, Licenza di uccidere.
C’è sempre una connotazione di tributo ai vecchi film, questo va detto, ed è gestita bene, in modo equilibrato per mantenere vivo il legame con i classici pur andando avanti.
Quello che non riesco ad apprezzare troppo è la connotazione strettamente personale che hanno voluto inserire anche in questo caso e che vede James legato alla Spectre non solo dal suo passato investigativo. Non so, questa cosa continuo a trovarla un po’ forzata, così come il continuo reminder delle perdite subite in passato per far leva sui sensi di colpa.
Poi, per carità, non fraintendiamo, Spectre mi è piaciuto, e anche molto. Tolte queste mie considerazioni personali, abbiamo un ottimo film. Divertente, coinvolgente, ben fatto sotto ogni aspetto, dalla costruzione della trama alle sequenza d’azione.
Il supercattivo di turno è interpretato da Christoph Waltz e questo non può che essere un gran bene perché ne risulta un antagonista dalla connotazione sottile e inquietante.
La Bond-girl è invece Lea Seydoux, bella e ben piazzata nel ruolo.
Chiariamo subito, a scanso di equivoci. Sì c’è Monica Bellucci ma no, non è lei ‘la nuova Bond-girl”. Lei è la facoltosa vedova italiana di un noto criminale con cui Bond si trova ad aver a che fare (adesso si dice così…) nel corso della sua indagine. La sua parte è piuttosto breve: si mette un po’ in posa da donna italiana in lutto secondo l’immaginario anglosassone, ostenta rassegnata afflizione per la sua condizione, concede senza indugio a Bond informazioni e qualsiasi altro genere di attenzione di cui l’agente abbisogna, si rimette in posa, questa volta in reggicalze e poco più. Pronuncia enfaticamente male le sue poche battute. Fine del contributo Bellucci.
La parte girata a Roma però, Monica a parte, è bella sia per le riprese in città, sia perché di fatto contiene il principale inseguimento in macchina di tutto il film, con Bond alla guida dell’Aston Martin DB10 e l’inseguitore su una Jaguar C-X75 concept.
M è sempre interpretato da Ralph Fiennes che non si limita ad essere solo il referente di Bond dal lato dell’autorità ma riveste un ruolo attivo e determinante.
Bella anche la partecipazione attiva di Q e di Moneypenny che non sono solo personaggi di contorno.
Fighissima la sequenza iniziale, durante la festa dei morti a Città del Messico e molto bella anche la sigla, anche se mi è piaciuta più dal punto di vista grafico che non per la canzone in sé che è Writing’s on the Wall di Sam Smith. Non che sia brutta, solo non mi dice granché.
Regia ancora di Sam Mendes e musiche di Thomas Newmann, come per Skyfall.
Da vedere.