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Archive for Maggio 2016

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Regia di Jodie Foster per l’affiatata coppia Clooney-Roberts.

Un thriller ma non solo. Forse un po’ film-denuncia.

Anche se, a ben vedere, non è tanto l’alta finanza ad essere messa sotto accusa, con i suoi spietati meccanismi per generare vuota ricchezza, quanto piuttosto il ruolo dei media nell’amplificarne gli effetti devastanti.

Money Monster è un programma divulgativo a tema finanziario.

E’ da cima a fondo lo stereotipo del programma americano, con un target di ascoltatori medio-basso. E’ spettacolo amplificato, come piace in America.

Lee Gates lo conduce da vera star, con tutto il repertorio di ammiccamenti, stacchetti e fascino da teleimbonitore arricchito di fama e farcito di ego.

Lee Gates fa il suo show. Il suo programma va forte. I suoi consigli finanziari vengono ascoltati. La gente si fida di lui. Forse troppo.

Patty è la sua regista. La sua segretaria, la sua assistente, la sua tutto-ciò-di-cui-ha-bisogno-Lee-per-funzionare.

La puntata è pronta. Si va in onda.

E in onda arriva Kyle.

Pistola in pugno e giubbetti imbottiti di esplosivo.

Prende in ostaggio Lee e parte del personale dello studio.

La diretta non può venire interrotta, altrimenti saltano tutti in aria.

Superato il primo momento di panico, Lee e Patty riprendono gradualmente in mano la situazione.

Fanno parlare Kyle, prendono tempo.

Kyle ha perso tutto perché ha dato retta a Lee e ha messo tutti i suoi soldi su un titolo che è improvvisamente crollato, contro ogni ragionevole previsione, creando un buco da 800 milioni di dollari.

I responsabili latitano. Gli addetti ai lavori evitano di rispondere e propinano alla gente termini pseudo-tecnici privi di significato.

Cos’è successo veramente? Dove sono finiti quei soldi?

Una corsa contro il tempo su più fronti. Quello di Kyle e Lee da un lato e quello di Patty dall’altro. Patty che cerca risposte da dare a Kyle per salvare Lee.

Lee che, in effetti, vorrebbe averle anche lui, quelle risposte. Perché è vero che ha consigliato un certo investimento ma è anche vero che lo ha fatto con la convinzione di sostenere un prodotto solido.

Patty dirige. Dirige la diretta improvvisata. Dirige l’esito dell’operazione di polizia. Dirige l’indagine sulla causa del tracollo.

Perché alla fine è solo un altro spettacolo.

Lo spettacolo della crisi. Lo spettacolo della menzogna. Lo spettacolo dell’economia americana che va avanti calpestando ogni cosa. Lo spettacolo della fiducia, tutta americana, nella parola data. Lo spettacolo di una realtà che, in definitiva, non è possibile scalfire.

Un buon film e un buon ritmo. Julia Roberts e George Clooney funzionano davvero bene e la storia, lungi dall’essere una crociata di redenzione per il trionfo della giustizia, mantiene un tono realisticamente disilluso.

C’è anche Giancarlo Esposito (Gus di Breaking Bad) che fa il capo della polizia.

Consigliato.

Cinematografo & Imdb.

Money Monster

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E’ un’inquadratura rossa ad aprire quest’ultimo lavoro di Almodóvar.

Il rosso brillante di tanti suoi film. Il rosso di un vestito.

Il rosso delle unghie sulle mani che incartano una statuetta color terracotta.

Le mani di Julieta.

Julieta è una donna di mezz’età. Un’insegnante.

Sta per lasciare Madrid e trasferirsi in Portogallo con il suo compagno.

E poi.

E poi basta un dettaglio. Basta un incontro casuale e il tempo esplode all’improvviso e le crolla addosso.

Quella di Julieta è una vita spezzata. Una vita cui è stata amputata una parte. Non vede sua figlia Antía da dodici anni e per quanto abbia cercato con tutta se stessa di vivere senza di lei, ora è arrivato il momento dello schianto. Il momento di una improbabile resa dei conti.

E allora Julieta comincia a scrivere. E racconta ad un Antía assente tutto quello che le ha taciuto negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Le racconta la sua storia, le racconta i non detti e getta una luce impietosa sulle zone d’ombra.

Una confessione a senso unico, in cerca di una redenzione fittizia quanto, in fin dei conti, non necessaria.

Un film delicato e profondamente malinconico.

Tratto dai racconti di Alice Munro – tre racconti dalla raccolta In fuga, legati dalla medesima protagonista, Juliet – Julieta porta l’impronta tipica di Almodóvar nella sua capacità di veicolare il dramma smorzandone l’impatto.

E’ una storia triste, quella di Julieta. Una storia di perdita e di colpa. Una storia di amori incompleti e legami maltrattati. Una storia di ricordi e di silenzi. Una storia di dialoghi interrotti e segreti mal conservati o conservati troppo a lungo.

Eppure non è mai melodrammatica.

Forse il tono è un po’ più malinconico del solito – per dire, in Volver o in Tutto su mia madre le vicende narrate erano decisamente più tragiche ma, in proporzione, il tono generale risultava estremamente più leggero. Ecco, qui questa leggerezza delle umane misere forse viene un po’ meno. O risulta un po’ smorzata rispetto al solito – come anche i colori, nel corso del film, sono, per così dire, ridimensionati – ma in nessun caso viene ceduto il passo al drammatico vero e proprio.

Quella di Julieta è una figura complessa ed estremamente articolata. Ottime entrambe le attrici che la interpretano nelle due fasce d’età, Emma Suàrez per il tempo presente e Adriana Ugarte per Julieta giovane.

Bellissimo. Molto molto consigliato.

Cinematografo & Imdb.

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Non avevo mica realizzato che la regia di questo film fosse di William Brent Bell. Probabilmente l’avrei visto comunque ma il fatto di non saperlo mi ha risparmiato tutta una serie di congetture e remore iniziali.

William Brent Bell ha diretto cinque film. Ne ho visti tre, questo incluso. Gli altri due sono Stay Alive – che non era male (anche se non escludo che il mio giudizio possa essere stato positivamente influenzato dalla presenza di Elisabeth Bathory tra i personaggi), e L’altra faccia del diavolo che era una porcata colossale.

L’esperienza diretta mi suggeriva dunque un cinquanta e cinquanta, almeno in teoria.

Peccato che il ricordo dell’altra faccia del diavolo sia tale che avrei probabilmente guardato il film in compagnia di un bel pregiudizio.

In realtà The Boy non è affatto male.

Ok, non è niente di particolarmente sconvolgente eh, però si difende.

Greta, giovane, americana e con un passato da dimenticare alle spalle, accetta un lavoro come babysitter per una ricca famiglia inglese.

La villa è grande e vittoriana, piuttosto isolata, nei pressi di un paesino della campagna britannica. I padroni di casa, piuttosto anziani in verità, accolgono Greta, e l’accompagnano a conoscere loro figlio, Brahms. C’è bisogno di qualcuno che si occupi di lui perché loro staranno via per un po’. Brahms è un bravo bambino, è solo un po’ particolare ma se Greta seguirà le regole, non avrà problemi.

Brahms è solo un po’…strano.

Brahms è una bambola.

La bambola a grandezza naturale di un bambino di otto anni, dal viso di porcellana e dai vestiti impeccabili.

All’inizio Greta non capisce. Pensa che i due anziani siano suonati, o che la stiano prendendo in giro. Ma poi vede che non c’è niente di fasullo. L’anziana coppia tratta veramente la bambola come un figlio e la madre è particolarmente rigida nell’illustrare a Greta le regole di comportamento.

Poi la coppia se ne va e Greta rimane sola nella grande casa con questa bambola inquietante e l’unica compagnia di Malcom, il ragazzo del negozio che ogni tanto, dal paese, porta le provviste e sbriga le commissioni.

Di fatto, tutto il presupposto del film si vede già nel trailer.

La coppia stramba che parla alla bambola.

La bambola che forse non è solo una bambola.

Strani episodi. Strani rumori. Il dubbio che si insinua. Le regole che forse sarebbe meglio osservare.

La costruzione è buona e la tensione si crea, tant’è che avrebbero potuto anche evitare di fare i botti con la colonna sonora giusto per spaventare – che poi l’effetto si ottenga ugualmente perché io mi spavento anche se sono stata avvisata è un altro discorso ma vabbé.

Buono anche il modo in cui la vicenda presente e il passato di Greta convergono e si mescolano.

E buono, soprattutto, il fatto che, fortunatamente, non si va a parare dove ci si aspetta di andare.

Un po’ ci speravo, un po’ me lo aspettavo. Una risoluzione perfettamente in linea col presupposto di partenza sarebbe stata quanto meno banale per cui mi auguravo qualche colpo di scena. Avevo fatto un’ipotesi ma non ci ho azzeccato e questo è un bene perché l’effetto sorpresa è riuscito e la plausibilità del presupposto era tale da non lasciar prevedere il finale.

Si capisce qualcosa? Spero di sì. Volevo evitare di spoilerare.

Greta è Lauren Cohan, Maggie dei Walking Dead. Il resto del cast è piuttosto anonimo.

Cinematografo & Imdb.

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LAUREN COHAN stars in THE BOY

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La Palma d’Oro di quest’anno a Cannes.

Non è ancora prevista un’uscita italiana.

A dire la verità non è neanche un vero e proprio trailer ma non ho trovato di meglio.

 

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Arthur Brennan (Matthew McConaughey), americano, scienziato, compra un biglietto di sola andata per Tokyo.

Non ha bagaglio con sé. Non ha accompagnatori.

E’ diretto ad Aokigahara.

Aokigahara è un posto bellissimo e terribile. Ed esiste davvero. E’ conosciuto in tutto il mondo, eppure è quasi dimenticato.

Aokigahara è una foresta immensa e intricata ed è nota come la foresta dei sucidi.

Perché è bellissima, appunto. Perché una volta entrato, è molto raro uscirne. E forse questo aspetto costituisce una sorta di garanzia contro i ripensamenti. Chi si reca ad Aokigahara lo fa per una ragione, nella maggior parte dei casi.

Aokigahara è il posto perfetto per morire.

All’ingresso della foresta ci sono dei cartelli che mettono in guardia contro la pericolosità dei sentieri, il rischio di perdersi, l’irrimediabilità del gesto che presumibilmente molti si apprestano a compiere.

Arthur entra nella foresta.

Seguiamo i suoi passi e seguiamo i suoi ricordi.

Attraverso una serie di flashback conosciamo la sua vita di prima. Rivediamo sua moglie Joan (Naomi Watts) e riattraversiamo la loro vita insieme. Riviviamo la storia che lo ha portato fin lì.

A disturbare i suoi piani però arriva Takumi Nakamura (Ken Watanabe). Malconcio e disperato, Takumi cerca una via d’uscita che non riesce a trovare e Arthur non può fare a meno di aiutarlo.

Persi nella foresta, Arthur e Takumi vagano lungo i sentieri di quella che è una realtà sempre più labile, sempre più sottile.

La foresta non li lascia andare. I ricordi non li lasciano andare.

C’è qualcosa. Qualcosa che la cultura giapponese di Takumi sa chiamare per nome. Qualcosa per cui la cultura americana e scientifica di Arthur non è preparata.

Riguardavo la filmografia di Gus Van Sant ed è veramente molto varia, sia come toni che come argomenti. Non sono sicura che il suo filone drammatico sia quello che preferisco.

La foresta dei sogni – che oltre ad essere un titolo di merda è anche vergognosamente esplicativo e che quindi d’ora in poi mi rifiuterò di usare – quindi, meglio The See of Trees – titolo, oltretutto, così meravigliosamente adatto – è indubbiamente un bel film. Perfetto e misurato in ogni sua parte. Delicato nell’affrontare un tema che poteva scappare di mano da un momento all’altro. Solo che è un po’ come Restless (L’amore che resta, 2011): bello ma un po’ troppo.

Non so, forse sono io, ma alla terza disgrazia di fila che si abbatte su un solo personaggio finisco col perdere empatia.

Poi, per carità, McConaughey e Watts sono dei mostri di bravura – lui in particolare – e la costruzione della storia è tale per cui, nonostante i toni tristi, riesce a evitare bene i rallentamenti. Però…

Però.

C’è un momento preciso in cui capisci dove sta andando a parare e dici no, cazzo, non può farlo davvero. Eppure il buon Gus lo fa. E forse pecca un po’ di eccesso di dramma – quanto meno a livello di trama visto che il fronte della recitazione rimane molto contenuto.

Cinematografo & Imdb.

THE SEA OF TREES

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Se non siete un sogno delirante nel sonno degli dei, se la vostra bellezza non turba le costellazioni, nessuno vi lancerà un incantesimo. A nessuno verrà in mente di trasformarvi in una bestia o di mettervi a dormire per cent’anni. L’apparizione camuffata da spiritello non ci pensa nemmeno a offrirvi tre desideri con la catastrofe nascosta dentro come una lametta in una torta.

Le fanciulle così così – quelle che è meglio guardarle a lume di candela, con trucco e corsetto – non hanno nulla da temere. I legittimi eredi grassocci e brufolosi, quelli che danno il tormento ai tirapiedi e devono vincere sempre a tutti i costi, sono immuni da maledizioni e malocchio. Le vergini di serie B non suscitano le forze della distruzione; i corteggiatori imbranati non fanno infuriare demoni e folletti.

La gran parte di noi può stare tranquilla: riusciremo a rovinarci con le nostre stesse mani.

C’erano una volta le fiabe. E incantesimi da spezzare, streghe cattive da sconfiggere, maledizioni da cancellare.

C’erano una volta principi azzurri di indubbia moralità e principesse di inequivocabile innocenza.

C’era una volta il lieto fine per i buoni e la giusta punizione per i cattivi. E vissero tutti felici e contenti no?

E poi?

Sono davvero rimasti tutti felici e contenti?

Cunningham torna dopo La regina delle nevi (2014 – che di fiabesco aveva solo il riferimento nel titolo) e si mette a giocare con le fiabe, questa volta per davvero.

E se i personaggi delle fiabe sono leggenda, lui si mette a scavare e porta alla luce gli esseri umani sotto la leggenda. La carne e il sangue – sempre per giocare con i suoi titoli – sotto il mito. Le ossa corrose dallo stillicidio di quei per sempre alla fine delle storie. Le speranze inacidite da quella felicità dovuta al copione.

E’ amara e tagliente, questa breve raccolta di fiabe. E’ crudele, per certi versi. Non è che non lasci spazio per una qualche forma di salvezza. Solo, ne lascia molto poco.

Se devo essere sincera, non ho per questo Cigno selvatico lo stesso entusiasmo che provo normalmente per i libri di Cunningham. Forse non so neanche bene spiegare perché ma è qualcosa che mescola insieme l’amarezza delle fiabe spezzate e la sensazione, in sottofondo, che stia forse giocando un po’ troppo facile.

Riprendere le fiabe è l’espediente più vecchio del mondo. Ho già fatto questo discorso fino alla nausea e inevitabilmente mi ci ritrovo in occasione di qualche rivisitazione delle fiabe classiche.

Da un lato c’è il principio della fanfiction – di cui le fiabe sono uno dei principali esponenti per definizione – che legittima a prescindere la rivisitazione del fiabesco.

D’altro canto c’è la granitica solidità di un enorme bacino di materiale cui attingere senza eccessivi sforzi creativi.

Ciò non toglie che i risultati possano essere eccellenti e, se la penna è buona, come lo è indubbiamente in questo caso, si ha di certo una prospettiva interessante. Eppure…

Eppure.

Non riesco a togliermi del tutto dalla mente che avrebbe potuto più che altro essere una sorta di interludio. Un esercizio divertente da pubblicare tra un romanzo e l’altro, ecco.

La meticolosa operazione di distruzione del mito e del bello che si vede all’opera in queste storie ha sicuramente un suo fascino morboso. E rende ulteriormente struggenti quei rari spiragli di nostalgica accettazione che ogni tanto si intravedono.

E’ un profondo senso di perdita a pervadere le pagine di questo Cigno selvatico.

La perdita della bellezza. La perdita del sogno.

Forse la perdita dell’illusione che era in grado di tenere in vita quella bellezza e quel sogno.

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Onestamente, dopo Unfriended – uscito più o meno un anno fa (e che alla fine non ho ancora visto) – pensavo che il filone social sarebbe stato sfruttato di più nei teenage horror.

Qui la ragazzina malefica ricorda pure un po’ quella di Ring.

In uscita il 9 giugno.

 

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Australia. Anni Cinquanta.

E’ notte, e per le vie deserte del piccolo villaggio di Dungatar, fa la sua comparsa Myrtle ‘Tilly’ Dunnage (Kate Winslet), di ritorno al suo paese natale dopo anni di assenza.

Tilly è vestita elegantemente e ha modi sofisticati. Ha girato il mondo, ha imparato l’arte della moda in Europa. E’ bella, piena di talento e creatività.

Ed è determinata a chiudere i conti con il suo passato.

Tilly è stata mandata via da Dungatar quando era solo una bambina. I suoi ricordi sono incompleti. Ci sono zone d’ombra che non riesce a penetrare. E una parola che aleggia inquietante sui bordi sfocati: omicidio.

Tilly non ricorda esattamente perché ma ricorda di essere stata cacciata. E ricorda i volti e i nomi di coloro che la maltrattavano e la escludevano. Ricorda le miserie, le grettezze, la cattiveria degli abitanti del paese. Le loro squallide meschinità.

Tilly vuole vendetta e vuole risposte.

Trova Molly (Judy Davis), sua madre. Vecchia, sola e pazza, più per scelta che per davvero. Anche sua madre è un muro perché, in definitiva, tenere fuori i ricordi è più facile.

Tilly è tenace, incrollabile. Tutti la odiano, tutti la guardano con sospetto. Ma tutti sono irrimediabilmente attratti da lei. Dal suo fascino, dal suo stile, dai suoi vestiti sgargianti e perfetti.

E’ attraverso le stoffe, che prendono forma la vendetta e la rivalsa di Tilly Dunnager. Attraverso la macchina da cucire che lavora ininterrottamente, i metri per prendere le misure, i corpi da vestire e reinventare per tirare fuori l’intrinseca bellezza di ciascuno di essi.

Nessuno vuole Tilly ma tutti finiscono col cercarla.

A parte la madre, solo due persone non le sono ostili: il Sergente Farrat (Hugo Weaving) e Teddy (Liam Hemsworth), l’amico d’infanzia.

Spassoso, ironico, delicato, commovente The Dressmaker è un film tutt’altro che banale, che riesce a unire toni molto diversi tra loro.

La prima parte è perfetta in ogni dettaglio, assolutamente equilibrata nel distribuire sorrisi e nel tenere sempre in tensione il filo rosso del passato di Tilly, ancora da scoprire.

Se c’è un difetto, ecco, è una sorta di salto di tono a metà.

Verso la metà, in corrispondenza di un episodio che non posso rivelare perché significativo, c’è una virata che risulta un po’ troppo brusca.

L’asse viene leggermente spostato e su quella che era prevalentemente una commedia di rivalsa e redenzione si stende un velo di amarezza e di dramma che risultano a volte un po’ stridenti, anche perché il ritmo della sceneggiatura accelera sensibilmente, con il rischio di creare un po’ di confusione.

Per dire, vengono introdotti diversi elementi di per sé molto drammatici e si vede chiaramente l’intenzione di stemperarli facendo seguire subito momenti più leggeri e, prima ancora, con l’utilizzo di una colonna sonora anch’essa leggera, con il risultato di creare, per un momento, un po’ di spaesamento riguardo a dove voglia andare a parare il film.

In ogni caso, l’impressione generale rimane assolutamente positiva.

The Dressmaker è divertente e coinvolgente dall’inizio alla fine e il trio Winslet-Davis-Weaving è fenomenale.

Kate Winslet poi è bellissima e carismatica, nei vestiti elaborati e appariscenti.

Regia di Jocelyn Moorhouse, tratto dall’omonimo romanzo di Rosalie Ham.

Era anche passato al Torino Film Festival ma non ero riuscita a farlo stare nel mio programma.

Cinematografo & Imdb.

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