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Archive for the ‘Teatro’ Category

Un appartamento immerso nel buio.
Rumore di chiavi. Serrature che scattano.
La porta si apre. Contro la luce ocra del corridoio si stagliano due ombre.
La donna entra nella stanza. L’uomo resta sulla soglia, esitante, con la valigia in mano.
Lisa si precipita sulle luci e le accende una dopo l’altra, impaziente di rendere il luogo visibile.
Dopo aver illuminato tutto, indica l’appartamento con un gesto circolare delle braccia, come se mostrasse una scenografia da lei realizzata.

LISA: Allora?

L’uomo scuote la testa. Lei insiste, tesa.

LISA: Ma sì! Non avere fretta. Concentrati.

Lui guarda i mobili uno per uno, coscienziosamente, poi scuote il capo, vinto, distrutto.

LISA: Niente?

GILLES: No.

Un incidente non meglio identificato. Un uomo, Gilles, che si risveglia in un ospedale privo di memoria. E di identità.

La moglie, Lisa, gli è accanto.

Lo riporta a casa e cerca gradualmente di aiutarlo a recuperare i ricordi della loro vita insieme.

Per Gilles è il vuoto. Buio totale.

La loro vita di coppia non significa niente. Non è nemmeno sicuro di poter dare del tu a quella bella donna che sostiene di essere sua moglie.

Le parole di Lisa dipingono il ritratto dei loro anni insieme, della loro vita di coppia. Gilles non si ritrova. Non c’è nulla che faccia scattare la molla dei ricordi. Non i suoi oggetti, non i suoi percorsi quotidiani, né tanto meno le parole di Lisa.

Lisa è tesa. A disagio.

Gilles sa che è successo qualcosa e vorrebbe ricordare l’incidente ma non ci riesce.

Eppure.

Eppure qualcosa non torna.

Perché anche dal profondo di quella strana e ovattata dimensione data dall’amnesia, riemergono dinamiche e abitudini che, private qui del loro passato condiviso, appaiono per questo ancora più surreali.

Certi modi di interagire. Certe reazioni istintive.

Un curioso balletto nella vita di una coppia come tante altre.

Un gioco di verità sempre più pericoloso man mano che ci si avvicina al cuore della sera dell’incidente.

Un continuo rimbalzare e ribaltarsi di ruoli.

Un gioco delle parti dove tutto può essere vero e falso in ugual misura.

Gilles può fidarsi di Lisa?

O nelle sue parole c’è qualcosa che non convince?

Con la consueta garbata ma tutt’altro che leggera ironia, Eric-Emmanuel Schmitt, in questa pièce del 2003 mette in scena e a nudo le scomode verità di una vita di coppia. Le schermaglie, la complicità. Ma anche la diffidenza, il dolore e, perché no, la stanchezza. Le voragini dei non detti, i rancori covati, le aspettative deluse. Ma anche l’attaccamento al di là di ogni ragionevolezza.

E allora chi mente e chi no? Chi si salva e chi è colpevole?

Chi ama di più e chi di meno?

Chi sarà l’assassino?

Crudele, realistico, toccante, divertente, Piccoli crimini coniugali, fa sorridere, fa arrabbiare e, a tratti, fa persino un po’ paura ed è un piccolo gioiello di equilibrio.

Dal testo è stato tratto un film con Sergio Castellitto e Margherita Buy, uscito ad aprile 2017 e che non sembra male.

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Pittsburgh, anni Cinquanta.

Periferia.

Il piccolo cortile sul retro di una casa modesta. Anzi, povera, a vederla dall’esterno, ma accogliente quando ci si entra.

Una casa dove c’è un’atmosfera di famiglia.

Una casa nel senso umano del termine.

Troy Maxson vi abita con sua moglie, Rose, e il figlio Cory.

Troy lavora come netturbino e il venerdì porta a casa la paga e si concede una bevuta di gin chiacchierando con Jim Bono, collega e amico di una vita.

Il venerdì spunta anche sempre Lyons, il figlio più grande di Troy, avuto da una precedente relazione. Arriva un po’ per batter cassa, mentre cerca di guadagnarsi da vivere suonando nei locali e raccogliendo prevalentemente la totale disapprovazione del padre.

Cory va a scuola ed è bravo a football. Così bravo che potrebbe entrare in una squadra. Pensare di andare al college. Anche se Troy non vuole. Per Troy è più importante che Cory aiuti a finire lo steccato intorno al cortile. Perché Troy era bravo a giocare a baseball. Potenzialmente un campione. Ma tanto la vita è quella che è, e un negro in squadra viene lasciato in panchina. E quindi no, neanche Cory deve perder tempo dietro queste illusioni.

Tratto dall’omonima pièce teatrale di August Wilson – accreditato come sceneggiatore benché morto nel 2005 – Fences mantiene quasi intatta la struttura del teatro con la quasi totale unità di luogo intorno e dentro la casa, cuore fisico e simbolico di tutta la vicenda.

I dialoghi fittissimi, quasi sfiancanti, delineano gradualmente i contorni di una vita portata avanti a calci, se necessario. Accennano i tratti di una felicità faticosa e non scontata.

Regia e interpretazione di un ottimo Denzel Washington che, palesemente, nell’Oscar ci sperava proprio. E non tanto per la presunta reazione la sera della cerimonia, quanto piuttosto perché la sua parte era davvero meritevole di riconoscimento – non meno di quasi tutti gli altri candidati, in effetti.

Un ruolo densissimo, gigantesco, che riempie lo schermo, che si mangia tutto lo spazio intorno. Un personaggio forte, solitario e al tempo stesso piccolo e insignificante.

Accanto a lui l’altrettanto ottima Viola Davis che, di fatto, sarebbe una coprotagonista ma che fortunatamente è rientrata nella categoria non protagonista, il che le ha permesso di prendere la meritatissima statuetta, nonostante Emma Stone.

Appunti sulla versione italiana: con la traduzione – seppur corretta e, incredibilmente, senza sottotitoli – Barriere si perde la doppia accezione di Fences come barriera e come steccato – quello che Troy e Cory stanno costruendo per Rose.

E poi. Denzel Washington è doppiato da Pannofino che sì, ha una gran voce e una forte espressività ma, in questo caso, data la presenza di lunghi tratti quasi monologati, è davvero troppo invasiva sulla connotazione del personaggio e dell’intonazione.

Tolte queste annotazioni – che, ripeto, riguardano meramente la versione italiana – Fences è un film perfetto in ogni sua parte. Ti cattura e ti coinvolge nel ritmo serrato e implacabile dei dialoghi. Ti chiude dentro quello steccato in costruzione e ti costringe a esplorare i limiti. Dei legami. Dei sentimenti. Della sopportazione. Della vita.

Uno di quei film da non perdere.

Imdb.

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Tratto dalla pièce teatrale In Moonlight Black Boys Look Blue di Tarell Alvin McCraneyv, per la regia di Barry Jenkins, Moonlight è un ritratto in tre atti.

Infanzia, adolescenza ed età adulta di Chiron, un ragazzo dalla pelle scura e dallo sguardo schivo, nella periferia violenta e ostile di Miami, tra spaccio di droga e razzismi di vario genere.

Chiron dapprima è Piccolo, Little, un bambino chiuso ai limiti del patologico, preso di mira dai compagni perché strambo, mite di carattere, un po’ impaurito dai coetanei in cui non si riconosce e da una madre assente e problematica.

Poi Chiron è Chiron, un adolescente solitario, dal carattere riservato, incapace di gestire un’emotività dirompente, un legame sempre più forte verso il suo migliore amico Kevin, una sessualità che il contesto in cui si trova difficilmente potrà mai lasciare impunita.

E infine Chiron è Black, ormai un uomo, che sembra aver cancellato le sue paure ma ancora strenuamente impegnato nella lotta con i suoi fantasmi.

Sullo sfondo si muovono le figure della madre, grande assenza che incombe su Chiron in ogni fase della sua vita, Kevin, amico e nemico, e Juan, uno spacciatore che, insieme alla sua compagna Teresa, ricopre per il Piccolo Chiron il ruolo di un padre surrogato. Figura guida e, in un certo senso, ancora di salvezza per il bambino abbandonato a se stesso.

Moonlight è un film delicato, complesso, intelligente e, in definitiva, molto molto bello.

Sottile, preciso e impietoso nel suo portare alla luce le incoerenze paradossali di un contesto sociale articolato e di difficile rappresentazione. Lucido nell’illustrare, senza pontificare e senza assumere i toni banali del social-justice, il meccanismo per cui, in definitiva, c’è sempre qualcuno da discriminare. E vivere la discriminazione sulla propria pelle, non insegna niente a nessuno. C’è sempre qualcuno più debole. Qualcuno più diverso su cui sfogare frustrazioni e complessi di inferiorità.

E c’è il quadro di una vita che scorre senza essere mai realmente afferrata. Una vita che si sfiora, si intuisce. Una serie di decisioni obbligate e la difficoltà monumentale, a volte insormontabile, di trovare il coraggio di fare una scelta in mezzo a questo percorso accidentato disseminato di trappole.

Otto candidature agli Oscar, già vincitore del Globe come miglior film drammatico, Moonlight porta anche, più che meritatamente, Mahershala Ali e Naomie Harris come miglior attore e attrice non protagonisti.

Candidato anche per fotografia, colonna sonora, sceneggiatura non originale e montaggio – dove le prime due sono forse un filo eccessive.

Unico neo, se proprio voglio essere totalmente onesta, è che, per quanto tecnicamente impeccabile, a volte Moonlight risulta un po’ poco coinvolgente sul piano immediatamente emotivo. Probabilmente questa è una percezione totalmente personale ma è come se in molte parti, Chiron chiudesse fuori anche lo spettatore.

Ottima anche la scelta dei tre attori che interpretano i tre Chiron, con un notevole lavoro sull’espressività e sulla postura, tali da far sembrare davvero i tre diverse declinazioni del medesimo individuo.

Molto consigliato anche questo.

Cinematografo & Imdb.

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This image released by A24 Films shows Alex Hibbert, left, and Mahershala Ali in a scene from the film, "Moonlight." The film is a poetic coming-of-age tale told across three chapters about a young gay black kid growing up in a poor, drug-ridden neighborhood of Miami. (David Bornfriend/A24 via AP)

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E voglio giocare a nascondino e darti i miei vestiti e dirti che mi piacciono le tue scarpe e sedermi sugli scalini mentre fai il bagno e massaggiarti il collo e baciarti i piedi e tenerti la mano e andare a cena fuori e non farci caso se mangi dal mio piatto e incontrarti da Rudy e parlare della giornata e battere a macchina le tue lettere e portare le tue scatole e ridere della tua paranoia e darti nastri che non ascolti e guardare film bellissimi e guardare film orribili e lamentarmi della radio e fotografarti mentre dormi e svegliarmi per portarti caffè brioches e ciambelle e andare da Florent e bere caffè a mezzanotte e farmi rubare tutte le sigarette e non trovare mai un fiammifero e dirti quali programmi ho visto in tv la notte prima e portarti a far vedere l’occhio e non ridere delle tue barzellette e desiderarti di mattina ma lasciarti dormire ancora un po’ e baciarti la schiena e carezzarti la pelle e dirti quanto amo i tuoi capelli i tuoi occhi le tue labbra il tuo collo i tuoi seni il tuo culo il tuo

e sedermi a fumare sulle scale finché il tuo vicino non torna a casa e sedermi a fumare sulle scale finché tu non torni a casa e preoccuparmi se fai tardi e meravigliarmi se torni presto e portarti girasoli e andare alla tua festa e ballare fino a diventare nero e essere mortificato quando sbaglio e felice quando mi perdoni e guardare le tue foto e desiderare di averti sempre conosciuta e sentire la tua voce nell’orecchio e sentire la tua pelle sulla mia pelle e spaventarmi quando sei arrabbiata e hai un occhio che è diventato rosso e l’altro blu e i capelli tutti a sinistra e la faccia orientale e dirti che sei splendida e abbracciarti se sei angosciata e stringerti se stai male e aver voglia di te se sento il tuo odore e darti fastidio quando ti tocco e lamentarmi quando sono con te e lamentarmi quando non sono con te e sbavare dietro ai tuoi seni e coprirti la notte e avere freddo quando prendi tutta la coperta e caldo quando non lo fai e sciogliermi quando sorridi e dissolvermi quando ridi e non capire perché credi che ti rifiuti visto che non ti rifiuto e domandarmi come hai fatto a pensare che ti avessi rifiutato e chiedermi chi sei ma accettarti chiunque tu sia e raccontarti dell’angelo dell’albero il bambino nella foresta incantata che attraversò volando gli oceani per amor tuo e scrivere poesie per te e chiedermi perché non mi credi e provare un sentimento così profondo da non trovare le parole per esprimerlo e aver voglia di comperarti un gattino di cui diventerei subito geloso perché riceverebbe più attenzioni di me e tenerti a letto quando devi andare via e piangere come un bambino quando poi te ne vai e schiacciare gli scarafaggi e comprarti regali che non vuoi e riportarmeli via e chiederti di sposarmi e dopo che mi hai detto ancora una volta di no continuare a chiedertelo perché anche se credi che non lo voglia davvero io lo voglio veramente fin dalla prima volta che te l’ho chiesto e andare in giro per la città pensando che è vuota senza di te e volere quello che vuoi tu e pensare che mi sto perdendo ma sapere che con te sono al sicuro e raccontarti il peggio di me e cercare di darti il meglio perché è questo che meriti e rispondere alle tue domande anche quando potrei non farlo e cercare di essere onesto perché so che preferisci così e sapere che è finita ma restare ancora dieci minuti prima che tu mi cacci per sempre dalla tua vita e dimenticare chi sono e cercare di esserti vicino perché è bello imparare a conoscerti e ne vale di sicuro la pena e parlarti in un pessimo tedesco e in un ebraico ancor peggiore e far l’amore con te alle tre di mattina e non so come non so come non so come comunicarti qualcosa dell’assoluto eterno indomabile incondizionato inarrestabile irrazionale razionalissimo costante infinito amore che ho per te.

Crave – Febbre, 1998

 

Non avevo idea di chi fosse Sarah Kane.

E probabilmente non ce l’ho nemmeno adesso.

Ho pescato questo libro a caso, in base al principio che se continuo a comprare solo cose che conosco, o di cui in qualche modo ho sentito parlare, non vado da nessuna parte e quindi porto avanti uno sgangherato, incoerente, disomogeneo e disorientante percorso di acculturamento casuale.

Ci sarebbe da approfondire la mia più o meno inconscia attrazione per autori e autrici che si sono suicidati.

E ci si potrebbe soffermare sulla fitta rete di legami e risonanze che mi hanno portato ad avere tra le mani questo libriccino scritto da una ragazza che si è tolta la vita a 28 anni dopo aver lasciato cinque lavori teatrali di indubbia potenza.

Per tutti i primi tre testi, Blasted, Phedra’s Love e Cleansed, devo dire la verità che l’ho odiato, questo libriccino.

E ho odiato l’autrice e la critica che ne ha osannato la portata dirompente.

Non so. Riesco a capire cosa stesse cercando di fare ma non riesco ad apprezzare queste gallerie di orrori reali che in certi momenti mi hanno ricordato la morbosità di un Bret Easton Ellis. Sesso e violenza nelle loro declinazioni peggiori. Mutilazioni e cannibalismo e via così.

Davvero. Ho odiato quei tre testi. Non credo che vorrei mai vederli rappresentati. E non per un problema di finto moralismo.

Non mi sento ferita né tanto meno il bersaglio di una deliberata intenzione di stupire – mi parrebbe persino banale, dato che stiamo parlando degli anni Novanta.

E’ solo che c’è una certa declinazione del disturbante che non fa per me. Non riesco a entrarvi in sintonia.

E poi sono arrivata a Crave (Febbre) e a 4:48 Psychosis e si è come aperto uno squarcio nell’orrore trasmesso dai lavori precedenti.

Sono due testi difficili, inquietanti ed estremamente dolorosi al fondo dei quali si riesce a intravedere l’abisso che alla fine ha inghiottito Sarah.

Sono due testi che ho trovato estremamente toccanti. Toccanti in un modo persino più inquietante dell’orrore degli altri tre.

Non lo so. Devo ancora inquadrare molti elementi.

Ci sono domande che emergono provocatorie, come per esempio, quanto ha contato nella consacrazione di questa autrice il fatto che si sia tolta la vita dopo aver concluso 4:48 Psychosis – che altro non è che una lunga suicide note in forma di monologo?

Quanto ha influito il fatto che fosse donna nell’amplificare ulteriormente l’impatto della violenza dei suoi testi?

Ci sono elementi che mi hanno colpita molto e altri che mi hanno lasciato enormi perplessità.

Controversa. Almeno nella mia opinione. Probabilmente rileggerò e approfondirò.

Di sicuro interessante.

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Tratto dall’omonima pièce teatrale di David Lindsay-Abaire, Rabbit Hole è passato nelle sale un po’ in sordina, nonostante la nomination – peraltro forse un po’ eccessiva – di Nicole Kidman come miglior attrice protagonista all’edizione degli Oscar del 2011.

Trama semplice ma estremamente delicata, di quelle tematiche che basta niente e viene fuori il melodramma.

Becca e Howie sono una giovane e bella coppia che ha tutto ciò che si può desiderare, finché la loro vita non viene stravolta dalla perdita del figlioletto di tre anni.

La regia di John Cameron Mitchell è delicata e discreta e conduce dentro le lussuose mura della grande casa a tragedia già avvenuta.

Si entra fin da subito in una dimensione di apparente quotidianità, nella quale però si avverte il sottofondo di una nota dissonante.

Troppi silenzi e, soprattutto, troppe parole di circostanza. Gesti forzatamente normali e infinite distanze che prendono forma e consistenza tra i due coniugi che sono uniti e separati da un dolore che non sanno come affrontare e che, prima di tutto, non sanno affrontare insieme.

Non sanno o non possono.

Ognuno ha i suoi posti nei quali rifugiarsi per sfuggire al dolore.

Ognuno ha il suo modo di evitarlo o affrontarlo.

E non c’è gesto o atto d’amore che possa infrangere la cortina di solitudine che il dolore ti butta addosso.

Becca e Howie hanno perso loro figlio ma vivono due lutti separati.

Molto valide le interpretazioni dei due protagonisti, mai sopra le righe, mai eccessivamente patetici.

Si trasmette molto bene la reale concretezza di una perdita che è prima di tutto assenza costante in ogni singolo gesto.

Quello che arriva non è il dolore urlato della tragedia appena compiutasi ma quello silenzioso e letale delle piccole impronte sulle porte, dei disegni attaccati al frigo, della cameretta con i giochi, del cane che scappa fuori dal giardino.

Molto ben orchestrato anche il coro dei personaggi secondari, con il gruppo di sostegno e il rifiuto di Becca di cercare conforto in qualcosa in cui non crede; con la madre che cerca di lenire il dolore della figlia accostandole quello che a sua volta ha provato – senza ovviamente riuscirvi; con le dinamiche relazionali congelate nell’imbarazzo di un dolore che non si può neanche pensare.

Bellissimo il rapporto di Becca con il giovane Jason (Miles Teller), del quale non posso dire altro per evitare spoiler. E bellissimo il modo in cui questo rapporto entra in scena e gradualmente sposta la prospettiva. Poco per volta, impercettibilmente, ma in modo determinante.

Resta una sensazione cupa e opprimente. Una tristezza prepotente che non ti lascia per un po’.

Da vedere.

Cinematografo & Imdb.

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ogni motivo è buono per mollare, per uscire dalla clausura. Esci con la scusa di una cartuccia d’inchiostro per la stampante e ti perdi a zonzo. E questo bighellonare certe volte ti premia, fai l’incontro giusto, qualcuno o qualcosa che ti porterai dietro. E così è stato anche stavolta. Sono uscita e ho incontrato un tipo che incontro spesso nel mio quartiere, un barbone con cui ho una certa confidenza, uno che viaggia a vino e cipolle accanto a un canetto sfibrato tenuto da uno spago. Ci vuole cautela, ce l’ha con le donne. Certi giorni è uno zucchero, certi altri esci dal supermercato con un po’ di spesa anche per lui e ti ringrazia con un insulto sessuale che ci resti di sale.

Cercavo una buona idea per Sergio Castellitto, per il suo talento d’attore ma non solo, qualcosa che desse voce alla sua parte muta. Dopo tanti film gli era venuta nostalgia del teatro, della vecchia placenta dove era nato come attore, di quel corpo a corpo con se stesso in quella bolla di polvere e luce. Pensavo a un monologo intimo eppure circense che gli desse la possibilità di sgangherarsi. Perché ogni tanto viene voglia di stendesi sul guanciale dell’abbandono, di dire: ma sì, voglio essere molle e cagionevole, stupido e disdicevole. Voglio sputtanarmi, non ce la faccio più a tenere il punto fermo, la bussola orientata sulla rotta della decenza. Gli attori hanno questa possibilità di sbracare, di prendersi una vacanza dalla normalità. E di essere ben pagati e applauditi per questo. Hai la possibilità di vergognarti senza che nessuno se ne accorga. Di piangerti qualcosa di solo tuo in mezzo a un cumulo di bugie.

Così ho pensato: scrivo di uno che sta in strada, senza sociologia, solo un’anima che vaga, che strepita. Uno di quei sbrancati attraversatori di città. Uno buffo, con le sue miserie, le sue lacrime ma anche una sua strafottenza, un suo umorismo. Uno che non si scansa, che ha accettato il suo destino come la cacata di un uccello sulla testa, imprecando e ringraziando insieme.

Scrivere di un senzatetto è affidarsi alla scabrosità di una possibilità che ti appartiene. Perché gli artisti, spesso e volentieri, sono barboni fortunati. Ce l’hanno fatta a non finire all’addiaccio, ma conservano i tratti disturbati e l’inquietudine dell’erranza, vagano con gli occhi, sentenziano sul mondo, hanno ossessioni, riti. Ogni giorno corrono il rischio di perdersi, di non trovare più la strada del ritorno.

Non ho scelto uno che guarda in terra. Ho scelto uno che avesse ancora voglia di guardare in faccia la gente. Un anatraccio curioso che risale il fiume e scruta i regolari, i “Cormorani”, quelli che stanno nel recinto della società organizzata. Straparla, dice la sua, buon senso e bestialità, ride di gusto e poi s’accascia. Ha un vecchio trauma stretto nel cuore come un trofeo, e un guinzaglio al posto della cravatta: è roba del suo cane, del suo lutto. E’ il cazzotto, la sciancata. E’ il piano della vita che s’inclina, si mette di traverso. Una notte è uscito, s’è messo a quattro zampe, è andato. E’ lurido, come tutti i barboni. Indossa un vestito color birra d’un tessuto che luccica, preso a un centro di raccolta e che magari è il vestito di un morto. Due mollette da panni gli stringono i pantaloni al polpaccio. Scarpe con le suole lisce come dorsi di canoa,  scarpe che scivolano sui marciapiedi, sulla melma del lungo fiume, sulle verdure rimaste in terra dei mercati che smontano. La maglietta produce fiammelle, è acrilica, azzurra nazionale, con un bello scudetto dell’Italia. E’ l’allegria che copre il petto, il ghigno che lo gonfia, che sfotte il cielo. Si chiama Zorro, questo ragazzo di mezza età. Zorro come lo spadaccino nero, Zorro come un cane color piscio. E’ incazzato, naturalmente è molto incazzato, oppure ci fa. Non ha più le tessere di accesso, è come quei guidatori spericolati a cui hanno ritirato la patente. Beve, chi sta in strada beve. Dorme in stazione, accanto allo sfiato caldo della metropolitana, sniffa gli odori, guarda le scarpe che passano, guarda le donne. Gliene piace una alla portata, una con il culo basso come il mariciapiede.

Mi sono divertita a farlo parlare, perché scrivere per il teatro è una vacanza, e mi sono commossa perché scrivere di quest’uomo sfortunato mi ha commosso. Ho sempre pensato che la marginalità, nella sua terribile durezza, sia un osservatorio privilegiato. Così queste persone che se ne vanno per i fatti propri borbottando, imprecando, con un vespaio di strani pensieri in testa, mi sembrano il sale della terra, un buon motivo per restare, per festeggiare la vita. Ti guardano da una lontananza mai troppo benigna, minacciosi a volte, esigono il rispetto di chi si è appartato. Stanno sul margine del grande fiume, intenti come pescatori in attesa. Pescano nel nostro vortice quello che rimane, quello che schizza via, che gli appartiene per diritto. Hanno quegli odori concentrati, essenza d’uomo, come mosto, come seccume marino, roba sfinita dal sole o macerata dall’umido, roba che fa il suo corso.

Zorro mi ha aiutato a stanare un timore che da qualche parte appartiene a tutti. Perché dentro ognuno di noi, inconfessata, incappucciata, c’è questa estrema possibilità: perdere improvvisamente i fili, le zavorre che ci tengono ancorati al mondo regolare. 

Chi di noi in una notte di strozzatura d’anima, bavero alzato sotto un portico, non ha sentito verso quel corpo, quel sacco di fagotti con un uomo dentro, una possibilità di stesso? I barboni sono randagi scappati dalle nostre case, odorano dei nostri armadi, puzzano di ciò che non hanno, ma anche di tutto ciò che ci manca. Perché forse ci manca quell’andare silenzioso totalmente libero, quel deambulare perplesso, magari losco, eppure così naturale, così necessario, quel fottersene del tempo meteorologico e di quello irreversibile dell’orologio. Chi di noi non ha sentito il desiderio di accasciarsi per strada, come marionetta, gambe larghe sull’asfalto, testa reclinata sul guanciale di un muro? E lasciare al fiume il suo grande, impegnativo corso. Venirne fuori, venirne in pace. Tacito brandello di carne umana sul selciato dell’umanità.

Perché i barboni sono come certi cani, ti guardano e vedi la tua faccia che ti sta guardando, non quella che hai addosso, magari quella che avevi da bambino, quella che hai certe volte che sei scemo e triste. Quella faccia affamata e sparuta che avresti potuto avere se il tuo spicchio di mondo non ti avesse accolto. Perché in ogni vita ce n’è almeno un’altra.

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Margaret Mazzantini, Zorro. Un eremita sul marciapiede, Mondadori 2004

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Segnalazione di iniziativa fighissima tra il 3 e il 13 maggio a Torino.

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Questo http://www.tofringe.it/ il sito ufficiale.

Qui, il programma completo.

In particolare, all’interno del programma, segnalo questa cosa bellissima che si rappresenterà al Caffè del Progresso.

Dalla pagina ufficiale.

Un palcoscenico. Applausi. Ma subito accade qualcosa di inaspettato: il tempo passa e i due personaggi si ritrovano in un’altra opera. La scena non è più la stessa e dietro di loro, in una videoproiezione, i loro interpreti si interrogano sul senso del loro lavoro. Sono Hamm e Clov di Finale di partita, ma non si chiamano più così, sono stati ribattezzati Al e Clay. I loro volti sono bianchi come quelli dei clown. Al posto dei bidoni due televisori in cui scorrono ininterrottamente immagini; anche le finestre non ci sono più: ”Al: Dev’essere il teatro di ricerca… straccioni”. Non rimane che una soluzione, fosse anche quella definitiva.
Lo spettacolo indaga i meccanismi della ripetizione nell’essere umano. La rilettura immagina una possibile evoluzione dei personaggi di Beckett ai giorni nostri. Nel testo nulla si muove, quasi per non morire, per non cambiare: “…e intanto si va avanti”. Nel 2010 però la partita si gioca con carte diverse: c’è un mondo che non si nasconde più dietro al nulla, ma che si maschera con il troppo, un mondo dove non è più la bomba atomica il pericolo imminente, ma il quotidiano produrre superfluo dell’essere umano e la sua innata capacità di auto-distruzione. Ma ci sono i due autori, i due attori e ci sono anche Al e Clay, insieme in scena, tentano tutti di dare un finale alla loro esistenza, giocandosi il confine tra scena e realtà, tra video e teatro.

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Mi sono imbattuta in Crab grazie ad un breve ciclo di conferenze-spettacolo al Circolo dei Lettori e se capitate da queste parti vale veramente la pena andarli a vedere. Ieri sera il ciclo si è concluso e ho potuto assistere ad una breve anteprima di Un finale per Sam – che è geniale davvero, oltre ad essere un’impresa tutt’altro che facile mettersi in gioco con un testo così imponente come Endgame di Beckett. Morale. Andate a vederlo.

Poi. Altra segnalazione che non c’entra con il Fringe ma c’entra con Crab perché ne vede coinvolta una dei membri, Eloisa Perone.

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Ho dato anche un esame su quest’opera, all’università. E ricordo che dovetti studiarla su fotocopie perché il testo nella traduzione edita da De Donato del 1973 era irreperibile già da diversi anni.

Non era mai più stato tradotto e questa edizione, nata in occasione della messa in scena di Studio Caino – è stata veramente una sorpresa.

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