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Archive for the ‘A. Argento’ Category

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Allora. Incompresa sono andata a vederlo senza sapere bene cosa aspettarmi…

No. Non è vero.

Sono andata a vederlo senza neanche pormi il problema di cosa aspettarmi perché, diciamo le cose come stanno, quando c’è di mezzo Asia io devo andare a vedere cosa combina. Punto. Se poi ci aggiungiamo che qui nella colonna sonora è pure andata a tirare in ballo il Molko, bon, non mi pare ci sia bisogno di aggiungere altro.

A voler essere sincera, avevo anche le mie perplessità per vari motivi che possono essere significativamente riassunti nel nome di Gabriel Garko nel cast. Considerata la profonda antipatia che nutro per quell’individuo avrebbe potuto rappresentare un problema non da poco. Che poi questa mia antipatia probabilmente derivi più dal fatto che, sostanzialmente, detesto il tipo di televisione che fa e le orde di desperate housewives che gli sbavano dietro è un fattore che sarebbe da tenere in considerazione ma qui si vira verso la psicologia da bar e la cosa è tutt’altro che auspicabile.

Quindi. Il film.

Mi è piaciuto. E anche tanto.

Ok. Non mi metto a gridare al capolavoro perché il sospetto di fangirling sarebbe forse legittimo ma, davvero, è un film dannatamente buono.

E’ forte, personale, diverso. Ti trascina a forza dentro la sua atmosfera e te la lascia attaccata addosso quando esci dal cinema.

Aria (Giulia Salerno), 9 anni, una famiglia sfasciata. Due genitori anaffettivi, egoisti, crudelmente assenti. Due sorelle lontane, inutili, probabilmente troppo impegnate a loro volta a ricavarsi un posto nel distorto universo genitoriale per preoccuparsi di Aria. E i disturbi alimentari. E l’amicizia che sembra essere un rifugio e un conforto. Sembra. E Dac, il gatto nero, le sue fusa e i suoi miagolii, il micio che si prende da Aria tutte le carezze che non vengono fatte a lei.

Il punto di vista della narrazione è proprio quello di Aria e, attraverso le sue parole e i suoi ricordi, emerge un quadro di straziante solitudine e altrettanto straziante desiderio di contatto. Aria rimbalza tra le case di due genitori che non la vogliono, che identificano in lei la concretizzazione di tutto quello che hanno sbagliato, del fallimento del loro rapporto e di se stessi. Il padre (Garko) è un attoraccio di bassa categoria che si pasce della notorietà spicciola che è riuscito a raggiungere e aspira a fare il salto per diventare un grande attore. La madre (Charlotte Gainsbourg) è una pianista ormai più interessata ai suoi amanti (e alle doti dei suoi amanti siano esse economiche o di altra natura) che alla sua musica.

Il fatto che la prospettiva sia quella di Aria è determinante per capire il modo in cui sono connotati tutti i personaggi. Prende vita quella che è sostanzialmente una galleria di mostri. Non si salva nessuno. Le cattiverie e l’indifferenza sono esasperate. I genitori – come anche gli amici, seppur in un secondo momento – sono creature sempre più unidimensionali, sempre più identificate in modo inscindibile con la loro cattiveria nei confronti di Aria.

E questo è fondamentale perché quando sei adolescente (o pre-adolescente come in questo caso) hai una percezione della realtà che, per molti versi, è distorta è amplificata. E’ una percezione profondamente emozionale ed egocentrica. E non conta niente che, magari a distanza di anni, una prospettiva più matura e più razionale intervengano sulla memoria a far vedere gli avvenimenti sotto un’altra luce. Non serve arrivare a capire razionalmente le motivazioni dei comportamenti che ti hanno ferito. Quando sei bambino/adolescente conta solo il fatto che ti stanno ferendo. E niente cancellerà il dolore che provi in quel momento, neanche la consapevolezza che – magari – avesse un motivo. Niente cancellerà mai la solitudine che provi a quell’età. Niente avrà mai il potere di attenuare la potenza di quelle emozioni.

E qui salta fuori il discorso – affrontato anche a Cannes – del biografico o non biografico. Quanto ci ha messo Asia di personale? Quanto ha preso dalla sua infanzia? Lei smentisce che sia un film autobiografico.

Sinceramente trovo la questione un po’ oziosa per varie ragioni. Che ci sia del personale è ovvio e inevitabile. Tutti finiamo col riversare parte del nostro patrimonio emozionale in quello che creiamo. E’ fisiologico.

Ci sono dei riferimenti a quelli che possono essere suoi ricordi – anche se qui sto andando a ruota libera e sto facendo associazioni che non hanno alcuna conferma. I capelli della Gainsbourg e certi suoi abbigliamenti ricordano un po’ la figura di Daria Nicolodi negli anni Settanta e ci sono alcune scene che mi hanno rimandato ad altre scene dei film di Dario. Una per tutte, la Gainsbourg che sale in macchina. La ripresa rallentata, il vestito che svolazza, il vento. Non sono sicurissima di quale sia il riferimento, la prima associazione che ho fatto è stata con Suspiria, le porte scorrevoli e il temporale ma non escludo che sia un altra la scena (e il film) a cui si richiama. E potrei andare avanti ancora un bel po’ a fare il giochetto dei richiami su parecchi altri particolari ma avrebbe senso fino a un certo punto.

La realtà è che tutti abbiamo i nostri fantasmi e ognuno ci fa i conti e impara a conviverci come può.

Sleeping With Ghosts, diceva Brian un po’ di anni fa, anche se io ho sempre preferito la variante del living with ghosts.

Abbiamo tutti qualcosa in sospeso. Qualcosa che dobbiamo rielaborare. Qualcosa che prima o poi deve venire fuori. Il che non vuol dire che si spiattelli per filo e per segno il racconto di qualcosa che ci è successo. La memoria rielabora, cambia, distorce ma soprattutto filtra. Quello che resta generalmente ha ben poco a che fare con i “fatti realmente accaduti”. Quello che resta intatto sono le emozioni. Che sono il punto di contatto. Il mezzo per la catarsi.

Le tinte sono forti, nell’emotività di Aria come nella sua persona. I colori accesi degli anni Ottanta (siamo nel 1984 per l’esattezza) dominano nelle ambientazioni e nell’abbigliamento.

Visivamente bellissimo, curato in modo quasi maniacale nella costruzione degli ambienti e delle scenografie.

Colonna sonora fantastica e terribilmente adatta. La maggior parte dei brani è stata scritta da Asia stessa. Di Brian mi pare ce ne siano due, il primo e il penultimo. Dovrò recuperarmela.

Giulia Salerno è meravigliosa, dolcissima, perfetta nella sua espressività quieta e disperata al tempo stesso.

La Gainsbourg è fenomenale, come sempre. Al di là del fatto che io adoro Charlotte Gainsbourg, è un fatto che qualunque sia il ruolo in cui si cimenta, il risultato è sempre ottimo. Ho amato moltissimo il fatto che reciti in italiano e il suo accento.

Garko. Il suo personaggio poteva essere interpretato meglio? Secondo me sì, però non posso dire che non sia ben riuscito. Urla forse un po’ troppo. E non mi piace granché come gli vengono le scene urlate ma è pur vero che è adatto a quel ruolo. E devo anche dire che ha dimostrato una discreta dose di autoironia nell’accettarlo.

Compare anche Asia, in una breve scena marginale e nei panni di Donatina, una delle due sorelle, troviamo Anna Lou Castoldi.

Non è un film perfetto, quello no. Se proprio voglio fare la pignola, ci sono alcuni dialoghi dei litigi che avrebbero potuto funzionare meglio, in modo più fluido.

Però è un film bellissimo. Che ti cattura, ti coinvolge, ti fa amare incondizionatamente la protagonista, ti investe con la sua bellezza e con la sua emotività diretta, incondizionata, priva di filtri.

Da vedere assolutamente.

Cinematografo & Imdb.

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E che fai, non vuoi andare a vedere cosa combina Asia da regista?

Sto solo cercando di rimuovere il nome di Gabriel Garko, ma d’altronde, dopo aver visto Steven Seagal in Machete non c’è più nulla che possa fermarmi.

E poi nella colonna sonora ci sono anche musiche di Brian Molko…praticamente sono obbligata a vederlo.

 

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Come dicevo l’altro giorno, quest’anno non sono riuscita a seguire molto Cannes, ma questo non ha impedito al festival di giungere a conclusione.

I vincitori:

Palma d’Oro al miglior film: La Vie d’Adèle – Abdellatif Kechiche

Premio assegnato, in via del tutto eccezionale per volontà della giuria presieduta da S. Spielberg, sia al regista, sia alle due attrici protagoniste, Adèle Exarchopoulos e Lèa Seydoux.

Grand Prix Speciale della Giuria: Inside Llewyn Davis – Fratelli Coen

Prix d’interprétation féminine (migliore attrice): Bérénice Bejo – The Past

Prix d’interprétation masculine (miglior attore): Bruce Dern – Nebraska

Prix de la mise en scène (miglior regista): Amat Escalante per Heli

Prix du scénario (miglior sceneggiatore): Jia Zhang-ke – A Touch of Sin

Premio della giuria: Like Father Like Son – Hirokazu Kore-eda

Camera d’Or (miglior opera prima di tutte le sezioni): Ilo Ilo – Anthony Chen (Quinzaine)

Palma d’oro al miglior cortometraggio: Safe – Moon Byung-gon

Menzioni speciali: Whale Valley – Gudmundur Arnar Gudmundsson e Adriano Valerio – 37°4 S

Premi per la sezione Un Certain Regard:

Premio Un Certain Regard: The Missing Picture – Rithy Panh

Premio della Giuria: Omar – Hany Abu-assad

Premio per la regia: Alain Guiraudie per L’Inconnu du Lac

Premio A Certain Talent: al cast di La Jaula de Oro – Diego Quemada-Diez

Premio Avenir: Fruitvale Station – Ryan Coogler

Allora, La Vie d’Adèle e Inside Llewyn Davis devo assolutamente vederli, insieme a The Bling Ring e a Only God Forgives di cui parlavo la scorsa settimana.

La Vie d’Adèle, inoltre, è il primo film a tematica gay a vincere la Palma d’Oro e capita proprio a ridosso del sì del governo francese ai matrimoni gay.

Felice coincidenza? Segno del destino?

Tra l’altro, il film è liberamente ispirato al graphic novel Le Bleu est une couleur chaude di Julie Maroh.

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Il premio per la miglior sceneggiatura per A Touch of Sin è stato consegnato da Asia Argento che devo ancora capire perché se la sia presa tanto con i fotografi sul red carpet.

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Asia, tesoro, insomma, non si fa.

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Mi considero una fan piuttosto fedele di Dario Argento. Penso di aver visto praticamente tutto quello che ha fatto e sono in quella condizione – tipica da fan appunto – che alla fine mi piace anche quando non mi piace, se si capisce il concetto.
E’ pur vero che per Dario Argento bisogna adottare dei parametri di giudizio appositamente dedicati e dimenticarsi tutta una certa abitudine al canone horror a cui Hollywood ci ha assuefatti.

Questa sera sono reduce da Dracula 3D. Dracula secondo Argento.

Sinceramente ero parecchio dubbiosa sul risultato e invece son rimasta persino stupita perchè è un film decisamente raffinato sotto diversi aspetti. Tolto Il Fantasma dell’Opera che era ambientato più o meno a fine Ottocento ma si svolgeva quasi interamente all’interno del teatro, questo è il primo film di Argento di ambientazione interamente storica.

Il 3D è fatto bene anche se, come ormai nella maggior parte dei casi, non aggiunge nulla al film. Splatter ridotto davvero al minimo, sia come inquadrature truculente – pressoché assenti – sia come quantità di sangue – che comunque è davvero troppo chiaro e a volte tende pure un po’ al fucsia. Piccola eccezione, peraltro ben riuscita, la scena in cui Dracula costringe Delbruck a spararsi alla gola e si vede un bel rallentatore del proiettile che attraversa la bocca e poi il palato per uscire dal cranio spalmandone il contenuto sul soffitto.

Enorme debito nei confronti del Dracula di Bram Stoker di F.F. Coppola. Per carità, la storia di partenza è sempre la stessa non è che si possano fare molte varianti, ma la scelta di alcune battute (i figli della notte, che dolce musica fanno in questo e i figli della notte, quale dolce musica emettono nell’altro) e l’impostazione di alcune scene (per esempio quella dove Harker si affaccia alla finestra e vede il Conte camminare a quattro zampe sulle mura, tanto per dire la prima che mi viene in mente) rivelano davvero troppo palesemente l’eredità di quel precedente in particolare.

Il digitale. Volendo sorvolare sul fatto che DA lo usa se non per la prima volta poco ci manca con quei dieci anni abbondanti di ritardo rispetto al resto del mondo del cinema, non offre grandi rielaborazioni. Pessime le fiamme che avvolgono Lucy; assolutamente bocciate. Spesso e volentieri utilizza ancora interiora di maiale per le scene truculente e per una volta che qualcosa va fatta alla vecchia maniera ci mette in mezzo il digitale, ma pazienza. Bocciatissima anche la mantide. Ecco, lì poteva anche prendere l’idea di Coppola e rifare la sagoma fatta di topi.

Kretschmann nei panni del Conte ci sta abbastanza bene (anche se le scene in cui urla e vorrebbe essere spaventoso non sono esattamente il massimo).

Lucy è interpretata da Asia Argento che, per quanto io le voglia davvero bene, dovrebbe smetterla di doppiarsi da sola dato che parla come se si stesse lavando i denti.

Rispolverato per l’occasione un ormai un po’ incartapecorito ma ancora valido Rutger Hauer nei panni di Van Helsing.

La storia è quella nota a tutti, ridimensionata un po’ per l’occasione, trasportata in un piccolo paesino (molte riprese si sono svolte nel suggestivo Ricetto di Candelo) e riadattata su scala decisamente più ridotta, con qualche concessione qua e là e atmosfere giustamente molto goticheggianti.

Musiche ancora una volta di Claudio Simonetti.

Morale. Piacerà come sempre agli appassionati di Argento ma è comunque apprezzabile anche da chi non è strettamente addicted.

Cinematografo & Imdb.

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Ho guardato questo film praticamente per caso dopo averlo lungamente snobbato, prima nelle sale poi in dvd. Un po’ perché i film ambientati a corte non sono in cima alla mia top ten, un po’ per Kirsten Dunst che – nonostante ogni tanto incappi anche in qualche interpretazione azzeccata – continua a non suscitarmi particolari entusiasmi e un po’ perché, banalmente, una volta tolto dalle sale, proprio non ci ho più pensato. Poi è andata che qualche tempo fa mi hanno prestato il dvd e quindi.

Sicuramente non è un brutto film.

E’ – ma è quasi superfluo dirlo – esteticamente un capolavoro di costumi (Oscar 2007, Milena Canonero). E’ perfetto oltre i limiti del maniacale nei dettagli di ogni scenografia e di ogni ambiente. E’ scorrevole e persino divertente in alcune parti. Di certo è un film di ambientazione storica ma non è un film storico. La ricostruzione degli eventi che scandiscono l’esistenza di Marie Antoinette è precisa e coerente ma non è sicuramente quello che interessa a Sofia Coppola.

Il nucleo centrale è la persona di Marie Antoinette e il conflitto che si crea con il personaggio che viene chiamata ad interpretare. Vediamo quindi una ragazzina già viziata e sicuramente ingenua, catapultata – attraverso il crudelissimo e simbolico rito di passaggio nella tenda dove deve abbandonare tutto ciò che è austriaco a favore di ciò che è francese, cane compreso – in un mondo che è l’amplificazione all’ennesima potenza di quello da cui proveniva, un mondo che la affascina, la abbaglia e infine la stordisce, lasciandola annichilita e incapace di incanalare altrimenti il suo malessere, se non continuando a nutrirsi avidamente dell’unica cosa che quel mondo può darle: altro lusso, altri fasti, altra eccentricità.

Vediamo un’adolescente in crisi, incapace di gestire e, prima ancora, di capire il ruolo che le hanno infilato addosso insieme alle parrucche e ai vestiti incredibili. Un’adolescente che manifesta il suo disagio attraverso l’unico mezzo del quale le è concesso disporre, la sua ricchezza. Totalmente disinteressata verso la sua reale (in entrambe le accezioni se mi si passa il gioco di parole di livello in verità piuttosto bassino) posizione e i doveri che essa comporterebbe, non per cattiveria ma per genuina e spontanea immaturità. Un’immaturità dalla quale non esce neanche con il passare degli anni, sicuramente non aiutata dal disastroso e totalmente inconcludente matrimonio che le viene imposto, costringendola all’ennesima fuga tra le braccia di un amante che ha la stessa consistenza – e importanza – delle scarpe, degli accessori, dei tessuti.

Anche in questo caso quello che interessa a Sofia Coppola è l’interiorità. Un’interiorità che indubbiamente soffre ma che non riesce a trovare altro modo per reagire a questo dolore se non quello di cristallizzarsi in un eterno, infantile e infruttuoso tentativo di fuga che si protrarrà praticamente fino alla fine. Marie Antoinette non cresce mai, non matura mai. E’ una creatura fondamentalmente sola e non può che trovare conforto nella gratificazione del proprio ego.

Intento introspettivo estremamente lodevole di per sè, ma – e qui arriva il limite maggiore del film – non sfruttato in tutte le sue potenzialità. La regista avrebbe dovuto osare di più. Staccarsi anche dagli ultimi rimasugli di rappresentazione storica e fare per ogni aspetto del film la stessa scelta che fa per la colonna sonora. Non in tono con l’epoca ma con gli stati d’animo. Abbiamo i Cure, gli Strokes, i New Order. Inserti di musica che ti fanno venire voglia di ibrido alla Moulin Rouge, salvo poi rimanere solo un bel particolare in più, senza andare da nessuna parte. C’era il materiale e, soprattutto, c’era la giustificazione per osare di più, per rendere più rock questa regina bambina, prigioniera nella sua reggia da favola. Invece si rimane sempre un po’ a metà, in bilico tra una rappresentazione che sicuramente si riconosce come diversa da quella convenzionale ma che non osa manifestare fino in fondo questa diversità.

Nel complesso rimane comunque un film gradevole e stilisticamente molto curato. Anche Kirsten Dunst non è male. Sta bene in questa parte, con la sua aria perennemente svampita e l’aspetto di una bambina vestita con i panni dei grandi. Nel cast compare anche Asia Argento in un piccolo – ma ovviamente chiassoso – ruolo secondario.

Cinematografo & Imdb.

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