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Archive for marzo 2013

Causa eventi pasquali, credo che ci si risentirà da queste parti verso la metà della prossima settimana.

Buona Pasqua (o buon weekend lungo a seconda di cosa festeggiate) a tutti. 🙂

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Ho in loop Delta Machine dei Depeche Mode e, benché sia un dato di fatto che in certi punti sono stati colpiti da un potente attacco di blues – oltre che di nostalgia per un certo minimalismo elettronico – al momento sono davvero parecchio esaltata. Non so se è l’entusiasmo del primo approccio, dovrò verificare nei prossimi giorni, ma tant’è, al momento sono decisamente soddisfatta dell’acquisto – tanto più che l’ho comprato avendo ascoltato solo Heaven.

Il lato positivo.

Se non fosse stato per l’oscar e per la conseguente permanenza nelle sale oltre i tempi consueti, l’avrei sicuramente snobbato. Non so bene perché, è un misto di fattori. Il trailer che non mi comunicava granché, B. Cooper che non è tra i miei attori preferiti e il regista, David O. Russel, che non avevo riconosciuto essere proprio quello di The Fighter. Insomma, le uniche cose che mi attiravano erano Jennifer Lawrence – che mi era piaciuta molto agli Hunger Games – e De Niro, per ovvi motivi.

Invece è stato, se non proprio una rivelazione, quanto meno una sorpresa, quello sì. Molto più di quello che mi aspettavo.

Non so come parlare della trama senza scadere nel banale – che è un po’ il problema di quando si raccontano le storie delle commedie. Lui appena dimesso da un istituto psichiatrico dopo otto mesi di detenzione, sotto farmaci, affetto da disturbo bipolare, incapace di accettare la separazione dalla moglie Nikki. Lei giovanissima vedova di un poliziotto; tenta di elaborare il lutto dandola a tutti; si nasconde dietro ad un carattere difficile.

Entrambi stanno cercando di gestire una vita sfuggita di mano, di riappropriarsi di quello che hanno perso per non voler ammettere che non si può tornare indietro.

Trama ben congegnata, dialoghi serrati, vivaci, intelligenti. Momenti spassosi e un romanticismo assolutamente ben dosato senza eccessi mielosi. Non viene calcata la mano neanche sull’aspetto patologico-psichiatrico, il che rende il tutto meno pesante – se la sbrogliano con un generico disturbo bipolare, che ci sta sempre bene e può essere attribuito un po’ a tutti, me compresa, qualche citazione di Xanax e Klonopin, ma la cosa finisce lì.

Cast davvero molto azzeccato con un Bradley Cooper che ho decisamente rivalutato e che – non ci avevo mai fatto caso – ha una mimica facciale che ricorda in modo impressionante Ralph Finnes.

Su De Niro è persino scontato dire qualcosa ed è ovviamente impeccabile nel ruolo del padre ossessivo-compulsivo.

Jennifer Lawrence. Brava. Più di quello che mi aspettavo, nonostante l’oscar. Alterna momenti di durezza, di follia a momenti di una dolcezza infinita. Cambia registro con naturalezza e rende il personaggio di Tiffany profondo e vivo in ogni sua sfumatura.

Carina l’idea della gara di ballo, anch’essa ben gestita in modo da non scadere nei cliché dei film sul ballo degli anni Ottanta-Novanta (anche se, quasi sul finale, c’è una mini citazione di Dirty Dancing che mi ha fatto sorridere).

C’è anche Julia Stiles, che non si vedeva in circolazione da un po’ e la colonna sonora è di Danny Elfman.

Cinematografo & Imdb.

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Varie ed eventuali del mercoledì.

I Sigur Ròs sono decisamente di quelle band che danno soddisfazione.

A poco più di un anno dall’uscita di Valtari, il 18 giugno uscirà un nuovo album, Kveikur. Un album all’anno, ragazzi, ci state viziando.

Oltretutto sono decisamente rimasta folgorata dal primo singolo. Musica, video (diretto da Andrew Huang), tutto. Fantastico. Diverso dagli ultimi lavori, è vero, ma veramente bellissimo.

Come se non bastasse, questi signori hanno anche un tumblr, che gli dei li conservino. Cosa si può volere di più?

Poi. Il 16 maggio uscirà questo.

E’ vero, è l’ennesimo remake di un testo famosissimo, ma è di Baz Luhrmann  che per me rappresenta già una garanzia – i suoi film possono piacere o non piacere ma di sicuro non sono mai banali.  Protagonista è Di Caprio, che ha già ampiamente dimostrato di essere molto portato per questi ruoli forti, solitari, in qualche modo contro tutti. Decisamente tra quelli che aspetto con maggior impazienza.

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Era parecchio che non andavo a vedere un horror al cinema. Per un motivo o per l’altro finisce sempre che in sala me li perdo e me li guardo poi a casa in dvd. E’ capitato anche più volte che mi rammaricassi di questo fatto, avendo in mente un non meglio identificato bonus in termini di atmosfera, dovuto all’ambiente cinematografico in sé. Ecco la prossima volta che mi capiterà di indulgere i tale rammarico mi ricorderò di rileggere questo post. Sì, per carità, l’atmosfera in sala è diversa e per certe cose fa effettivamente orrore, ma non nel modo in cui dovrebbe. Poi magari è questo film che ha attirato una particolare quantità di tamarri, non lo so, sta di fatto che i neanche-più-tanto-adolescenti che parlano nelle scene di maggior tensione per farsi coraggio a vicenda non aiutano esattamente a calarsi nella storia. Peggio di loro c’era solo il fidanzato della mia vicina di posto che doveva spiegarsi ad alta voce quello che stava vedendo e continuava comunque a non capire un tubo (salvo poi andarsene pontificando con aria di superiorità che i veri horror son quelli splatter, ma vabbè). La prossima volta tenterò con lo spettacolo più tardi possibile nel cinema più remoto possibile.

Andres Muschietti, con il sostegno di Guillermo Del Toro realizza finalmente il film dal suo cortometraggio del 2008, Mamà, con risultati nel complesso più che apprezzabili.

Horror tutto sommato tradizionale e dai molti riferimenti, inseribile in toto nel filone ghost, La madre ha un buon ritmo e ti fa prendere la tua sana dose di spaventi.

Restano tuttavia alcune pecche, forse dovute alla poca esperienza del regista o forse semplicemente ad un intento preciso ma in definitiva un po’ controproducente.

La trama. In seguito alla morte violenta dei genitori, le piccole Victoria e Lilly spariscono. Vengono ritrovate cinque anni dopo in un bosco, selvagge, in condizioni pietose, ma vive. Vengono affidate allo zio – che non aveva mai smesso di cercarle – e alla sua compagna, una bellissima Jessica Chastain in versione rockettara. La più grande delle due bimbe, Victoria, conserva qualche ricordo della sua vita prima del trauma e gradualmente riacquista una minima capacità di interazione, mentre la piccola Lilly è totalmente incapace di staccarsi dall’unica vita che ha conosciuto nel bosco. Le due bambine inoltre continuano a parlare di una Madre che avrebbe badato a loro per tutto questo tempo e che lo psichiatra di turno attribuisce automaticamente ad una qualche forma di disturbo dissociativo. La Madre però è tutt’altro che frutto della loro immaginazione e nel momento in cui le bimbe si trasferiscono finalmente a casa dello zio cominciano a succedere cose inquietanti.

La vicenda di per sé ha buone potenzialità e nel complesso vengono anche sfruttate discretamente. Però. Il primo difetto grosso che ho trovato è il fatto che viene creato ben poco mistero intorno alla Madre. Oltre al fatto che non viene lasciato neanche per un momento il dubbio sull’origine degli strani fenomeni che accompagnano le bimbe, la Madre si vede chiaramente già nell’antefatto, dopo neanche cinque minuti di film. E questa è una cosa che non si fa, perché ammazza tutta quella parte di tensione legata all’incertezza di scoprire che cosa effettivamente sia l’entità in questione. Oltre a bruciarsi la possibilità di sfruttare alcune situazioni interessanti.

Certo, non sappiamo chi effettivamente sia questa Madre né perché stia facendo quello che fa e seguiamo i protagonisti nella scoperta del retroscena. Ma il coinvolgimento nel processo di questa scoperta rimane comunque intaccato dal fatto che l’abbiamo già vista.

L’indagine è strutturata abbastanza bene, seppur con qualche buco qua e là di dimensioni non eccessive.

Invece, avrebbe potuto esser fatto decisamente meglio il finale che risulta un po’ troppo affrettato (e questo, va detto, è un difetto che colpisce un buon settanta percento degli horror, se non di più), incentrato su un pathos un tantino eccessivo ma poco chiarificatore. Andava almeno dimezzata la scena della rupe, così come le inquadrature del volto della Madre e ci sarebbe stato bene uno squarcio sulla normalità post evento. Non è uno spoiler. Chi lo vedrà capirà cosa intendo.

Visivamente la Madre non è mal fatta, anche se quando svolazza ricorda tanto un Dissennatore. Jessica Chastain è bella e brava come sempre anche se, forse un po’ troppo calata nel personaggio di aspirante rockstar (dove il rock, chissà perché, deve sempre avere connotati metal-dark), non si strucca neanche per dormire (a meno che non si fosse fatta tatuare il trucco, per carità, non si può mai sapere).

I riferimenti ai classici del genere sono molti, uno per tutti, Victoria ipnotizzata sulla poltrona ricorda tanto la bambina de L’Esorcista. Si tenta anche il richiamo alla tradizionale valenza socialmente catartica dell’horror ponendo a monte di tutta la tragedia, vale a dire come causa della morte dei genitori, una motivazione legata alla crisi finanziaria.

Anyway, nonostante tutto il mio brontolare, torno comunque a dire che mi è piaciuto abbastanza. Pur senza troppe pretese, riesce nell’intento di creare un’atmosfera fondamentalmente inquietante.

Cinematografo & Imdb.

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Dopo l’ennesima recensione scorsa alla ricerca di informazioni su questo film, sono giunta alla conclusione che mi sono persa quasi tutti i riferimenti e le citazioni in esso contenuti.

Conosco e amo abbastanza Almodòvar ma solo a partire dal ’99, con quel capolavoro che è Tutto su mia madre. Della filmografia precedente mi manca praticamente tutto e, al di là dei famosissimi Carne Tremula, Kika e Donne sull’orlo di una crisi di nervi che ho in lista ormai da secoli, non ho visto nessuna delle sue commedie più o meno grottesche degli anni Ottanta. Non che si tratti di chissà quali capolavori – stando a quello che leggo – ma di sicuro all’epoca, nella Spagna immediatamente post-franchista – acquistarono comunque una loro importanza per l’ostentato intento provocatorio.

Si parla dunque di un ritorno di Almodòvar alla commedia e, per dirla tutta, non se ne parla neanche poi troppo bene. Si cercano richiami nascosti per definirli ormai superati, si grida al riciclo e si costruiscono analogie – spesso un po’ forzate – con la precaria situazione economica attuale.

Personalmente, pur riconoscendo che non tutta l’interpretazione vien per nuocere, e che in effetti un po’ di metafore qua e là ci sono – per non parlare del fin troppo evidente binomio amore e morte, anche se alla seconda non viene lasciato questo grande spazio sulla scena – mi limito ad un giudizio a pelle, fresca di uscita dalla sala.

Sesso – preferibilmente omo – alcool, mescalina (quella sì che è anni Ottanta), colori, trasgressione da manuale. Nell’ambiente chiuso di un aereo in volo senza meta a causa di un guasto tecnico, si intrecciano le vicende surreali degli unici passeggeri ancora svegli – dal momento che le assistenti di volo ne hanno addormentato la maggior parte per evitare situazioni di panico.

Insomma, sì, è vero, è tutto molto giocato su una volontà di scandalizzare a tutti i costi che probabilmente oggi è un po’ datata nel senso che non scandalizza più nessuno, ci sono un bel po’ di cliché, a partire dalle (volutamente? politically incorrect) tre passive che più passive non si può che sono gli assistenti di volo – e che comunque sono interpretati benissimo, sulla scena in cui ballano e cantano in playback I’m so excited delle Pointer Sisters ero piegata dal ridere – ed è anche vero che c’è pure qualche grezzata non da poco, ma resta comunque un film divertente.

Senza volergli attribuire particolari significati né ammantarlo di chissà quali valenze sociali, vale la pena vederlo per quello che è, una commedia senza pretese, sicuramente anni Ottanta per la massiccia presenza di sesso, doppi sensi e situazioni equivoche, magari un po’ volgarotta in certi punti ma sempre ad un livello più che godibile, a meno che non ci si sconvolga per nulla.

Ben costruito l’intreccio di fondo che collega i vari passeggeri, così come l’inserimento – dall’impostazione quasi teatrale – di alcune finestre sul mondo a terra tramite il collegamento telefonico – anch’esso mezzo guasto, in modo tale che le conversazioni private di tutti diventino pubbliche, in una dimensione di condivisione totale.

Cast validissimo dal primo all’ultimo attore. A bordo dell’aereo c’è, tra gli altri, Lola Dueñas e nell’antefatto, prima del decollo, ci sono anche Antonio Banderas e Penelope Cruz in quella che è poco più di un’amichevole partecipazione.

Contenta di averlo visto, lo consiglio senza remore. Se poi capita che tra le vostre conoscenze ci sia qualcuno affetto da quella brutta roba che è l’omofobia, portatecelo. Probabilmente non guarirà, ma se non altro vi sarete tolti la soddisfazione di fargli venire svariati accidenti.

Cinematografo & Imdb.

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The Truman Show (1998), Peter Weir, il regista de L’attimo fuggente e Master & Commander.

E’ un altro di quei film a cui personalmente sono molto legata e che hanno in qualche modo segnato una tappa nel panorama cinematografico dell’ultimo decennio del Novecento.

Probabilmente chi lo vedesse ora per la prima volta percepirebbe di meno la sua forza straniante. Siamo ormai da una decina d’anni se non di più immersi, volenti o nolenti, nella cultura del reality, e l’idea di una telecamera che ti segue anche al cesso non fa più così impressione come invece suggerirebbe un sano e normale istinto autoconservativo.

Resta il fatto che quando questo film uscì, non c’erano ancora né il Grande Fratello né tutte le sue svariate derivazioni e l’idea di fondo di un’intera esistenza che si svolgesse su un enorme set cinematografico e fosse ripresa in ogni suo istante era veramente qualcosa di nuovo. E lo era anche per il modo in cui è stata realizzata e per tutta la costruzione che si è sviluppata intorno a questa idea. Il fatto che il protagonista sia nato in diretta e sia l’unico a non sapere di essere filmato è al tempo stesso semplice, ingegnoso e di una crudeltà infinita.

Al di là degli ovvi – ma non per questo meno significativi – rimandi metaforici alle dinamiche dello spettacolo televisivo e soprattutto a quelle dell’interessamento dell’audience, al di là anche di tutto l’aspetto simbolico di questa enorme scenografia costruita come un mondo in miniatura con il suo personale dio in versione regista insediato nella luna e manifestantesi come voce fuori campo, al di là di tutto questo, dicevo, un altro elemento che rende l’insieme assolutamente geniale e inquietante è la completa simmetria delle dinamiche umane-comportamentali tra chi sta dentro e chi sta fuori dal set.

Realtà e finzione diventano estremamente relative, il confine tra ciò che è vero e ciò che è costruito è sempre più labile, lo schermo non è più qualcosa dentro cui semplicemente guardare ma diventa un passaggio a doppio senso.

Truman rappresenta la vittima per eccellenza di un sistema fondamentalmente incastrato in un circolo vizioso. E’ l’agnello sacrificale sull’altare del trionfo dell’era mediatica rappresentata dai due decenni finali del Novecento. E’ il culmine delle nevrosi voyeuristiche prima del passaggio al livello successivo del reality vero e proprio.

Jim Carrey, protagonista, offre qui quella che penso sia la sua miglior interpretazione in assoluto, prima di rimanere irrimediabilmente legato a quella macchiettistica scimmiottatura di se stesso nei panni di personaggi comici controvoglia, perennemente incompresi e falliti-ma-non-per-colpa-loro (si salva anche Number 23, anche se un po’ di sottofondo auto-commiserante c’è anche lì).

Magnifico Ed Harris nei panni di Christof, il regista. Lucidamente folle, innamorato di se stesso e della sua creatura, forse ancor meno calato nella realtà di quanto non lo sia il suo figlio televisivo.

Un gran film. Divertente, struggente, esteticamente impeccabile (la scena finale è qualcosa di indimenticabile). Anche rivisto a distanza di anni non perde nulla. Se non fosse per alcuni particolari tecnici non sembrerebbe affatto un film di quindici anni fa.

Cinematografo & Imdb.

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Ho un rapporto conflittuale con il Circolo dei Lettori di Torino.

E’ un posto bellissimo – ha sede nel palazzo Granieri della Roccia (fine 1600) – dove si tengono corsi, conferenze e iniziative culturali, dove semplicemente si può passare il tempo a leggere, studiare, rilassarsi in mezzo ai libri.

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E’ un posto che però, purtroppo, spesso è frequentato per un buon ottanta percento da gente che fa della frequentazione di questa location se non proprio l’oggetto principale del suo interesse quanto meno attribuisce al contesto fin troppa importanza rispetto ai contenuti in sé.

E così finisci a seguire una serie di incontri sulla letteratura francese tra Ottocento e Novecento,  e si arriva a parlare di Proust e di quella cosa meravigliosa che è la Recherche, e mentre vorresti semplicemente ascoltare in santa pace, la tua attenzione si ritrova a dover fare una sorta di slalom tra una serie di elementi collaterali. Elementi prevalentemente femminili, ad essere onesti. Per la serie, momenti in cui vorrei appartenere ad un qualsiasi altro genere.

Quelle che siccome hanno una certa età e son sempre lì, cominciano a fare come a casa propria spostando pezzi dell’arredo qua e là.

Quelle che siccome han già fatto un altro corso con il relatore si sentono autorizzate ad interloquirvi del più e del meno nel mezzo della lezione come se fossero al bar.

Quelle che vogliono fare le ascoltatrici attive e cercano di finire le frasi del relatore ad alta voce.

Quelle che vogliono fare le ascoltatrici attive ma, siccome hanno una certa età e non ci sentono niente, fanno interventi puntualmente fuori tema. Ad alta voce.

Quelle che colgono qualsiasi spunto per andare fuori tema e far vedere così quanto sono vasti i loro interessi.

Quelle che dopo sessant’anni non hanno ancora superato la sindrome della prima della classe.

Quelle che non si può fare una battuta su Berlusconi (e però non l’hanno votato, no no).

Quelle che non si può fare una battuta sul Papa.

Quelle che arrivano tre quarti d’ora prima, aspettano l’inizio della lezione chiacchierando ad un volume assurdo con le amiche, snocciolando l’elenco di tutte le cose interessantissime che hanno fatto in settimana a beneficio degli altri presenti in sala e facendo a gara per vincere Miss Settantenne Attiva 2013. E poi però se ne vanno mezz’ora prima della fine della lezione ché alle sette si mangia sennò poi vien tardi.

Quelle che “oggi non c’è più nessuno che scrive come Proust”. Ecco, non è per fare la rompiscatole, ma se è per questo non c’è mai stato neanche a suo tempo un altro che scrivesse come Proust. Altrimenti non staremmo parlando di Proust. Ma vabbè.

Anyway. Cambiando argomento, questo dovrebbe uscire il 4 aprile e non sembra affatto male. Per la cronaca, il titolo originale è The Place Beyond the Pines.

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Bè? Adesso devo pure cominciare io?

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E va bene. Cosa c’é che non va?

Niente

Sì, si vede. Cos’è successo?

Soffro.

Immagino.

Senti, se devi fare del sarcasmo lasciamo perdere eh.

Ok, ok. Soffri. E la causa di tanta sofferenza?

Ieri era il 18 marzo.

Ah. E quindi?

E cheppalle, ma non lo leggi il blog?

Dovevano uscire Suede e Kodaline.

E quindi?

E quindi sono andata a cercarli.

E…?

Feltrinelli.

Suede…sì, risulta l’album ma non ci è stato consegnato. Anzi non è stato proprio consegnato in tutta Italia.

Kodaline…con la C?

Con la K.

mmmm…non mi risultano proprio

Fnac.

Suede…(con tono risentito) no, al massimo l’uscita sarà domani perché di lunedì non esce mai niente (quarta legge della termodinamica?)

Ma veramente sul sito c’è scritto…

E’ sbagliato! (col tono di chi sta enunciando la cosa più ovvia del mondo)

No, comunque non mi risultano. Ma a volte escono prima all’estero. Possono metterci anche due mesi ad arrivare in Italia

(a quel punto ero già accasciata sotto il bancone)

Kodaline? Con la y?

No, con la i normale.

Non risulta neanche il nome.

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Che poi, sugli Suede va detto che ho preso una mezza cantonata io perché il 18 è la data di uscita ufficiale ma l’album è disponibile solo online. Nei punti vendita arriverà il 30 marzo.

Ciò non toglie che ho dovuto in qualche modo consolarmi e quindi mi sono sfogata arraffando queste due belle Deluxe Editions che mi guardavano curiose e amichevoli dallo scaffale.

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Poi. Visto che ieri si parlava di lui.

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Non l’ho ancora letto tutto quindi questa non è una vera e propria recensione. Lo consiglio a chiunque ami il regista perché è veramente una miniera di aneddoti, curiosità, retroscena di come sono nati i suoi film, tutti raccontati da Allen stesso in modo informale e diretto nel corso di quasi trentasei anni di carriera, dal 1971 al 2007, anno della pubblicazione.

A proposito di Match Point (2005).

EL: Hai provato una sensazione liberatoria lavorando a Londra, in un ambiente completamente nuovo?

WA: Non è stato liberatorio. Io mi sento sempre liberato. Giro solo a New York perché sono pigro e mi rimane comodo. Mi piace mangiare nei miei ristoranti preferiti e dormire nel mio letto, in fondo la verità è solo questa. Adoro trascorrere una settimana di vacanza a Londra per andare a teatro o vedere amici, ma non avevo tutta questa voglia di fermarmi diversi mesi. Invece è stata un’esperienza talmente positiva che la ripeterò quest’estate.

La mia impressione è che potrei girare i miei film ovunque. Ho girato con delle troupe in Ungheria; ho girato con delle troupe in Italia e in Francia. Come ho già detto, senza alcun intento faceto, il cinema non è astrofisica. Non è il lavoro più astruso del mondo. Hai la tua sceneggiatura, le troupe lavorano bene in tutto il mondo, sono professionisti, e sono professionisti a Parigi come lo sono a Budapest, a Londra, a New York o in California. Se conosci il mestiere non è poi così difficile. Basta usare un minimo di buon senso.

Quando il cinema diventa un’esperienza sovrumana infarcita di scatti di ira e assurdità, una scusa per vivere la propria vita in un certo modo, allora si trasforma in una seccatura, a cominciare dalle star che pretendono nel contratto persino il pagamento della massaggiatrice, del truccatore personale, del consulente politico.

Settembre 2005.

EL: Cosa si prova, dopo aver scritto la sceneggiatura, averla interpretata, averla girata per diversi mesi, aver visionato un giornaliero dopo l’altro, a entrare poi in sala di montaggio e doverti guardare, doverti giudicare come attore?

WA: Facilissimo. Ti guardi e dici “Qui sono tremendo”, “In quest’altro punto faccio schifo”, “In questa scena sono assolutamente finto”, “Qui penso di essere andato molto bene, la scena è credibile, sono divertente, non esagero né ammicco troppo.” Non è difficile individuare le parti soddisfacenti. Certo, stando seduto qui con un montatore e magari altre persone, capita ogni tanto di sentirsi dire: “Lo so che ti piace molto il ciak numero due, ma devo proprio dirtelo…” e allora o riguardo, scopro che l’osservazione è corretta e dico: “Bè, d’accordo, se preferisci il numero otto, per me sono buoni entrambi ma usiamo l’otto.”

Non è difficile. I veri guai arrivano quando non sei sorretto dall’ispirazione, quando scopri che hai seguito un’immagine fallace del film nel suo complesso.

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C’è qualcosa di paradossale nel fatto che la mia (mia come quella di molti altri estimatori) enorme ammirazione per un regista come Woody Allen sia sicuramente in gran parte legata alla sua intrinseca natura americana-newyorkese mentre lui da quasi dieci anni a questa parte (dal 2005 per l’esattezza) non fa che ambientare i suoi film in Europa. E così mi trovo ad ammirare ambientazioni e contesti che, a rigore, dovrebbero essere più miei che suoi, proprio per come lui li rappresenta e li restituisce. Un’europea che ha bisogno degli occhi di un americano per guardare in casa propria? Vista così è forse un po’ troppo drastica ma è anche un fatto che la Spagna, la Francia, l’Inghilterra (lascio volutamente fuori l’Italia che purtroppo meriterebbe un discorso a parte non immune dall’elemento caricaturale sicuramente più ingombrante che per gli altri paesi) rappresentate da registi autoctoni risultano diverse da quelle di Allen. E questo anche solo volendosi limitare ad un piano meramente percettivo/emozionale, prescindendo dal problema dell’attendibilità della rappresentazione. In parole povere. Sicuramente la Spagna di Almodovar è più vera di quella di Allen, ma non per questo la seconda è sgradevole.

Nelle versioni di Woody Allen dei paesi europei c’è sempre bene o male la prospettiva del turista, con tutto quello che essa comporta. I luoghi comuni – sia per quel che riguarda le abitudini sia per la scelta delle location stesse che finiscono sempre con l’essere quelle più canonicamente famose – qualche grossolanità, forse anche una discreta dose di ingenuità. Il che di per sé implica che quello che si sta guardando può essere uno spot dal sapore esotico giusto per un altro newyorkese, mentre ad occhi europei risulta inevitabilmente un po’ artefatto, magari anche un po’ banale.

Ciò non toglie che le ambientazioni europee di Allen abbiano un loro fascino.

Vuoi perché diventano il teatro delle sue storie e inevitabilmente vengono contaminate dalla sua impronta newyorkese, vuoi perché esteticamente sono impeccabili come una scenografia teatrale, o magari per il fatto che l’ambientazione diventa essa stessa personaggio, in ogni caso il risultato è un mix sicuramente molto definito ed identificabile come un vero e proprio filone nella produzione di questo regista.

Vicky Cristina Barcelona (2008). Neanche a farlo apposta è proprio un esempio calzante dell’identificazione ambiente-personaggio, con la città spagnola terza protagonista insieme alle due ragazze già a partire dal titolo.

Sicuramente uno dei migliori dell’ultimo decennio dopo Match Point – che a mio avviso resta l’ultimo vero capolavoro di Allen – Vicky Cristina risulta anche un po’ diverso rispetto ai soliti schemi relazionali che ricorrono nelle commedie di WA. Prima di tutto perché il nucleo di partenza non è costituito da coppie. E’ vero, Vicky (Rebecca Hall) è fidanzata e sta per sposarsi, ma il futuro marito non ha una vera identità come personaggio in sé, quanto piuttosto rappresenta l’incarnazione della razionalità e del buon senso (noiosi e castranti) di Vicky. Ricorre la contrapposizione – quella sì, canonica del regista – tra un’emotività gestita e controllata – e quindi fondamentalmente non tale, fasulla – e una passionalità contorta e inevitabilmente autodistruttiva (fosse tutto così perfettamente incasellato ed etichettabile come nel mondo della psicologia American Style…), incarnata da Cristina (Scarlett Johansson).

E poi c’è il personaggio di Juan Antonio (Javier Bardem), che funge da catalizzatore, da terreno di prova sul quale Vicky e Cristina si trovano a scoprire se sono davvero quelle che credono di essere. Anche Juan Antonio, artista e seduttore, una figura forse un po’ stereotipata per certi versi, ma talmente ben riuscita da far apparire sexy persino Javier Bardem – di cui tutto si può dire ma non che sia un bell’uomo – anche Juan Antonio, dicevo, è un personaggio singolo. E’ vero, entra in scena la sua ex moglie, Maria Elena (Penelope Cruz), ma non secondo le dinamiche di coppia consolidate. Penso sia il primo film di Woody Allen nel quale invece di una doppia coppia abbiamo un trio.

Tutta la parte centrale della relazione a tre fra Cristina, Juan Antonio e Maria Elena è divertentissima. Merito senza dubbio più che di una Scarlett Johansson brava ma non particolarmente sopra le righe, di una Penelope Cruz davvero fantastica. Non a caso per questa parte si è anche presa un meritatissimo Oscar come miglior attrice non protagonista. Anche Bardem è particolarmente azzeccato per il ruolo ma Penelope è di una bravura che lascia in adorazione. Unita alla sua bellezza che non è solo estetica ma profondamente espressiva. Per dirla in breve non è solo gnocca, è proprio bella. Che son due cose diverse.

Spassoso, coinvolgente, ben costruito, Vicky Cristina Barcelona mescola evidenti e riconoscibilissimi tratti del WA classico – la voce fuori campo ne è un esempio – con un’originalità forse un po’ insolita. E’ un film talmente ben equilibrato in ogni sua parte da essere davvero in uno stato di grazia.

Decisamente tra i miei preferiti di Allen. Sia per quel che riguarda gli ultimi anni, sia in assoluto.

Cinematografo & Imdb.

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