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Archive for the ‘Vol. 8’ Category

De Andrè è per me un argomento estremamente delicato. Che affonda le radici nella mia infanzia remota e definisce i toni di alcuni dei miei primi ricordi. Che tocca corde ipersensibili e risiede in una dimensione di emozione profonda e purissima.

La qual cosa spiega anche perché sono tipo due ore che giro intorno a questo post senza aver ancora realmente deciso di scriverlo.

Perché non so bene come mettere in ordine le parole e vorrei evitare di rovesciare qui sopra uno sproloquio inconcludente di impressioni scoordinate.

E dunque proviamo ad andare con ordine e ripercorriamo i fatti.

Ho visto il trailer di questo film al cinema e le prime impressioni – più o meno contemporanee – sono state: 1) figata! fanno un film su De Andrè; 2) mmmh…ma ci hanno messo Marinelli? 3) cazzo non possono aver fatto parlare De Andrè in romanesco!

Ad onor del vero va detto che il primo trailer era in versione corta. Già la visione di un trailer più lungo ha un po’ ridimensionato la questione dell’accento, ma su questa cosa torniamo dopo.

Poi.

Le perplessità iniziali unite alla mia ben nota diffidenza per le produzioni italiche hanno fatto sì che non sia andata a vedere questo film al cinema.

Poi.

Lo han passato sulla Rai.

E che vuoi fare? Proprio snobbarlo? Sia mai.

Coerentemente con lo spirito degli anni ripercorsi, visto che le due sere in questione non ero in casa, ho programmato il mio fido videoregistratore e ora dispongo di una copia unica di questo film diviso su due videocassette.

Ma sto cazzeggiando per non arrivare al punto, lo so.

Il film.

No. Ancora un paio di considerazioni collaterali poi giuro che ci arrivo.

1) ci sta ampiamente che lo abbia registrato perché vederlo con la pubblicità e spezzato in due mi avrebbe fatto diventare idrofoba e 2) ci sta anche ampiamente che l’abbia visto a casa perché sulla seconda parte ho pianto in modo spudorato e difficilmente giustificabile in pubblico.

E arriviamo al film.

Ho iniziato a guardarlo come se stessi maneggiando un animaletto che potenzialmente avrebbe potuto staccarmi due dita a morsi da un momento all’altro. Cauta, timorosa e speranzosa insieme.

Per i primi venti minuti la mia rigidità ha perdurato. Sentivo troppo accento romano, sentivo troppa recitazione italiana media, vedevo un po’ troppi facili cliché – per dire, la conversazione col prete dopo lezione non mi è piaciuta perché l’ho trovata troppo banalmente didascalica.

Il film apre nell’agosto del 1979, quando Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi vengono rapiti nella loro casa in Sardegna. Da qui parte un lungo flashback che ripercorre la vita di Fabrizio a partire dall’infanzia.

Ecco, ho trovato un po’ farraginosa questa prima parte di lui ragazzino. Poi quando è arrivato realmente in scena Marinelli le cose sono cambiate. Si è sbloccato qualcosa e ho iniziato a entrare realmente nel film.

Perché sì, è vero, si sente l’accento romano che emerge a tratti e spesso è latente ma Marinelli fa un lavoro talmente buono sulla ricostruzione della persona e del personaggio di De Andrè che tutto il resto passa in secondo piano. Tutti i difetti, tutte le irregolarità di scorrimento – ogni tanto qualche zoppicata qua e là c’è – tutte le interpretazioni magari non perfette, ecco, tutto scompare all’ombra di un Marinelli che riesce davvero a far rivivere la persona di Fabrizio De Andrè. Nella gestualità, negli sguardi, nelle infinite sigarette, nell’alcool che scorre a fiumi.

Ci sono alcuni momenti in cui la somiglianza è impressionante. E non è una questione di vestiti e trucco.

Marinelli si è messo in gioco in un modo che mi ha sorpresa e mi ha fatto rimangiare molti giudizi espressi in passato. Si è buttato completamente in una parte difficile per molte ragioni, non ultima il peso gigantesco che la figura del cantautore ha nel panorama musicale italiano del secondo Novecento e la severità di giudizio di coloro che hanno amato e seguito il suo lavoro negli anni.

Sì, la dizione non è pulita ma la cosa diventa un dettaglio piuttosto insignificante. E a prevalere è la scelta – intelligente – di privilegiare la fedeltà alla sostanza della persona di De Andrè piuttosto che perdersi nel tentare di riprodurre dettagli tutto sommato superficiali, cadendo nel rischio di una scimmiottatura caricaturale.

Idem dicasi per le canzoni. Se le canzoni utilizzate come colonna sonora sono ovviamente quelle originali, i brani eseguiti dal vivo sono realmente cantati da Marinelli che, in questo frangente specifico, perde qualsiasi traccia di accento e regala un’interpretazione viva, rispettosa e assolutamente notevole dei brani di Fabrizio.

Bella la ricostruzione dell’Italia di quegli anni, scandita dagli eventi a metà tra il pubblico e il privato che hanno toccato la vita del cantautore. L’amicizia con Luigi Tenco e la sua morte a Sanremo nel 1967. I diritti della Canzone di Marinella per l’interpretazione di Mina. Le contestazioni ai concerti e le parole di Fabrizio prese in prestito dalla rivolta del Maggio ’68.

E la costante commistione di vita vissuta – privata e non – e creazione artistica, com’è giusto che sia e come è sempre stato per De Andrè, essere umano prima che musicista. E la paura di cantare dal vivo, che lo ha tenuto lontano dai palchi fino al 1975 per più di dieci anni dal suo esordio.

Buono anche il resto del cast, seppur con qualche riserva – non ho amato molto Valentina Bellé nel ruolo di Dori Ghezzi, per dirne una.

Decisamente degno di nota Gianluca Gobbi nei panni di Paolo Villaggio – amico di Faber fin dall’infanzia – che offre un’ottima interpretazione di un ruolo perfettamente calibrato, divertente ma senza mai rubare la scena al protagonista né scadere nel macchiettistico.

Bello anche il ruolo di Ennio Fantastichini, nei panni del padre di Fabrizio.

Un film che è stato per me prima una sorpresa inaspettata e poi un vero e proprio colpo di fulmine.

Cinematografo & Imdb.

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