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Archive for the ‘D. Chazelle’ Category

Dopo la proficua collaborazione nel 2016 con La La Land, torna l’accoppiata Chazelle-Gosling per portare questa volta in scena la vita e l’impresa di Neil Amstrong dai primi anni nella NASA fino allo sbarco sulla Luna.

Un biopic parziale e lo sbarco sulla Luna.

Un modo già visto e rivisto e un argomento che più inflazionato non si può, anche solo a livello di immaginario collettivo.

Eppure.

Eppure Chazelle si muove bene. Talmente bene che non ne sbaglia una.

Perché più ci penso e più questo First Man è davvero perfetto.

Ryan Gosling dà vita ad un Neil Amstrong umanissimo e molto molto reale. Non un eroe da cliché americano. Non un Bruce Willis in stile Armageddon (per carità!) ma neanche un Tom Hanks all’Apollo 13.

Ryan toglie e toglie ancora e restituisce un personaggio asciuttissimo, essenziale. Un Neil Amstrong che non cerca l’empatia né dello spettatore né delle persone che lo circondano.

Un brav’uomo formato nel seno de sogno americano, segnato da un lutto personale e da molti lutti in ambito lavorativo. Un uomo pacato e silenzioso che cerca nel superamento dei limiti il senso per una sofferenza che altrimenti non ne avrebbe.

E il cordoglio di Neil va di pari passo con il cordoglio che ha segnato la storia dell’impresa dello sbarco.

Erano gli anni Sessanta e la competizione con i Russi era a livelli che, visti con un po’ di distacco, sembrerebbero ridicolmente infantili, se non si ricordassero le conseguenze enormi di ognuna di quelle ripicche tra bambini giganti.

Erano gli anni Sessanta e ogni traguardo raggiunto era raggiunto ad ogni costo. I progressi sono stati incredibili ma altrettanto lo è stato il prezzo da pagare. Spesso si navigava a vista, pur di andare avanti.

Il clima che viene riprodotto per raccontare la storia di come si è arrivati sulla Luna è tutt’altro che leggero. E’ opprimente, a tratti snervante.

Chazelle evita in toto il cliché dei grandi eroismi americani, evita toni pomposi e melodrammatici, evita anche gli squilli di tromba per un successo che, in definitiva, è strappato via coi denti.

Si concentra piuttosto sulla difficoltà del percorso. Non cede alla tentazione delle riprese spettacolari nello spazio ma rimane concentrato dentro la cabina, insieme ai piloti e con i piloti si viene sballottati e scaraventati nel nulla, incastrati tra la claustrofobia all’interno e le vastità impensabili all’esterno.

Ottima anche l’interpretazione di Claire Foy, nel ruolo della moglie di Neil, Janet, e ottima la costruzione del personaggio che risulta un concreto e intenso contrappunto al ruolo di Gosling.

Un film notevole, dunque. Potenzialmente, secondo me, con le carte in regola per aspirare a diverse nominations – così a naso direi regia, film, attore protagonista, attrice non protagonista e sceneggiatura non originale. Vedremo.

Nel cast anche Jason Clarke e Kyle Chandler.

Da vedere assolutamente.

Cinematografo & Imdb.

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Film d’apertura a Venezia di quest’anno, Ryan Gosling di nuovo diretto da Damien Chazelle per interpretare la vita di Neil Amstrong.

Aria di Oscar, o almeno queste sembrano le intenzioni.

Nelle sale dal 31 ottobre.

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E dopo (ben) tre giorni di tribolazioni, sono riuscita ad andare a vedere quello che pare essere il caso cinematografico del momento.

E però.

Facciamo finta di niente e dimentichiamoci per un momento i 7 globes e le 14 candidature agli Oscar.

Andiamo a vedere il film solo perché – com’era in origine – è di Damien Chazelle – il regista di Whiplash – e ci sono Ryan Gosling ed Emma Stone.

Mia e Sebastian.

Lei aspirante attrice che colleziona provini andati male e sbarca il lunario lavorando come cameriera in un bar all’interno degli studi della Warner.

Lui pianista perso per il jazz, reduce da un’esperienza fallimentare che aspira ad aprire un proprio locale, dove tutti possano suonare, purché sia jazz.

Si incontrano per caso in diverse occasioni. Si conoscono con diffidenza, si avvicinano e si trovano in un punto imprecisato di quelle loro strade prive di riferimenti che, si spera, alla fine dovrebbero condurli al Sogno. Quello con la S maiuscola. Quello per cui vale la pena vivere.

La La Land, è un musical e racconta una storia d’amore e di sogni. Mai combinazione fu più rischiosa in termini di melensaggini. Se a questo si aggiunge l’impostazione dichiaratamente retrò del tutto, bé, il rischio se possibile aumenta ancora.

Eppure La La Land se ne frega altamente di tutto ciò. Ti cattura fin da subito e non ti molla fino alla fine. E nel frattempo non hai avuto modo di pensare che è romantico, né che è un musical, né che la faccenda dell’inseguire i propri sogni l’abbiamo già vista e rivista, né tanto meno che è un supercandidato agli Oscar.

Perché dal momento in cui comincia, tu sei lì con Mia e Sebastian e li segui, e li senti, e vivi davvero la speranza a l’amarezza di quel Sogno.

La La Land è un film che sicuramente fa un gran regalo ai nostalgici dei vecchi fasti musicali – per impostazione e per la quantità di riferimenti e richiami – ma è una perla inaspettata anche per chi storce il naso di fronte al troppo classico.

E’ un film al tempo stesso semplice e molto articolato. Ha una trama lineare e, tutto sommato, nient’affatto originale. Ma ha un modo di darle vita che è nuovo e fresco.

E’ un film di raro equilibrio. Garbato e divertente. Commuove ma non è melenso. Fa ballare e cantare ma in modo sempre strettamente funzionale alla storia – non ci sono i grandi balli corali estemporanei alla Greese, per capirci. E’ un mix perfetto tra retrò e contemporaneo e questo lo rende una cosa nuova con quel tocco di familiarità che in qualche modo risveglia la memoria e i ricordi di qualcosa che assomiglia molto all’essere a casa.

Ottimi anche gli interpreti con Ryan Gosling strepitoso ed Emma Stone sicuramente molto brava anche se non ai livelli di Gosling.

Piccola parte – ovviamente da carogna – per J.K.Simmons.

Bellissime anche le musiche, ben impiegate come supporto alla trama e non come mero elemento decorativo/diversivo.

Un gran bel film, dunque. Leggero, originale e divertente come non se ne vedevano da un po’.

Ora veniamo alla questione Oscar.

Benché mi sia piaciuto moltissimo, confermo la mia sensazione iniziale e trovo eccessive 14 nominations.

Prima fra tutte quella per Emma Stone, che sì, è brava, bella e io l’adoro, ma secondo me qui non è da Oscar.

E direi anche che si potevano evitare quelle per i costumi, per due canzoni – City of Stars bastava mentre Audition mi pare un tantino forzata – e anche per la fotografia e la scenografia.

Meritate invece le candidature – la vittoria è poi un altro discorso ancora e devo vedere ancora moltissimi film per avere un’idea – per miglior film, regia, attore protagonista, sceneggiatura originale, colonna sonora. E anche montaggio, via.

Ecco, se si fermavano a 6 era più equilibrato.

Anyway, queste rimangono comunque speculazioni per amor di chiacchiera, e sempre in quest’ottica aggiungo anche che ogni tanto fa piacere che l’Academy mostri di apprezzare film non necessariamente impegnati.

In ogni caso, La La Land è da vedere assolutamente.

Cinematografo & Imdb.

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Andrew Neiman, 19 anni, studia al prestigioso conservatorio di Manhattan. Non vuole solo diventare un batterista jazz. Vuole diventare uno dei grandi.

Terence Fletcher è un insegnante e dirige l’orchestra jazz del conservatorio. Non vuole solo insegnare. Vuole spingere il suoi musicisti oltre i propri limiti. Oltre le proprie aspettative.

Andrew è solitario, introverso, discretamente asociale e sostanzialmente incompreso dalle persone che lo circondano. Suo padre gli vuole bene, cerca di appoggiarlo ma non capisce realmente l’importanza di quello che Andrew cerca di fare. Dal canto suo, Andrew è più o meno consapevolmente perseguitato dal fantasma del fallimento di suo padre.

Quando Terence Fletcher lo prende in prova per la sua orchestra Andrew sa che si sta giocando tutto.

Whiplash è un film musicale. E sì, sulla carta ci sono molti degli elementi canonici di questo genere (come anche del genere sportivo, se è per questo). Il sogno irraggiungibile. La sfida con se stessi. Gli ostacoli. Il rapporto conflittuale maestro-allievo. Più in generale, il concetto del superamento dei propri limiti e il mito – molto americano, certo – dell’eccellenza assoluta.

Insomma, a leggere trama e presupposti, il cliché parrebbe in agguato.

E invece no.

Whiplash non potrebbe essere più lontano dagli standard consueti del genere.

Whiplash è un film intelligente, complesso ed estremamente ricercato. E’ una piccola perla di raro equilibrio, originalità e intensità.

Il centro di tutto è sostanzialmente la dinamica del rapporto che si crea tra Neiman e Fletcher.

E’ uno scontro che si svolge nello spazio ridotto intorno alla batteria.

Fletcher è inflessibile, intransigente, crudele ai limiti del fanatismo. I suoi modi e il suo linguaggio ne fanno una sorta di sergente alla Full Metal Jacket ma il suo comportamento impossibile non è mera esibizione. Fletcher non è semplicemente lo stronzo della situazione. E’ un personaggio estremamente articolato. E’ odioso ma non si riesce davvero ad odiarlo perché trasmette una determinazione e una devozione che in qualche modo trascendono le circostanze.

A interpretare Fletcher è uno strepitoso J.K. Simmons, già vincitore del Globe per miglior attore non protagonista e meritatamente nominato anche per l’oscar.

Nel ruolo di Neiman c’è invece Miles Teller, batterista dall’età di 15 anni, che ha interpretato personalmente tutte le scene di batteria. E benché si sia ricorsi ovviamente al doppiaggio per buona parte delle scene, il 40 percento della colonna sonora è costituito dalla performance originale di Neiman.

Whiplash è un film curatissimo ed estremamente raffinato, e non solo perché si parla di jazz.

L’impostazione è quasi teatrale.

Le luci si concentrano su Andrew e Fletcher intorno alla batteria. Tutto il resto è scuro, come se, progressivamente, il resto del mondo venisse tagliato fuori. Come se non esistesse nient’altro fuori dai confini della sfida che sta avendo luogo.

La fisicità, poi, ha un’importanza fondamentale. E’ un film estremamente fisico. Lo scontro tra Andrew e Fletcher – che è costato al povero Simmons due costole rotte. La scena degli schiaffi, che i due attori hanno provato diverse volte mimando i colpi ma che, nella versione definitiva, è stata fatta davvero. Le vesciche sulle mani di Teller. Il suo sangue sulle bacchette e sulla batteria.

Il suo sudore e il suo sfinimento, con Chazelle che non stoppava mai le scene di batteria perché Teller arrivasse ad essere veramente distrutto.

La gestualità accentuata, pulita, carica di significato al pari della musica e della parola. E gli sguardi. Gli occhi di Simmons, soprattutto. In particolare, ci sono un paio di inquadrature che da sole valgono tutto il film e che racchiudono, in pochi secondi, l’infinita complessità del personaggio di Fletcher.

Whiplash è un film di lotta e superamento dei propri limiti ma non secondo i percorsi consolidati cui ci ha abituato l’iconografia americana del mito dell’eccellenza.

Quella di Whiplash è una lotta prima di tutto con se stessi. E’ una dimensione interiore, fisica e metafisica allo stesso tempo. E’ una ricerca di senso. E’ l’essenza stessa del concetto di sfida. La tensione che si crea è palpabile e quasi dolorosa. Il coinvolgimento è totale e si soffre con Andrew dall’inizio alla fine.

Notevole, davvero.

Cinematografo & Imdb.

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