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Archive for novembre 2015

Qui di seguito l’elenco dei premiati.

TORINO 33

Miglior film a:
Keeper di Guillaume Senez (Belgio/Svizzera/Francia, 2015)

Premio Speciale della giuriaFondazione Sandretto Re Rebaudengo a:
La patota di Santiago Mitre (Argentina/Brasile/Francia, 2015)

Premio per la Miglior attrice a:
Dolores Fonzi per il film La patota di Santiago Mitre (Argentina/Brasile/Francia, 2015)

Premio per il Miglior attore a:
Karim Leklou per il film Coup de chaud di Raphaël Jacoulot (Francia, 2015)

Premio per la Miglior sceneggiatura ex-aequo a:
A simple goodbye di Degena Yun (Cina, 2015)
e
Sopladora de Hojas di Alejandro Iglesias Mendizábal (Messico, 2015)

Premio del pubblico a:
Coup de chaud di Raphaël Jacoulot (Francia, 2015)

TFFdoc

INTERNAZIONALE.DOC

Miglior film per Internazionale.doc a:
Fi Rassi Rond-Point di Hassen Ferhani (Algeria/Francia, 2015)

Premio Speciale della giuria per Internazionale.doc a:
Gipsofila di Margarida Leitão (Portogallo, 2015)

ITALIANA.DOC

Miglior Film per Italiana.doc in collaborazione con Persol a:
Il solengo di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis (Italia, 2015)

Premio Speciale della giuria per Italiana.doc a:
La gente resta di Maria Tilli (Italia, 2015)

ITALIANA.CORTI

Premio Chicca Richelmy per il Miglior film
a:
Le dossier de Mari S. di Olivia Molnàr (Belgio, 2015)

Premio Speciale della giuria a:
La dolce casa di Elisabetta Falanga (Italia, 2015)

SPAZIO TORINO – CORTOMETRAGGI REALIZZATI DA REGISTI NATI O RESIDENTI IN PIEMONTE

Premio Achille Valdata per il Miglior cortometraggio in collaborazione con La Stampa – Torino Sette a:
Tram stories di Leone Balduzzi (Italia, 2015)

PREMIO FIPRESCI

Miglior film a:
Le loups di Sophie Deraspe (Canada/Francia, 2015)

PREMIO CIPPUTI

Premio Cipputi 2015 – Miglior film sul mondo del lavoro a:
Il successore di Mattia Epifani (Italia, 2015)

 

Ovviamente non ho visto quasi nessuno dei film premiati – anche perché volendo saltare un po’ in tutte le sezioni e non solo in quella principale del concorso, diventa fisicamente impossibile riuscire a vedere tutto – ma sono molto molto contenta per i premi a Coup de chaud cui, fra l’altro, avevo anche dato senza esitazione il mio voto (per il voto del pubblico).

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Regia di Raphaël Jacoulot.

Un piccolo paesino della campagna francese.

Un’estate che pare la più torrida del secolo. L’acqua scarseggia. I raccolti sono a rischio. La gente è irritabile, ipersensibile. Malsopporta il caldo, gli imprevisti e malsopporta l’arrogante esuberanza di Josef.

Josef è quello che in tempi meno politicamente corretti sarebbe stato definito un po’ come ‘lo scemo del villaggio’. E’ un ragazzo curioso, vivace. E’ chiaro che ha qualche problema emotivo, qualche difficoltà, per così dire, a tenere lo stesso ritmo degli altri. A volte è dispettoso, casinista. Di certo non dà l’idea di rendersene conto.

Ma probabilmente il ‘difetto’ più grande di Josef è quello di venire da una famiglia gitana. Una famiglia ai margini e che, dal canto suo, non sa neanche bene come gestire questo ragazzone buono ma a volte difficile.

Quello che succede è fin troppo tristemente prevedibile. Le dinamiche che si sviluppano nella piccola comunità sono rese in modo estremamente plausibile.

Gli abitanti del paesino cominciano a focalizzare su Josef tutto il loro malcontento, facendone così una sorta di capro espiatorio.

Contraddizioni ed equilibri fragili. Cattiveria e stupidità. La rappresentazione di quello che può fare la gente semplicemente convincendosi di qualcosa; del livello cui può arrivare la suggestione collettiva (perché in fin dei conti di questo si tratta) e delle sue tragiche conseguenze.

Coup de chaud è un film crudele e terribilmente realistico. E’ un film che colpisce dritto al cuore della cattiva coscienza di una società che sotto la lustra superficie di equilibrio conserva intatta una ferocia primordiale.

Notevole l’interpretazione di Karim Leklou nel ruolo, tutt’altro che semplice, di Josef e meritatissimo il premio come miglior attore.

Cinematografo & Imdb.

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Post cumulativo, come avevo preannunciato.

Anche perché non è pensabile che dedichi un post ad ogni film che ho visto in questi giorni, a meno che non voglia andare avanti per un mese solo a base di tff, ma al tempo stesso mi dispiace non dire neanche due parole su tutti quanti.

In generale, direi che è stata una buona annata per quel che riguarda la mia selezione perché su sedici film – alcuni dei quali scelti proprio un po’ a occhi chiusi – ne ho beccati solo due che non mi hanno detto granché. E nemmeno uno che non mi sia piaciuto in modo categorico (per dire, non sono incappata in nulla che mi abbia provocato attacchi di odio come N-Capace l’anno scorso).

Un breve giro su Imdb mi conferma quel che temevo e cioè che nessuno dei film che seguono arriverà nelle sale. Di certo non in Italia ma nemmeno in altri paesi. Tristezza.

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Nasty Baby. U.S.A. Regia di Sebastiàn Silva.

Freddie e Mo sono una coppia che sta cercando di avere un figlio con l’aiuto di Polly, la loro più cara amica. La gravidanza non arriva subito, nonostante i ripetuti tentativi. Risulta che Freddie non è adatto come donatore e sarebbe forse più semplice provare con Mo. Tensioni e frustrazioni all’interno di una relazione a tre atipica, che ha tutte le carte in regola per funzionare in un sistema isolato ma che si trova a scontrarsi con continue pressioni che arrivano dall’esterno. La famiglia di Mo, che evidentemente non ha ancora accettato del tutto la sua omosessualità. L’inevitabile giudizio sociale cui viene sottoposta l’idea stessa di una famiglia con tre genitori. Lo strano vicino di casa squilibrato, che mette a dura prova l’emotività dei tre. E l’incombente presenza di un baratro in cui si può sprofondare da un momento all’altro.

Nel complesso è un film interessante. Forse qualcosa avrebbe potuto essere fatto meglio e magari qualche parte è un po’ lenta, ma il rapporto tra i tre protagonisti è reso benissimo la storia risulta coinvolgente.

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Under Electric Clouds. Russia/Ucraina/Polonia. Regia di Alexey German Jr.

Costruzione per episodi. Sette capitoli. Un grattacielo incompiuto. Storie e personaggi che partono da punti lontanissimi e finiscono per intrecciarsi, in modo più o meno accidentale. L’idea dell’affresco mi piace a prescindere, forse per questo mi aveva attirata.

In realtà mi è pesato parecchio. Non so, forse se fossi russa l’avrei capito meglio.

Non mi sento di dire che è brutto perché si vede che c’è del mestiere. C’è tecnica e c’è sostanza. E c’è tutta la disillusione di una Russia che affonda nelle macerie delle sue speranze e contempla il cadavere del suo futuro al di là di ogni possibilità di redenzione.

Però non mi ha coinvolto. Ho faticato a seguirlo e mi ha lasciata piuttosto distaccata.

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Evolution. Francia/Spagna. Regia di Lucile Hadzihalilovic. Esterni girati a Lanzarote, che non necessita di alcun intervento perché già di suo sembra un posto fuori dal tempo e dallo spazio.

E la dimensione è quella. Fuori dal tempo e dallo spazio.

Mare. Rocce nere. Piccole case bianche e tutte uguali. Bambini. Tutti maschi. Giovani donne diafane e tutte uguali.

Ritmi scanditi dal nulla. Ripetizione metodica e instancabile delle stesse azioni. E una medicina per i bambini. Per rinforzarli in vista del cambiamento del loro corpo.

Nicolas però non è come gli altri. Disegna cose che sull’isola non ci sono. Vede che le donne la sera li lasciano soli e si radunano. Cosa fanno? E cosa succede nella strana clinica in cui i bambini vengono ricoverati senza motivo apparente?

Dai giudizi in sala mi è parso di capire che questo film non è piaciuto quasi a nessuno. Io l’ho adorato. Inquietante, visionario, bellissimo. Terribile nella sua risoluzione, angosciante e liquido nelle sue immagini pure e ipnotiche.

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Lo scambio. Italia. Regia di Salvo Cuccia.

Anni Novanta. Sicilia. Una coppia di mezz’età che affronta una crisi. Due ragazzi freddati al mercato. Un’indagine e un bambino rapito. Mafia. Violenza. Equilibri di potere.

Recitazione non particolarmente degna di nota, così come gli attori. Il dialetto salva buona parte dei dialoghi perché rendendo la parlata più fortemente connotata sopperisce alle pecche di interpretazione.

Buona l’idea di fondo di costruire un quadro, per così dire, al contrario. Perché nulla cambia ma ad un certo punto si capisce che nulla è come era apparso. Tutti i ruoli sono invertiti, la prospettiva ribaltata, il senso sradicato dalle fondamenta.

In realtà non ho ancora capito se mi è piaciuto o no e non l’ho votato come pubblico. Però era interessante.

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Interruption. Grecia. Regia di Yorgos Zois. Presentato anche a Venezia quest’anno.

Una compagnia teatrale sta mettendo in scena una versione postmoderna dell’Orestea. Ad un certo punto il coro – nelle vesti di un solo attore – interrompe lo spettacolo e comincia a coinvolgere attivamente alcuni spettatori.

Comincia così una sorta di balletto delle prospettive. Attori e spettatori che vedono invertite le loro posizioni. Personaggi e persone che vedono mischiate le loro identità. Teatro nel teatro. Cinema nel teatro. Riprese nei corridoi e voci che si sentono. Inquadrature che non si allargano ma si allontanano fisicamente dal luogo dell’azione. Distanze colmate dalla voce. Quanto lonotano ci si può spingere per guardare? Dove finisce il limite dell’interpretazione? Dov’è il confine tra dentro e fuori dal teatro? Dentro e fuori dalla storia?

Dov’è il confine tra realtà e finzione? Esiste il confine tra realtà e finzione? Elementi classici snaturati eppure immutati. Commistione di elementi e la ricerca di tutte le possibili angolazioni di visione.

Un lavoro sperimentale sull’atto del guardare in sé. Scatole cinesi di occhi che guardano sempre più a fondo o sempre più da lontano. Catarsi? Forse.

Questo è il secondo film che ho faticato a portare alla fine.

Gli attori sono molto bravi e ci sono un sacco di idee tecnicamente molto sofisticate ma non sono riuscita ad entrarci veramente.

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Credo che dovrò organizzare dei post cumulativi per arginare la quantità di considerazioni che mi sento assolutamente in dovere di propinarvi.

Vedo per domani cosa riesco a fare.

Nel frattempo un po’ di horror dal Festival.

Questo in Italia non arriva. A dir la verità pare che non arrivi da nessuna parte perché non c’è neanche un calendario di uscite. Solo qualche partecipazione a festival, tra cui questo e quello di Toronto, a settembre.

Ed è un peccato, davvero.

Secondo lavoro del regista Sean Byrne.

Astrid, Jesse e Zooey sono un’allegra famigliola in cerca di una casa più grande in cui trasferirsi.

Jesse è un pittore che tenta di affermarsi, dipingendo nel frattempo su commissione per sbarcare il lunario.

Metallaro nell’animo e nell’aspetto, ha trasmesso la sua passione anche alla figlia Zooey.

Trovano la casa. E’ grande, non costa molto e ha un granaio perfetto per farci lo studio di Jesse.

Una sera però bussa alla porta uno strano individuo. Si chiama Raymond, non sembra starci molto con la testa. E’ il figlio dei precedenti proprietari, morti da poco proprio in quella casa.

Raymond ha dei problemi. E deve suonare la sua flying V ad un volume altissimo per non sentirlo. Per cercare di non fare quello che Lui gli ordina.

Le linee della storia sono due. La casa, con Jesse che comincia a percepire qualcosa di strano e con i suoi quadri che diventano sempre più cupi e disturbanti. E Ray, con le sue voci, il suo squilibrio e la sua ossessione per la ragazzina che vive nella sua ex casa.

E’ vero, non c’è nulla di particolarmente originale nella trama ma The Devil’s Candy è un buonissimo film. Funziona dal primo all’ultimo fotogramma. Non perde neanche un colpo e ti tiene incollato dall’inizio alla fine.

Molto metal e molto satana, come da standard orrorifico, ma il binomio non si declina in modo convenzionale.

Bellissimi i personaggi. La coppia padre-figlia è molto ben connotata e Jesse (Ethan Emby) in particolare è fighissimo. E non lo dico per gli addominali e i tatuaggi. E’ tutto l’insieme a renderlo figo come personaggio, compreso uno sguardo stralunato che in certi momenti ricorda un po’ Woody Harrelson.

Ho piantato diversi salti sulla poltrona e non perché hanno fatto un botto con la colonna sonora.

E’ un film in cui tutti gli elementi sono molto ben equilibrati.

In realtà, a pensarci bene, il canone principale è più quello da ‘assassino-psicopatico-che-ti-insegue’ che non quello del paranormale vero e proprio. Il paranormale c’è – e la voce satanica fuori campo è parecchio inquietante – ma viene mantenuto su un filo di ambiguità che rende ancora più disturbanti le azioni concrete.

Cinematografo & Imdb.

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Sto vedendo davvero un sacco di cose fighissime.

Questo qui in Italia arriva. E anche presto. Esce il 3 dicembre. Con un titolo di merda ma esce. Si intitolerà Quel fantastico peggior anno della mia vita. Non so se volevano fare una cosa tipo il grasso e grosso matrimonio greco. Boh.

In ogni caso, meno male che l’ho visto qui al festival perché col titolo italiano non l’avrei neanche preso in considerazione.

E’ strano parlare di questo film. Continuo a ripetere che è bellissimobellissimobellissimo ma mi sa che dovrò fare uno sforzo e provare ad articolare un po’ la cosa.

Regia di Alfonso Gomez-Rejon. Tratto dall’omonimo romanzo di Jesse Andrews.

Greg è un adolescente-tipo all’ultimo anno di liceo.

E’ emotivamente insicuro e socialmente disagiato.

Un adolescente-tipo, come dicevo.

Rifugge la socialità e i luoghi comuni, proprio nel senso che evita le aree adibite all’uso comune, come la mensa o simili.

Aspira all’invisibilità.

Occupa parte del suo tempo libero con Earl. Che non è che sia proprio suo amico. E’ più un collega. Insieme dirigono versioni parodistiche dei grandi classici del cinema.

Apro una parentesi e la chiudo subito. In originale le storpiature dei titoli famosi sono geniali, in traduzione ho seri dubbi che riescano a rimanere così efficaci.

A scombinare il delicato equilibrio della sua esistenza arriva Rachel. La ragazza che sta morendo.

In realtà Greg e Rachel si conoscono a mala pena di vista e non si sono mai frequentati. Però Rachel si è ammalata di leucemia e la mamma di Greg si fissa che il figlio debba far per forza far qualcosa per lei.

Morale. Greg chiede a Rachel se, per favore, possono frequentarsi un po’, non perché lui provi pietà per la sua malattia, ma perché così almeno sua madre smetterà di dargli il tormento.

Poi, ovviamente, le cose vanno avanti da sole. Anche se assolutamente non come ci si aspetterebbe. E nel quadro si aggiunge anche Earl.

Me and Earl… è un film che ha dentro tutto il possibile.

E’ strano a dirsi, visto che una dei protagonisti è gravemente malata, ma è un film divertentissimo. In particolare sulla prima metà c’è da rotolarsi veramente dal ridere.

E’ spassosissimo ed è senza dubbio una delle commedie più intelligenti che abbia visto negli ultimi anni.

Ed è un film molto toccante, senza mai essere stucchevole – cosa enormemente difficile vista la situazione.

E’ equilibratissimo, perfetto nel dosare i toni.

E’ geniale per molti versi.

E’ un film che ti porta fuori tutto lo spettro delle emozioni possibili e ti lascia con un sorriso stampato in faccia.

Da non perdere assolutamente.

Ha pure la colonna sonora originale di Brian Eno.

Cinematografo & Imdb.

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Londra, anni Settanta.

Lui è Alan Bennett, il noto commediografo inglese. Lei è semplicemente Miss Shepherd. E vive in un furgone.

Lui si è trasferito da poco a Camden. Lei è conosciuta e non sempre ben tollerata in tutto il quartiere.

Lui vive solo, cercando di scrivere per il teatro. Lei gli chiede la cortesia di poter parcheggiare temporaneamente il furgone-casa nel vialetto di casa sua.

Lui accetta, per qualche settimana. Lei rimane, per quindici anni.

La storia quasi vera (a raccontarla è pur sempre un commediografo e le libertà sono d’obbligo) della singolare amicizia tra Bennett e questa signora dai modi bruschi, dall’igiene carente e dal passato impenetrabile.

Mary Shepherd si porta dietro ricordi da quello che sembra il passato di molte vite. E custodisce un fardello che non riesce a lasciare andare ma che si trascina appresso come i sacchi malconci in cui ammucchia la sua roba. Un fardello che affiora nel nome di Margaret e in una figura misteriosa che si presenta periodicamente a reclamare un tributo.

Alan è mite, chiuso in se stesso, riservato. Miss Shepherd è diretta e sfacciata. Alan parla da solo. Miss Shepherd parla con Dio.

E’ uno strano equilibrio, quello che si crea fra di loro. Fatto di non detti e di una strana forma di compensazione.

Lui è Alex Jennings e lei è Maggie Smith.

The Lady in the Van è adorabile.

Meraviglioso, dissacrante, spassosissimo umorismo inglese allo stato puro.

E’ divertente e delicato. Ed è reso al meglio prima di tutto dall’interpretazione impagabile di Maggie Smith, ma anche da tutto il resto del cast, tra cui spiccano i nomi di Jim Broadbent e Frances de la Tour (no, non sto parlando di Harry Potter anche se può sembrare).

Spero tanto che arrivi nelle sale. Al momento non è ancora prevista una data d’uscita al di fuori del festival.

Cinematografo & Imdb.

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Cronache dal Festival.

Oggi è il primo giorno che passo interamente in sala. L’unico spettacolo in cui ho avuto un posto libero a fianco è stato quello delle 9 del mattino. Per il resto sale strapiene. E non solo per Maggie Smith, che si sa, richiama. Pure per Under Electric Clouds di non mi ricordo più che regista russo di cui magari parlerò nei prossimi giorni e che non era esattamente la cosa più scorrevole che abbia mai visto. Mi auguro che i dati di afflusso confermino la percezione di un festival che continua a funzionare e che ha veramente tanti film interessanti in programma.

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E anche quest’anno ci siamo.

Venerdì sera si è aperta la 33a edizione del Torino Film Festival.

Il che vuol dire, tra le altre cose, che io sarò ancora più tragicamente in arretrato con tutto. Tipo che vorrei davvero infliggervi la narrazione del concerto di Madonna e vorrei parlare dell’ultimo capitolo degli Hunger Games e dell’ultimo film di Seymour Hoffman che son finalmente riuscita a vedere. Ma inevitabilmente mi perderò qualche pezzo per strada.

Anyway.

Serata di inaugurazione che parte con la bandiera francese sullo schermo e la marsigliese suonata dal gruppo dei sassofoni del conservatorio di Torino. Atto simbolico e forse dovuto ma che, per quel che può valere, ho apprezzato.

Ricordo di Orson Wells, cui il festival è dedicato, nella lettura di Giuseppe Battiston.

Madrina del festival Chiara Franchini che, onestamente, pareva capitata lì un po’ per caso. Stucchevole nella lettura della presentazione (che pure non avrà scritto lei, ma tant’è) prima, più simpatica ma comunque un po’ stonata dopo, quando si barcamenava per gestire il ritardo dei sassofonisti, al punto da far salire, piuttosto precipitosamente in verità, sul palco Emanuela Martini a cavarla d’impaccio e scongiurare il pericolo che sbracasse del tutto (visto l’abbrivio di battute preso sui prestanti sassofonisti che dovevano scaldare lo strumento). Non son sicura ma ho idea che la Martini quest’anno avesse poca voglia di salire sul palco e che la Franchini, dopo, possa essersi, per così dire, imbattuta nel suo disappunto. Rapido (e piuttosto brusco) congedo della medesima con mazzo di fiori dai colori verde, bianco e viola.

Green, White, Violet. Give Women Vote.

E si arriva quindi ad una brevissima presentazione del film da parte della regista, Sarah Gavron, accompagnata dalla sceneggiatrice Abi Morgan e dalla produttrice.

Considerazioni su come il tema delle Suffragette sia stato affrontato pochissimo dal cinema e come questo sia forse il primo film sull’argomento con così tante donne dietro e davanti alla macchina da presa.

Il film.

Non male, anche se sicuramente ne ho visti di più coinvolgenti. Per essere un film sui diritti civili avrebbe sicuramente potuto essere più trascinante. Soprattutto trattandosi di una causa di proporzioni così macroscopiche.

Inghilterra, 1912. Il movimento per il suffragio femminile esiste nel Regno Unito fin dalla metà dell’Ottocento ma è solo ai primi del Novecento che le sue azioni cominciano a diventare in qualche modo significative. Il film segue in particolare le vicende delle attiviste guidate da Emmeline Pankhurst.

Le richieste delle donne venivano ridicolizzate o, al più, tollerate con condiscendenza. Far valere il proprio diritto entro i parametri di una legge che ne negava la legittimità di fondo era un paradosso che non era più possibile protrarre oltre. Servivano nuovi metodi. Bisognava uscire dalla legge per cambiarla. E così le proteste, le vetrine spaccate, gli arresti, gli scioperi della fame, le azioni organizzate.

Un quadro di desolante arretratezza e bieca discriminazione nel cuore di un’Europa che forse tende a dimenticare i propri limiti e le proprie battaglie.

Le condizioni di lavoro disumane, la prevaricazione accettata come una realtà fisiologica e incontestabile.

Gli arresti e la nutrizione forzata per interrompere gli scioperi della fame.

Le Suffragette erano donne di qualsiasi estrazione sociale. Ricche, povere, colte, ignoranti. Erano lavoratrici. Erano mogli ed erano madri in una società che le riteneva emotivamente instabili e inadatte ad esercitare il diritto di voto.

Erano anche donne sole. Isolate nella loro battaglia, circondate dall’ostilità delle proprie famiglie e bollate col marchio della vergogna.

Cast molto valido.

Carey Mulligan nel ruolo, tristissimo, di Maud. E poi Helena Bonham Carter, Anne-Marie Duff e Meryl Streep nei panni di Emmeline Pankhurst.

Pochi ruoli maschili. Ben Whishaw nel ruolo del marito di Maud e Brendan Gleeson, poliziotto.

In chiusura passa l’elenco delle date in cui il voto alle donne è stato concesso nei vari paesi del mondo. Per la cronaca, l’Italia (1946) viene dopo la Turchia (1930) e la Svizzera, con quel che se la tira, arriva solo nel 1971.

Alla fine dell’elenco ci sono gli Emirati Arabi che nel 2015 hanno promesso il voto alle donne.

Nota di costume.

Pessimo il comportamento in sala, con gente che se n’è andata durante il film e, soprattutto, con la quasi totalità del pubblico che si è alzato prima ancora che finisse di scorrere l’elenco delle date. Dei titoli di coda manco a parlarne. Sembrava che fossero tutti inseguiti da qualcosa. E meno male che siamo ad un film festival. Il tutto a luci spente, dato che le luci si accendono solo alla fine dei titoli, e con me che auspicavo sinceramente che si inciampassero tutti nei gradini.

Cinematografo & Imdb.

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Ci sarebbero parecchie cose da dire su questo  fighissimo concerto/spettacolo ma, davvero, sto per spiaccicarmi sulla tastiera priva di sensi.

Il video è di Montreal perché di questa prima data a Torino non ho ancora trovato nulla di utilizzabile.

Le foto invece sono fresche fresche di questa sera.

Nei prossimi giorni troverò il modo di articolare qualcosa.

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1988. Quarto capitolo. Regia di Renny Harlin. Tra gli sceneggiatori anche Brian Helgeland che è anche il regista del Destino di un cavaliere oltre che lo sceneggiatore di Mystic River e di altri film degni di nota.

Rientriamo nei ranghi e sputtaniamo il titolo.

Originale: A Nightmare on Elm Street 4 – The Dream Master. Che in effetti è, manco a dirlo, perfettamente calzante per quel che succede nel film.

Versione italiana: Nightmare 4 – Il non risveglio, che, diciamocelo, francamente non vuol dire un cazzo. E suona anche peggio. Sembra una traduzione di google, peccato che non è neanche quella. E oltretutto non c’entra un tubo, visto che si parla per metà film del Signore dei Sogni. Era tanto difficile mettere Il signore dei sogni? Evidentemente.

Comunque. Esaurito il siparietto polemico sul titolo, anche questo film qui non mi ha per nulla delusa. Riparte dai sopravvissuti del terzo e imbastisce una struttura coerente che riutilizza e incastra in modo sensato tutti gli elementi della trama-base della serie.

Kristen – che non è più interpretata da Patricia Arquette ma da Tuesday Knight – continua a soffrire di incubi, e, ogni volta che si spaventa non riesce a controllare le sue capacità e finisce col chiamare nel suo sogno Joey e Kincaid, anch’essi superstiti della puntata precedente. I due ragazzi inizialmente non prendono sul serio Kristen e pensano che i suoi incubi siano solo uno strascico della brutta esperienza vissuta. Kristen però sente che qualcosa non va.

Il cerchio si allarga e così gli incubi, che coinvolgono anche alcuni amici dei tre ragazzi. Viene fuori che, ovviamente, Freddy non era morto come sembrava e che, anche dopo aver esaurito gli oggetti della sua vendetta – essendo ad un certo punto finiti tutti i figli di coloro che lo hanno bruciato – continua ad avere bisogno di nuove vittime.

Anche in questo caso, struttura rigorosamente slasher.

Effettacci nella media della serie, forse qualcuno un po’ più raccapricciante – per esempio quello delle braccia che si spezzano mi ha fatto abbastanza schifo, benché si vedesse la plasticosità lontano un miglio.

Robert Englund sempre sghignazzante e saltellante, con il maglione a strisce che si fa via via meno ampio man mano che gli Ottanta volgono al termine.

Centrale è il personaggio di Alice (Lisa Wilcox – molto bella anche se poi non ha avuto un gran futuro cinematografico), amica di Kristen. Anche lei ha una specie di capacità e, man mano che i suoi amici vengono uccisi lei ne assimila alcune caratteristiche.

Evoluzione classica del personaggio, rifiuto, difesa, attacco. Passaggio da vittima a vendicatrice segnato, nella migliore tradizione Ottanta, dal cambio di abbigliamento e dalla sostituzione degli abiti castamente femminili con jeans, maglietta scollata, giubbottone di pelle oversize e fasce di vario genere a caviglie e polsi, che non guastano mai.

Scontro finale. E vissero/morirono tutti felici e contenti. Fino a che Freddy non si inventerà qualcos’altro per tornare.

Cinematografo & Imdb.

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Che fatica.

Doverosa premessa.

Io voglio tanto bene ad Angelina e Brad. Li apprezzo come attori e, per quel che può valere un giudizio espresso dalla parte del pubblico, anche come persone/personaggi.

Però, davvero, che fatica questo By the Sea.

Cercherò di essere breve (cosa che ad Angelina non è riuscita).

Coppia in crisi.

Lei ex ballerina.

Lui scrittore presumibilmente affermato.

Americani.

Cercano di risolvere i loro problemi cambiando un po’ aria.

Anni Settanta. Francia del Sud (anche se in realtà mi par di capire che le riprese si siano svolte a Malta).

Un albergo lussuosissimo e un caffè d’altri tempi.

Tra di loro aleggia un non-detto ingombrante come un pachiderma maschio adulto e altrettanto impossibile da ignorare.

Una giovane coppia appena sposata nella stanza a fianco e un buco nella parete.

Ora. Non mi sento, in coscienza, di dire che è brutto, perché tutto in questo film è esteticamente e visivamente meraviglioso. E quando dico tutto intendo proprio tutto. Dall’ambientazione, ai più piccoli dettagli dell’arredamento, da loro due alla perfezione di ogni gesto. E’ tutto manieristico e teatrale fino all’esasperazione. Lei poi è qualcosa che lascia senza fiato. Ovviamente per la sua bellezza ma anche per il suo essere geneticamente e intrinsecamente diva fin nel midollo. Per il suo essere così meravigliosamente fuori luogo praticamente sempre e ovunque in tutto il film.

Il problema è che, mentre da un lato è una gioia per gli occhi, d’altro canto la trama langue. Non perché non ci sia o perché si debba riempire una storia di tremila fatti per renderla tale. E’ solo che non va avanti.

Durante il film ho guardato l’ora due volte. E, fidatevi, questo la dice lunga.

Poi non è che sia noioso o, peggio, molesto. Per dire, non mi tiravo i calci nelle caviglie da sola come con Inland Empire quando ebbi la malaugurata idea di andarlo a vedere al cinema. Però boh. Di sicuro non ero lì con loro, ecco.

Ci sono tutta una serie di elementi dei quali si capisce la funzione ma che non sono, per così dire, portati fino in fondo e quindi sì, ok, capisci cosa sta cercando di fare ma alla fine non lo fa. Un po’ come questa frase, credo, ma non ho voglia di riscriverla.

By the Sea è un film che Angelina dà l’idea di aver fatto più che altro per se stessa.

Ed è anche un film sui suoi occhi, per inciso, e sul suo trucco che sbava sempre e rigorosamente il giusto, mai di più mai di meno. Devo andare a vedere le marche del makeup.

Ma mi sto perdendo.

Situazioni e gesti (troppo?) scopertamente simbolici.

Poche parole. Lunghi silenzi e lunghi sguardi. E da un lato è giusto che sia così perché le emozioni e i sentimenti sono tanto nobili, grandi e intensi ma quando li si mette in parole sono sempre grotteschi e meschini. E quindi ok una comunicazione che è non-comunicazione e che è essa stessa simbolo della condizione di questa coppia. Però, anche questo, è troppo trascinato.

In generale, tutto il film poteva durare un’ora invece di due e sarebbe riuscito molto meglio.

Ancora.

L’elefante rosa in mezzo alla stanza che tutti fingono di non vedere. Il grande non-detto. Fino a metà film ti aspetti ancora che venga fuori per poi essere rielaborato magari nella seconda parte. Poi, da un certo punto, cominci a temere che – visto che di fatto la natura di questo non-detto è stata già spoilerata praticamente a inizio film – non venga chiarito affatto. Poi, quando perdi le speranze, viene buttato lì in un modo che gli toglie ogni centralità. Inizialmente questa cosa mi ha disturbata. Ripensandoci, in effetti ha un suo senso. Perché a quel punto, questo non-detto non ha più importanza, non è più il fulcro della questione. Non come lo era prima di essere esplicitato.

C’è tanto di personale, in questo film. Per ammissione della stessa coppia, è stata molto forte l’influenza del periodo delicatissimo dei due interventi di mastectomia e isterectomia cui si è sottoposta Angelina. E la lunga e inevitabile riflessione sulla condizione della femminilità in senso assolutamente fisico, prima che concettuale.

E’ un film onesto. Quello sì. Forse questo è anche uno dei motivi per cui non riesco a condannarlo, nonostante, di fatto, non funzioni granché.

Cinematografo & Imdb.

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ANGELINA JOLIE and BRAD PITT star in Universal Pictures’ By the Sea, her directorial follow-up to the studio’s epic Unbroken. Credit: Universal Pictures

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No, vabbè, parliamone.

Moby Dick. Che no, io non l’ho mai letto Moby Dick. Me capra. E’ una di quelle enormi voragini che mi porto dietro convinta che prima o poi le colmerò. La storia la conosco, i riferimenti ai personaggi pure ma no, non ho mai letto per intero il libro.

E comunque qui c’è Moby Dick fino a un certo punto.

Per la regia di Ron Howard, è la trasposizione cinematografica di In the Heart of the Sea: The tragedy of the whaleship Essex scritto da Nathaniel Philbrick nel 2000, che racconta la storia (vera) della baleniera Essex, che, a suo tempo, ispirò il Moby Dick di Melville.

Imdb dice che in Italia esce il 3 dicembre. Cinematografo lo dà per il 17. Insomma, a dicembre arriva.

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