E conta solo entrarci dopo avere fatto qualcosa di importante. Dopo avere ferito il mondo, lasciando il segno. In fondo, la Storia è nient’altro che una grande, profonda cicatrice.
Sto vagando a caso per il web e sto cominciando a innervosirmi. Perché vado a caso e non concludo niente. Perché quando è così poi si finisce per prendere coscienza di cose sulle quali non ci sarebbe poi da soffermarsi più di tanto. Tipo che sono in fissa per le foto di camere da letto di Tumblr. Non di camere da letto in generale. Quelle di Tumblr. Che è diverso. Tumblr riesce a creare delle sottocategorie di genere che vivono solo al suo interno. Ci sono le foto di tazze e le foto di tazze di Tumblr. E così via. Che poi, cosa c’è da andare in fissa per una di queste cose? Niente. Solo che sto vagando a caso. Appunto.
E sto vagando a caso perché? Perché non riesco a concludere altro. E poi, perché no?
E già che vado a caso, perché non farmi un giro anche sotto l’ombrello blue di Debbie?
Che io poi l’ho cercato senza alcuna premeditazione, ma c’è davvero.
Ora. Magari sono io che vivo nella mia bolla e finisco con l’ignorare ciò che per gli altri è ovvio, però non pensavo che esistesse davvero. O magari sarà che, vista la mia natura notoriamente socievole, i siti di chat li ho sempre evitati come la peste e non sono minimamente aggiornata sul settore – per dire, sono ferma ad ICQ che andava di moda negli anni Novanta e ignoro se si usi ancora o meno.
Under Debbie’s Blue Umbrella è un vero sito di chat. Ed è esattamente come viene descritto nel libro.
Che poi non so neanche perché indulgo in queste stucchevoli manifestazioni di giubilo. Probabilmente in America è arcinoto. O – cosa ancora più probabile visto il rapporto dello zio Steve con il web – è addirittura vecchio.
Però chissà se gli accessi sono aumentati dopo l’uscita del libro?
Chissà se qualcuno si è già preso uno dei nickname usati nella storia?
Chissà se il sito e i suoi utenti apprezzano questa pubblicità?
Mi riservo di indagare.
*indossa figurativamente il cappello da Detective Hodges*
Mi è piaciuto proprio tanto, questo Mr. Mercedes.
Primo approccio di King con quello che viene definito hard-boiled e che, di fatto è un sottogenere del giallo. Stando alla dichiarazione dello stesso autore qualche tempo fa su Twitter, dovrebbe essere il primo di una trilogia, anche se, suppongo che si usi il termine di trilogia in senso piuttosto ampio. Mi immagino più che altro tre libri accomunati dall’appartenenza allo stesso genere, magari con lo stesso impianto logico deduttivo, e non tanto una serie vera e propria.
Staremo a vedere.
In ogni caso, l’esperimento gli è riuscito egregiamente (e avevamo dei dubbi?)
Mr. Mercedes è il nome affibbiato da stampa e polizia ad un misterioso assassino che una mattina ha lanciato la sua auto – una Mercedes appunto – sulla folla in coda per la Fiera del Lavoro in una cittadina della provincia americana, mietendo vittime e poi dandosi alla fuga.
Mr. Mercedes non è mai stato catturato.
Ad un anno di distanza, il Detective in pensione William Hodges riceve una lettera che pare sia proprio di Mr. Mercedes.
Questo è quanto si può dire senza spoilerare elementi essenziali.
Se leggete la quarta di copertina dell’edizione italiana, non prendetela per buona a cento per cento perché non lo è. Dice una cosa che è proprio sbagliata e, onestamente, non capisco come possa essersi verificata una svista così grossolana. Per carità, meglio un’inesattezza che uno spoiler, però…
Mentre d’altra parte non è una gaffe, come invece pensavo, il disegno sul retro di copertina, in quanto si capisce quasi da subito, data l’impostazione della narrazione.
Un bel giallo incalzante, con i particolari da mettere insieme e da far quadrare. Un puzzle complicato visto da diverse angolazioni, finché la visuale si unifica e il quadro si chiarisce.
Un cattivo classico alla King che, nonostante la differenza di genere, ricorda molti dei suoi bad guys storici.
E una parte finale da togliere il fiato, con un ritmo che non ti molla finché non sei arrivato in fondo.
E poi ci sono le solite autocitazioni che King sparpaglia qua e là e che mi fanno sempre morire dal ridere, oltre che inorgoglirmi in modo del tutto privo di senso. C’è anche un riferimento – confermo che non è uno spoiler, non faccio questo genere di scherzi macabri – a Judas Coyne, protagonista della Scatola a forma di cuore del figlio Joe Hill. Ma che dolcezza – sempre per le stucchevoli manifestazioni di giubilo di cui sopra.
E c’è il rapporto di King con le nuove tecnologie che emerge tantissimo nell’impostazione del personaggio di Hodges e che in più di un punto mi ha strappato un sorriso.
E se tu riguarderai a lungo in un abisso, ha scritto Nietzsche, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te.
Nota random di fine post.
King usa questa citazione di Nietzsche presa da Al di là del bene e del male.
Mi sono imbattuta nella stessa citazione, esattamente tre giorni prima di leggerla nel libro, guardando American Horror Story – Asylum.
Quante probabilità c’erano?
E ancora.
Ad un certo punto nel libro si cita il modo di dire che “a volte un sigaro è solo un sigaro”.
Due giorni dopo mi imbatto nella stessa espressione in Annabelle.
Anche qui. Quante probabilità?
Poi c’è la cosa di Judas Coyne, che, guarda caso, avevo appena letto il mese scorso.
Morale?
Niente, che morale ci deve essere. E’ solo che ultimamente sono bersagliata da coincidenze/risonanze/corrispondenze/chiamatele-un-po’-come-vi-pare di questo tipo.
C’è chi potrebbe dire che sono segnali.
Di cosa?
Del fatto che sono sulla strada giusta.
Per dove?
E io che ne so.
[Ormai parlo proprio da sola, non aspetto neanche che arrivi la Voce. Preoccupiamoci].