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Archive for the ‘J. Dahmer’ Category

Chi è Jeffrey Dahmer?

Forse il nome non a tutti dice granché.

Forse è più efficace parlare del Cannibale di Milwaukee.

Sicuramente più evocativo.

Ma quello che Dahmer ha fatto come serial killer è ormai noto e ampiamente ricostruito nei minimi dettagli.

Quello di cui si sa meno – o che spesso meno interessa – è il prima.

Chi era Dahmer prima di diventare un serial killer?

E ancora.

Perché Dahmer è diventato un serial killer?

Qual è stato il punto di non ritorno?

My Friend Dahmer offre una prospettiva privilegiata per fare luce su questi aspetti perché l’autore, il fumettista Derf Backderf, ha condiviso con il futuro assassino gli anni delle scuole superiori alla Revere High School, in Ohio, fino al 1978, l’anno del diploma.

E del primo omicidio.

Se la forma della graphic novel può suonare strana associata ad una storia così complessa e difficile, basta inoltrarsi nelle prime pagine per rimanere immediatamente catturati dalla semplice, lineare lucidità con cui gli eventi vengono costruiti e presentati.

L’opera di Beckderf è il risultato di un lavoro lungo anni di raccolta di ricordi personali e confronto con le testimonianze dirette dei compagni di scuola di allora, dei vicini, delle persone che incrociarono la strada di Dahmer in quegli anni. Il tutto integrato con le memorie tratte dai lunghi interrogatori dell’FBI – ora di dominio pubblico grazie all’atto per la libertà di informazione – e dalle parole dello stesso Dahmer, che, a differenza di molti altri serial killer, mantenne sempre una sorta di rassegnata e oggettiva consapevolezza di sé e dei suoi crimini.

A queste fonti si aggiungono le testimonianze dei genitori di Dahmer, protagonisti assenti ma non per questo meno determinanti nel periodo dell’adolescenza di Jeff.

Backderf non approfitta mai del vantaggio offerto dalla sua posizione e non gioca mai, neanche per un momento, sull’enfasi emotiva che questo potrebbe creare. Non cerca il sensazionalismo né si lascia attirare dalla fin troppo facile tentazione dei risvolti morbosi.

Quello che restituisce è un quadro di un quotidianità semplice e agghiacciante proprio nella sua semplicità.

Non si cerca una giustificazione e vengono risparmiati falsi buonismi e ovvietà del senno di poi.

Si osserva e si ricostruisce. La stranezza di Dahmer. Il suo essere ai margini, che agli occhi degli altri adolescenti avrebbe potuto essere liquidato nel calderone delle emarginazioni adolescenziali, ma che non avrebbe dovuto passare inosservato agli occhi degli adulti.

Adulti che sono sempre spaventosamente assenti.

I genitori. Troppo presi dal loro divorzio – in particolare la madre, troppo infognata nelle sue turbe psichiche per accorgersi di quelle del figlio.

Gli insegnanti. Troppo ciechi – non si sa bene perché in verità – per accorgersi di un ragazzo che puzzava di alcool fin dal mattino.

E così passa tutto inosservato. L’alcoolismo di Jeff. Il suo hobby delle carcasse.

Jeff sviluppa un’attrazione morbosa per le cose morte. Ha desideri carnali di controllo totale su corpi privi di vita. Sente queste pulsioni e cerca di metterle a tacere nell’unico modo che gli viene in mente. Bevendo.

Non ha nessun altro tipo di appiglio. Non ha riferimenti. Una volta allontanati anche quei pochi pseudo-amici delle superiori, non ha veramente nessuno intorno a sé. Solo le voci nella sua testa.

Fino al momento in cui soccombe.

Ma attenzione.

L’ottica di questo discorso non è quella di una facile deresponsabilizzazione del soggetto a favore del solito mantra del dare la colpa alla società, alla famiglia e così via. Non è un giustificare Dahmer trasformando in vittima il carnefice.

E’ un prendere atto di qualcosa che è successo e non è stato visto in tempo.

Come il crollo di una casa di cui tutti hanno ignorato per anni le crepe strutturali pur avendole sotto gli occhi tutti i giorni.

Dahmer era profondamente disturbato e c’era ampio margine perché qualcuna delle persone che avrebbero dovuto occuparsi di lui potesse accorgersene.

Forse questo non avrebbe fatto la differenza per Dahmer stesso. Non avrebbe fatto sparire le sue pulsioni. Ma magari gli avrebbe impedito di metterle in atto.

E’ plausibile pensare che Dahmer, se identificato nel suo disturbo psichico, non avrebbe comunque avuto una vita normale o felice. Presumibilmente avrebbe passato l’esistenza imbottito di psicofarmaci o dentro e fuori da strutture di assistenza psichiatrica.

Dahmer probabilmente non avrebbe potuto essere salvato in ogni caso.

Le sue vittime sì.

Bellissimo, davvero. Disegnato e scritto in modo impeccabile. Una delle cose più intelligenti che abbia mai letto nello sconfinato marasma di materiale più o meno attendibile che ruota intorno al tema serial killer.

Per chi fosse interessato, QUI uno dei link ai dossier dell’FBI.

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