Per la rubrica “I film inutili”.
No, decisamente non se ne sentiva il bisogno. Un po’ perché è arrivato troppo a ridosso dell’originale e sapeva proprio di scopiazzatura e un po’ perché no e basta. Ok, son la prima a dire che la versione svedese non era un granché ma tutta questa ostentazione di colonialismo hollywoodiano si poteva anche risparmiare.
L’ho visto solo perché è di Fincher, che è uno di quei registi che stimo molto e che guardo a scatola chiusa, il che mi ha fatto mettere da parte le mie perplessità di fondo sull’essenziale inopportunità di tutta l’operazione in sé.
Diciamo che potevo risparmiarmelo anch’io.
Non è che sia un brutto film, o che sia venuto male, quello no, ma è mortalmente standard. E la cosa diventa ancora più evidente per chi, come me, sia aspettava un’impronta di regia molto evidente e molto personale.
Di fatto il momento di maggior esaltazione l’ho avuto nella sigla dei titoli di testa che ha una grafica che ricorda molto Fight Club e mi ha fatto sperare per il meglio.
Per il resto Fincher non si è quasi neanche sbattuto a cambiare la sceneggiatura dell’originale. E’ pur vero che non c’era forse molta possibilità di movimento su una trama così contorta, perché se appena ci si allontana dal filone principale si rischia solo di mettere in ballo materiale inutile, però un minimo di spazio di rielaborazione c’è sempre. Sì, c’è la scena del giubbotto di pelle alla fine che non mi pare ci fosse nell’altra versione. Si sarà mica sprecato?
Poi vabbé, a questo punto si potrebbe aprire una discussione interminabile sull’egemonia cinematografica americana ma è un fatto che per moltissimi aspetti questa versione è venuta meglio dell’originale. E anche volendo ammettere che in piccola parte questo giudizio sia dettato dal fatto che siamo più ricettivi verso i canoni rappresentativi hollywoodiani – perché siamo più abituati ad essi – è pur vero che la versione originale è un esempio proprio un po’ infelice per farne un’icona in difesa del cinema svedese.
Daniel Craig nei panni di Blomkvist è indubbiamente adatto, basta leggere il libro per rendersi conto della maggior attinenza con la descrizione del personaggio. Nel cast spiccano poi un Christopher Plummer e uno Stellan Skarsgard persino un po’ sprecati per lo spazio che viene loro attribuito. Erika Berger è la bellissima Robin Wright e anche in questo caso la scelta è decisamente più che calzante.
Ambientazione sempre svedese, approccio all’indagine serrato ma non eccessivamente scenografico.
Insomma, tutto fila liscio, senza infamia e senza lode, come si dice, senza pecche ma anche senza niente che sia effettivamente degno di nota.
Unico aspetto che invece trovo estremamente peggiorato e che Fincher ha sbagliato in pieno è il personaggio di Lisbeth.
E, sinceramente, non è una cosa da poco, considerato che tutta la trilogia è fondamentalmente Lisbeth-centrica. E che Lisbeth è connotata con tutta una serie di tratti che sono essenziali per fare di lei quello che è, ossia uno dei personaggi femminili più riusciti dell’ultimo decennio a dispetto del cliché in cui sarebbe stato facile farla scadere.
Ecco, la versione Lisbeth di Noomi Rapace era perfetta. Visivamente ma soprattutto caratterialmente. Non avrebbero potuto avvicinarsi di più.
Qui nei panni della Salander c’è Rooney Mara che è anche una brava attrice ma che in questo caso proprio non va. E non è neanche colpa sua, è proprio un problema di copione.
Lisbeth è una figura impenetrabile. La sua fragilità si può ipotizzare, forse indovinare, ma non si può mai vedere in alcun gesto esplicito. Non può mai essere espressa. In questo la Rapace era impeccabile.
Qui, innanzi tutto hanno preso un’attrice fin troppo carina – ché gli americani non resistono proprio alla tentazione di mettere una gnocca dappertutto – ma questo sarebbe ancora il meno. L’aspetto estetico è un po’ diverso ma poteva anche starci. Quello che snatura completamente il personaggio sono altre cose, tra cui il fatto che l’abbiano resa un’hacker all’americana, con atteggiamenti palesemente troppo compiaciuti delle proprie abilità informatiche. E poi è troppo socievole – nel senso che parla, anche se poco ma parla comunque più di quello che dovrebbe. E soprattutto è troppo emotiva. I suoi sentimenti le si leggono sul viso lontano un chilometro. La sua paura è visibile in modo imbarazzante negli occhi sbarrati. Grida vulnerabilità da ogni gesto, dalla camminata rapida, come se stesse scappando, ai continui sguardi colmi di incertezza.
Non so se c’entri la tendenza degli americani a voler sempre spiegare tutto e a voler inserire per forza dei comportamenti che siano univocamente interpretabili, sta di fatto che hanno rovinato proprio il personaggio migliore riducendo Lisbeth ad una qualsiasi ragazzina sveglia e traumatizzata che vuol-far-la-dura-ma-che-sotto-sotto-è-dolce-e-indifesa.
Morale, il film non è male ma non dice poi molto.
La versione originale è forse più noiosa – e magari anche un po’ più cruda nella famosa scena del tutore – ma vale la pena solo per Noomi che fa Lisbeth.
Il libro resta sempre l’opzione migliore delle tre. E – forse l’avevo già detto in occasione della recensione ma ad ogni modo lo ripeto – conviene decisamente leggere prima il libro per non rovinarsi l’ottima costruzione della trama.
Cinematografo & Imdb.
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