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Archive for the ‘M. Wasikowska’ Category

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Crimson Peak è esattamente quello che ti aspetti dal trailer: una fiaba gotica vecchia maniera. Di quelle alla era una notte buia e tempestosa. E che gli dei conservino a lungo in salute il buon Guillermo del Toro per averla messa insieme. E per averlo fatto così bene.

Siamo a New York a inizio Novecento. Edith Cushing è giovane, bella e aspirante scrittrice. Suo padre è un uomo d’affari ed è ricco. Un giorno si presenta da lui Sir Thomas Sharpe, accompagnato dalla sorella, Lady Lucille Sharpe. Sir Thomas è un baronetto, erede di una proprietà ormai decadente, ed è in cerca di fondi per risollevare le sorti della sua terra. Il terreno su cui sorge la sua dimora è ricco di argilla rossa e lui deve solo riuscire a rimettere in funzione la cava per estrarla.

Tra Thomas e Edith l’intesa è immediata ma il padre di lei non si fida e decide di indagare sul giovane. Quando però muore in circostanze misteriose, Edith si affida completamente a Thomas. Una volta sposati, lo segue in Inghilterra, nella tenuta di Allerdale Hall, dove l’attendono Lucille e una serie di stranezze sempre più inquietanti.

Gli elementi canonici del genere ci sono tutti. L’aspetto romantico, immancabilmente velato dall’ombra della morte. Fantasmi che mandano avvertimenti. Una dimora vetusta e decadente che cela segreti in ogni angolo, popolata da ricordi che non si rassegnano a venire dimenticati. Amore, morte e sangue. Una maledizione folle, che non lascia scelta.

Curatissimo in ogni dettaglio, visivamente bellissimo sia per le ambientazioni sia per i protagonisti. La casa è un labirinto oscuro in cui rimbalzano gli echi di un passato che sta divorando tutto. Cade a pezzi, la casa, ma continua a resistere. Bellissimo l’atrio, con il tetto mancante e la neve che cade all’interno.

E l’argilla rossa, che impregna il terreno ed emerge, macchiando – anche in questo caso in modo canonicamente simbolico – la neve ed ogni altra cosa del colore del sangue. Anche i fantasmi, a Allerdale Hall sono rossi. E’ l’argilla che ricopre ogni cosa o grondano sangue?

Mia Wasikovska é Edith, perfetta bionda incarnazione della fanciulla innocente. Lady Lucille è Jessica Chastain, enigmatica e maestosa con le sue vesti sfarzose e lo sguardo gelido. Sir Thomas è Tom Hiddleston che mantiene bene in equilibrio la sua parte, con lo sguardo dolente che lascia intendere il peso di un fardello che nessuno può vedere.

Ho amato tutto di questo film. Ogni minuscolo particolare. Ogni pezzo d’arredamento, ogni sguardo carico di sottintesi. I tre attori protagonisti già li amavo follemente prima del film quindi era piuttosto prevedibile che adorassi i tre personaggi.

Una cosa curiosa è che ad un certo punto ho realizzato che nel cast c’era anche Jax di Sons of Anarchy, stranamente senza giubbottone di pelle e in veste di dottore nel ruolo di Alan McMichael, amico d’infanzia nonché spasimante di Edith. E ho così scoperto che Charlie Hunnam è anche in grado di tenere tutte e due le sopracciglia allo stesso livello – cosa che in SoA non pareva possibile. Scherzi a parte, prima o poi parlerò anche come si deve di SoA dato che ho finalmente finito la prima stagione.

Nel frattempo andate a vedere Crimson Peak.

Cinematografo & Imdb.

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Seriamente. Parliamone.

Mia Wasikowska E Tom Hiddleston E Jessica Chastain.

E fantasmi. E una casa stregata. E atmosfere goticheggianti.

E la regia di Guillermo del Toro.

Devo. Vederlo. Subito.

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Tilda Swinton e Lok…haem…Tom Hiddleston insieme.

E la programmazione dei miei post migra di nuovo elegantemente affanculo. Tanto per cambiare.

Prima di cominciare mi vedo costretta ad avvertire. Sarò fangirlante. Spudoratamente, esplicitamente, vergognosamente fangirlante.

E respingo ogni accusa. Non è colpa mia. Sono loro che sono insostenibilmente meravigliosi.

*raccatta bave qua e là*

Ed è anche una realtà incontrovertibile che tutta la faccenda è classificabile come istigazione allo shipping.

Ciò detto, vediamo se sono in grado di trasmettere qualche vaga nozione che abbia a che fare con il film.

Si parla di vampiri e, sebbene dopo Lestat io sia di solito piuttosto mal disposta verso l’argomento, in questo caso non ho trovato davvero nulla di cui lamentarmi. Anzi. Era proprio dai tempi del summenzionato Lestat che non sbavavo simpatizzavo così per la specie notturna.

Adam e Eve. Un musicista di enorme talento che conduce una vita da recluso nella periferia abbandonata di Detroit, circondato da oggetti provenienti dal passato e chitarre preziosissime. Una donna misteriosa ed altera che percorre le vie di Tangeri fino ad un locale dove incontra un vecchio amico che chiama Marlowe e che indossa un panciotto vecchio di secoli.

Una coppia lontana ma incapace di resistere separata per molto. Si ritrovano. Eve raggiunge Adam perché sente il suo malessere crescente per un mondo popolato da zombie (gli esseri umani) che non sanno fare altro che sprecarlo, distruggerlo, contaminarlo.

Una coppia che ha attraversato i secoli. A volte lasciandovi la propria impronta nelle parole o nelle note di altri autori che se ne sono poi attribuiti il merito. Frammenti dell’immenso patrimonio artistico dell’umanità. Una coppia che sopravvive con quieta attenzione, anche se Adam e Eve reagiscono diversamente a questa eterna sopravvivenza. Per Eve è un’opportunità mentre per Adam è un peso sempre più gravoso.

Un proiettile di legno e gli incubi che arrivano dalla sorella di Eve.

Da un punto di vista meramente tecnico Only Lovers Left Alive è una gioia per gli occhi. E’ curato in modo quasi maniacale in ogni dettaglio. Le ambientazioni straripanti di oggetti provenienti da una vita lunga secoli. Le città rigorosamente notturne. Le riprese dall’alto, lente, lunghissime. La musica a metà tra il rock e il funebre. Il buio.

Già la prima sequenza è bellissima con loro due sdraiati, ciascuno a casa propria, poco prima di svegliarsi, dopo il tramonto. Un vinile che gira così come gira la telecamera che dall’alto scende su di loro in cerchi concentrici. Anche questa è una ripresa lunga, soprattutto per essere una prima scena, ma è perfetta.

E la quiete, anche nei momenti di sconvolgimento. Il sangue ma non la morte e la paura del contagio, che una volta non esisteva.

Stralci del mondo reale contemporaneo che fanno irruzione di tanto in tanto nell’equilibrio atemporale di Adam ed Eve. Il rammarico di Adam, perché gli zombie capiscono le cose sempre troppo tardi. I funghi fuori stagione, perché le stagioni stanno cambiando. Il sangue pulito, sempre più difficile da trovare. La guerra che sarà per l’acqua dopo esser stata per il petrolio.

E i loro gesti d’altri tempi. Le loro nozze attraverso i secoli.

La vicenda è lineare, semplice. Poco più che una slice of life su un punto qualsiasi del loro viaggio nel tempo. Ed è lenta nel suo svolgersi, perché tanto c’è tutto il tempo del mondo.

Personaggi e interpreti. Ok, come dicevo all’inizio, sono di parte perché sono perdutamente innamorata di entrambi, ma sono davvero costruiti in modo impeccabile. Sia da un punto di vista meramente estetico con Tilda dotata di criniera leonina (ma è la stessa che hanno usato per Narnia? no, perché un po’ il dubbio viene) e Tom con lunghe palandrane alternate ad abbigliamento rockettaro e i capelli alla Brandon Lee del Corvo, sia dal punto di vista della caratterizzazione dei personaggi. In particolare Adam è un personaggio bellissimo. E per quanto nessun riferimento sia fatto esplicitamente, ci sono molti suoi tratti che ricordano proprio tanto Lestat. Uno per tutti il fatto che sia un musicista e che la sua musica abbia tanto potere. E poi la sua cinica disillusione.

Eve, per contro, è un personaggio di forza straordinaria, al punto che pare che nulla possa scalfirla, neanche il peso dei secoli.

E poi è un dato di fatto accertato che Tilda Swinton è ringiovanita apposta per fare questo film. Seriamente, non la vedevo così perfetta dai tempi di Orlando.

E ancora, i riferimenti a testi, autori, opere. E il gioco dei nomi che si attribuiscono di volta in volta. Nomi di grandi del passato, che siano persone o personaggi su alcuni dei quali, forse, la loro influenza è stata, in un modo o nell’altro, determinante.

Only Lovers Left Alive è un film strano. Insolito. Inaspettato. Non è fantasy, tanto meno horror, anche se appena si sente la parola “vampiro” l’associazione scatta in automatico. Non è neanche un film romantico nel senso tradizionale del termine. E’ la storia delicata e struggente di queste due creature bellissime che attraversano il tempo e la storia, profondamente partecipi della ricchezza della natura umana e del dolore per le sue miserie.

Due strani guardiani della bellezza, tristi e dolcissimi.

Da vedere.

Cinematografo & Imdb.

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Maps to the Stars è bellissimo.

Crudele, impietoso, morboso anche, come ogni film di Cronenberg che si rispetti. Ma assolutamente, totalmente meraviglioso.

L’ho amato dall’inizio alla fine. Ogni dettaglio, ogni inquadratura, ogni parola. Forse, razionalmente, non so neanche spiegare del tutto questo amore così viscerale, resta il fatto che era parecchio che non rimanevo così folgorata da Cronenberg. Forse addirittura dai tempi degli Inseparabili.

La mappa delle stelle cui fa riferimento il titolo è il percorso tra le ville delle celebrità a Hollywood. Il percorso segnato sulle mappe per i turisti.

Agatha (Mia Wasikowska) arriva a Hollywood da sola, con poco bagaglio, cicatrici da ustioni sul volto e sul corpo, un passato con cui fare i conti, una limousine prenotata e un contatto “importante” rimediato su twitter. Alla guida della limousine c’è Jerome (Robert Pattinson), aspirante attore-sceneggiatore-qualcosa-purché-sia-Hollywood, con cui Agatha stringe amicizia.

Parentesi. Perché Cronenberg si sia poi così affezionato a Pattinson è cosa che non mi è del tutto chiara e che, secondo me, non è neanche del tutto giustificata dalla buona resa di Cosmopolis. Resta il fatto che ho trovato quanto meno buffo il fatto che l’abbia di nuovo chiuso in una limousine, anche se stavolta almeno gliela fa guidare. Chiusa parentesi.

La famiglia Weiss è ricca e socialmente affermata. Sanford Weiss (John Cusack) è una specie di fisioterapista-guru che predica e massaggia benessere in giro per le ville delle celebrità e tramite trasmissioni televisive; sua moglie Christina si occupa di gestire la carriera del figlio tredicenne, Benjie (Evan Bird) già star di Hollywood e già alle prese con una disintossicazione.

Havana Sergrand è un’attrice che probabilmente ormai si avvia al declino, ossessionata dal torbido e irrisolto rapporto con la madre (ormai defunta) e dal desiderio patologico di reinterpretare il ruolo che fu proprio di sua madre nel remake di un film di prossima lavorazione. Havana concentra la sua ossessione sull’ottenere quella parte come tappa di un percorso di liberazione dal fantasma materno. Percorso sul quale è guidata dal Sanford Weiss.

Quando, parlando del film in termini molto vaghi, prima di documentarmi, alla domanda “di cosa parla?” ho risposto con un generico “mah, gente con problemi”, tutto sommato non ero poi così distante dalla verità.

Una Hollywood da incubo, una galleria di personaggi psicotici, vuoti, ossessionati da se stessi. Una panoramica sulle varie declinazioni della bassezza e dell’opportunismo. Uno squarcio sulle dinamiche profondamente malate che mandano avanti quella macchina dell’oro che Hollywood. Sulla sua dimensione fondamentalmente disumanizzante. I dialoghi alle feste, su questo punto, sono crudelmente significativi. Quelli di Havana, che cerca di ottenere raccomandazioni per la parte ma, soprattutto, quelli di Benjie con i suoi colleghi e coetanei. Microcelebrità infarcite di soldi. Piccoli esemplari di ego ipertrofici nutriti di fama, istinto di competizione e disprezzo del prossimo. Un miscuglio di cattiveria infantile e disagio adolescenziale potenziati da una libertà sostanzialmente illimitata. Piccoli mostri insomma cresciuti come tali da mostri ben più grandi e più consapevoli.

E poi i segreti. I fantasmi. Quello che viene nascosto. Quello che non si può dire. L’incesto è un elemento dominante fin dall’inizio del film e, al di là delle singole vicende in cui emerge, è potente la sua valenza simbolica nel fare di tutta Hollywood una comunità incestuosa e, come tale, fondata e cresciuta nel male, nell’abiezione.

Cronenberg non è sicuramente il primo a puntare il dito sui peccati di Hollywood ma lo fa in un modo talmente viscerale da risultare qualcosa di completamente altro rispetto alla solita critica socio-economica.

Maps to the Stars è una lunga e struggente poesia. Sono i versi di Liberté di Paul Éluard (1942) che attraversano tutto il film, una sorta di filo rosso che simboleggia la condizione di prigionia fisica, mentale, chimica in cui si trovano costretti tutti i personaggi e che incarna l’esigenza e il presagio di una liberazione imminente.

Bellissimo il personaggio di Agatha, una sorta di angelo folle, incarnazione della Nemesi per tutti quanti.

Fantastica Julianne Moore, miglior attrice a Cannes, invecchiata ma pur sempre bellissima, in un ruolo devastante e difficilissimo.

Ottimo anche Evan Bird, in perfetto equilibro tra cattiveria e dolore.

In generale, uno degli elementi che contribuiscono a rendere perfetto questo film è la pacatezza del dramma. Non ci sono eccessi. Non c’è mai melodramma anche laddove si tocca il fondo della drammaticità fin quasi al parossismo.

Gran cosa. Un equilibro enormemente difficile da ottenere quando stai trattando dei personaggi che sostanzialmente sono tutti dei casi umani uno peggio dell’altro.

L’autoreferenzialità di Hollywood a se stesso si spreca, come è logico che sia data l’ambientazione. A volte ho il sospetto che, per un regista, ambientare una storia inventata in un contesto così familiare sia un po’ come scrivere una fanfiction all’ennesima potenza.

Non manca neppure un bel riferimento ai Dodici Passi che generalmente sono degli Alcolisti Anonimi ma che di fatto sono applicabili a qualsiasi forma di riabilitazione da dipendenza. Al di là del fatto che io continuo ad essere perseguitata da questi benedetti Dodici Passi (Frey, King…etc., etc.) ho trovato geniale che il personaggio portatore del principio del fare ammenda fosse proprio Agatha. E con questo mi fermo, altrimenti spoilero.

Vedetelo, vedetelo assolutamente.

Libertà

Sui miei quaderni di scolaro
Sui miei banchi e sugli alberi
Sulla sabbia e sulla neve
Io scrivo il tuo nome

Su tutte le pagine lette
Su tutte le pagine bianche
Pietra sangue carta cenere
Io scrivo il tuo nome

Sulle dorate immagini
Sulle armi dei guerrieri
Sulla corona dei re
Io scrivo il tuo nome

Sulla giungla e sul deserto
Sui nidi sulle ginestre
Sull’eco della mia infanzia
Io scrivo il tuo nome

Sui prodigi della notte
Sul pane bianco dei giorni
Sulle stagioni promesse
Io scrivo il tuo nome

Su tutti i miei squarci d’azzurro
Sullo stagno sole disfatto
Sul lago luna viva
Io scrivo il tuo nome

Sui campi sull’orizzonte
Sulle ali degli uccelli
Sul mulino delle ombre
Io scrivo il tuo nome

Su ogni soffio d’aurora
Sul mare sulle barche
Sulla montagna demente
Io scrivo il tuo nome

Sulla schiuma delle nuvole
Sui sudori dell’uragano
Sulla pioggia fitta e smorta
Io scrivo il tuo nome

Sulle forme scintillanti
Sulle campane dei colori
Sulla verità fisica
Io scrivo il tuo nome

Sui sentieri ridestati
Sulle strade aperte
Sulle piazze dilaganti
Io scrivo il tuo nome

Sul lume che s’accende
Sul lume che si spegne
Sulle mie case raccolte
Io scrivo il tuo nome

Sul frutto spaccato in due
Dello specchio e della mia stanza
Sul mio letto conchiglia vuota
Io scrivo il tuo nome

Sul mio cane goloso e tenero
Sulle sue orecchie ritte
Sulla sua zampa maldestra
Io scrivo il tuo nome

Sul trampolino della mia porta
Sugli oggetti di famiglia
Sull’onda del fuoco benedetto
Io scrivo il tuo nome

Su ogni carne consentita
Sulla fronte dei miei amici
Su ogni mano che si tende
Io scrivo il tuo nome

Sui vetri degli stupori
Sulle labbra intente
Al di sopra del silenzio
Io scrivo il tuo nome

Su ogni mio infranto rifugio
Su ogni mio crollato faro
Sui muri della mia noia
Io scrivo il tuo nome

Sull’assenza che non desidera
Sulla nuda solitudine
Sui sentieri della morte
Io scrivo il tuo nome

Sul rinnovato vigore
Sullo scomparso pericolo
Sulla speranza senza ricordo
Io scrivo il tuo nome

E per la forza di una parola
Io ricomincio la mia vita
Sono nato per conoscerti
Per nominarti
Libertà.

Paul Éluard

Cinematografo & Imdb.

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Bello è bello, per carità. Ma che massacro.

Non ho visto proprio tutto di Gus Van Sant ma sono comunque abbastanza certa che questo sia il suo film più triste.

Una struggente e delicatissima storia d’amore tra una ragazza, Annabel (Mia Wasikowska), a cui restano solo tre mesi di vita a causa di un tumore al cervello e un ragazzo, Enoch (Henry Hopper – al suo esordio), dalle potenziali tendenze suicide, che non riesce a rielaborare il lutto per la perdita dei genitori in un incidente stradale e passa il tempo imbucandosi ai funerali e giocando a battaglia navale con Hiroshi, il fantasma di un ragazzo, kamikaze giapponese della seconda guerra mondiale.

Drammatico, su questo non ci piove. Non melodrammatico. Le parole chiave che salvano il tutto sono “delicatissima” e “fantasma”. Non c’è traccia dell’autocommiserazione compiaciuta dei film a tema malattia terminale che andavano tanto di moda negli anni Novanta. Non ci sono le lunghe trafile mediche e le accurate descrizioni delle miserie della malattia. La situazione si capisce per immagini, tramite ellissi e allusioni. E basta e avanza. Solo nei dialoghi tra Annabel e Enoch le cose vengono chiamate con il loro nome. Come se alla fine solo loro ne avessero il diritto poichè le portano sulla propria pelle.

Annabel deve morire ma è piena di una serenità e di una voglia di vivere travolgenti. Enoch deve vivere ma non ha nè interesse nè una vera energia per farlo davvero. Hiroshi lo accompagna e cerca in qualche modo di guidarlo anche nel rapporto con Annabel che, anche se non riesce a vederlo, accetta la sua presenza come naturale. La figura del fantasma è un elemento che in qualche modo stempera la drammaticità, conferendo un tono leggero e surreale anche a ciò che leggero non è. Ha la stessa funzione del milkshake al funerale. Sdrammatizzare anche quello che non si può sdrammatizzare. Riportare la morte alle sue proporzioni di elemento – uno tra tanti, uno qualsiasi – della vita. Il fantasma incarna la conflittualità di Enoch con la morte, ma al tempo stesso la sua familiarità con essa per averla vissuta anche in prima persona, a seguito dell’incidente.

Il fantasma è anche una delle chiavi per interpretare il titolo (l’originale, Restless, non quella schifezza italiana de L’amore che resta, per carità), poichè Hiroshi non trova pace per una cosa che non ha fatto in vita. Anche Enoch non trova pace e non riesce a stare lontano dalla morte cui la sua vita è stata strappata così arbitrariamente.

Annabel. Una dolce Amélie condannata e apparentemente fortissima. A ripensare il suo personaggio dall’esterno, sembrerebbe forse fin troppo perfetta, troppo bella e saggia nel suo affrontare la morte imminente, per essere  vera. Eppure a vederla non c’è traccia di forzatura, ma anzi un’estrema naturalezza.

Entrambi gli attori sono molto bravi e molto belli in questi due ruoli solitari e malinconici: si muovono sullo sfondo di un autunno esteticamente perfetto, nei loro vestiti retrò, con i loro passatempi diversi e lontani dalla quotidianità scolastica dei loro coetanei.

A completare il tutto le musiche, come sempre azzeccatissime, di Danny Elfman.

Morale, ho retto bene fin quasi alla fine salvo poi continuare a lacrimare e a tirar su col naso ancora per cinque minuti buoni di Tremors 4 che ho beccato a caso su non so che canale (chiedendomi anche, tra un singhiozzo e l’altro, quando diavolo fosse uscito il 4 e perchè me lo fossi perso).

Poi, boh, sarà che passati i trenta la mia emotività è diventata del tutto ingestibile, ma è davvero un film bello ma tanto tanto triste.

Cinematografo & Imdb.

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