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Archive for the ‘S. King’ Category

Questo dovrebbe uscire ad aprile negli Stati Uniti, quindi è presumibile che da noi arriverà più o meno per la prossima estate.

Dal trailer non mi pare che abbiano apportato poi grandi modifiche alla sceneggiatura.

Non sono particolarmente entusiasta di Jason Clarke ma pazienza.

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E’ un periodo strano, questo.

Forse non più di altri, però è strano comunque e lo è per diverse ragioni che non credo di aver voglia di approfondire più di tanto.

E’ un periodo di musica che ritorna da anni a cui non pensavo da molto, di libri in cui cercare risposte, di strade (relativamente) nuove – non metaforicamente, proprio in senso geografico – e silenzi da ascoltare senza avere fretta di capire.

Quando ho parlato di Quello che non so di Lei di Polanski, vedendo che era tratto da un romanzo mi sono subito incuriosita e, date le tematiche e il gioco di piani a metà tra autobiografia e fiction, avevo intravisto la possibilità di una scoperta letteraria molto interessante.

Ad essere precisi avevo subodorato la potenzialità per una fissa letteraria bella e buona.

E così è stato.

Mi sono perdutamente innamorata dei libri di Delphine de Vigan e probabilmente questo non sarà l’unico post a lei dedicato.

Comincio da questo titolo perché è quello alla base del film – che, per inciso, è un’ottima trasposizione. Parentesi. E’ la seconda volta in due settimane che parlo di una trasposizione messa su schermo da Polanski. Non ci avevo fatto caso fino a questo momento. Chiusa parentesi.

Dicevo. Da una storia vera.

Non so bene come rendere l’idea di cosa effettivamente è questo libro.

Prima accennavo alla commistione tra invenzione e autobiografia ma questa è solo la classica punta dell’iceberg.

C’è la realtà.

Delphine parla in prima persona e parte da una serie di elementi della sua vita reale. In particolare, parte dal suo ultimo romanzo in cui ha raccontato la storia della sua famiglia e del suicidio di sua madre. Un romanzo che ha avuto conseguenze molto più ampie e pesanti di quelle che si era aspettata. Un romanzo che l’ha prosciugata e che ha sconvolto gli equilibri intorno a lei a causa delle rivelazioni fatte a proposito di persone della sua famiglia.

Delphine parte da se stessa. Dal suo stato d’animo, dal suo vissuto, dalle sue abitudini.

E poi c’è tutto il resto.

C’è L. – che in francese gioca sulla pronuncia elle, sia nome che pronome.

L. che entra piano nella vita di Delphine. Presenza confortante all’inizio. Talmente perfetta da sembrare un dono inaspettato. Amica premurosa. Compagna presente. Confidente affidabile.

L. che c’è sempre. I suoi occhi sono solo e sempre per Delphine.

L. che a poco a poco diventa troppo.

E poi ci sono i libri.

Parlare di scatole cinesi sarebbe banale e riduttivo.

I livelli si moltiplicano in un gioco di specchi in cui la realtà da un lato si perde ma dall’altro prende una forma ancora più forte, reale e concreta.

I riferimenti incrociati sono tantissimi, al punto che è impossibile elencarli tutti.

La situazione in cui si trova Delphine è palesemente molto kinghiana – nel filone degli scrittori alle prese con i propri demoni.

All’inizio delle tre sezioni in cui il libro si divide ci sono citazioni da romanzi di Stephen King. Delphine stessa è colta da un blocco dello scrittore simile a quello di Mike Noonan di Mucchio d’ossa – con tanto di vomito nel cestino all’apertura di Word -, è in qualche modo perseguitata da se stessa come Thad Beaumont ne La metà oscura, è incastrata nella fama portata dall’ultimo romanzo e nell’influenza di L. come Paul Sheldon è inchiodato in casa di Misery, la sua fan numero uno.

E mentre Delphine riflette e discute dello scrivere storie che è come far riemergere fossili dalla terra (sempre King), disquisisce dell’opportunità o meno dell’autobiografia e del grado di verità che lo scrittore deve (o non deve) al suo pubblico, i confini tra storie reali e storie inventate diventano sempre più vaghi e confusi.

Le citazioni e riferimenti ad altri libri e anche a svariati film sono molteplici, sia in termini di richiamo esplicito sia sotto forma di ulteriori aneddoti che entrano così a far parte della vicenda di Delphine e di L. e riproducono a loro volta altre storie narrate.

Ma allora cos’è reale? Cos’è tratto da una storia vera?

Fino a che punto la verità è tale?

E fino a che punto L. può continuare ad occupare spazio nella vita di Delphine prima che lei scompaia del tutto, soffocata da così tanta attenzione?

Da una storia vera è un capolavoro.

Caustico nel puntare il dito contro la morbosità voyeuristica – tanto di moda adesso – che ruota attorno allo specificare se gli eventi narrati siano o meno tratti da una storia vera, questo libro è una perfetta operazione di depistaggio.

La scrittura di Delphine ti risucchia e ti inchioda alle pagine alla ricerca di tracce che sembrano evidenti ma non conducono mai dove ci si aspetta.

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Restiamo nell’ambito del filone King-per-lo-schermo con questo B (ma anche C o D) movie del 1992 tratto da un romanzo mai pubblicato dello zio Steve – un testo nato molto probabilmente solo come supporto della sceneggiatura.

Sceneggiatura dello stesso King – e già questo definisce i parametri entro i quali ci muoviamo – regia di Mick Garris, poi regista anche de L’ombra dello Scorpione (1994), Stephen King Shining (1997) e Desperation (2006), tanto per rimanere in ambito kinghiano, senza contare altre numerosissime produzioni horror.

Una piccola cittadina della provincia americana. Un giovane di bell’aspetto, Charles, vi si è appena trasferito con la madre.

Questa l’apparenza.

In realtà madre e figlio sono anche amanti, nonché gli ultimi esemplari di una specie antica e mostruosa.

A metà tra mostri e vampiri, questi sleepwalkers si nutrono dell’anima di fanciulle vergini, possono mutare aspetto e modificare la realtà che li circonda. Temono i gatti, che ne riconoscono la vera natura e il cui graffio è per loro letale.

Charles e sua madre devono nutrirsi e per questo si spostano continuamente, hanno il giardino pieno di trappole per gatti e questa volta hanno messo gli occhi su Tanya, una compagna di scuola di Charles. Giovane, carina e presumibilmente pura.

Se non che Charles ha delle esitazioni, Tanya è più sveglia di quanto sembra e c’è un poliziotto che va sempre in giro con il suo gatto, stramberia che si rivelerà estremamente utile per far sì che le cose non vadano esattamente secondo i piani della coppia demoniaca.

Il pacchetto è esattamente quello che ci si aspetta che sia. La trama è prevedibile e il livello degli effetti decisamente basso – ok i tutoni di gomma alla fine sono un po’ oltre il limite dell’imbarazzante, così come la pannocchia-pugnale – però nel complesso non è male.

Forse saranno i ventisei anni ad attribuire fascino vintage alla pellicola, o forse sarà il mio essere di parte per ciò che arriva da King, sta di fatto che questi Sonnambuli non mi sono dispiaciuti, anzi, ho trovato il film onestamente divertente.

Come molti esponenti di pari categoria, è più un horror di nome che di fatto. Ci sono i mostri che danno la caccia alla giovane vergine e c’è del sangue, ergo, horror. Da lì a dire che ci si spaventi davvero è un altro discorso, però noi ci si diverte lo stesso.

Cameo rituale per King, che questa volta è il custode svampito di un vecchio cimitero e – piccola chicca per appassionati – fa la sua comparsata insieme a Tobe Hooper (Non aprite quella porta, Le notti di Salem, Poltergeist, The Mangler) e Clive Barker (Hellraiser, Candyman) in veste di tecnici della scientifica, in una scena che da sola vale decisamente tutto il film.

Nel cast anche Ron Pearlman (che ritornerà a King con Desperation).

E un sacco di gatti.

Cinematografo & Imdb.

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William Hallek è un avvocato obeso dalla morale non eccessivamente rigida. Il pensiero costante del cibo contrasta con la dieta che cerca di seguire senza eccessivi risultati. Una sera, rientrando in macchina da un party, sua moglie lo distrae, per così dire, dalla guida e William non si accorge di un’anziana zingara che sta attraversando la strada.

Investita, la donna muore.

Segue il processo ma non una condanna.

Ad aspettare fuori dal tribunale però c’è il padre della zingara che si avvicina a Will, lo sfiora e sussurra una parola.

Will, di colpo comincia a perdere peso. Dapprima è felice della cosa ma presto si accorge che non c’è niente di naturale nel suo dimagrimento.

Lo zingaro gli ha detto di consumarsi e lui non può fare altro che osservare il lento deperire del suo corpo.

Solo, senza nessuno che gli creda, Will deve trovare il modo di farsi togliere questa maledizione.

1996, titolo originale Thinner, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King uscito nel 1984 ancora sotto lo pseudonimo di Richard Bachman – e che non ho letto, non potendo quindi dire niente sulla fedeltà al testo.

Per la regia di Tom Holland – il papà di Chucky, per intenderci – L’occhio del male è il classico film per la tv tratto da King e da lui stesso sceneggiato.

Il taglio marcatamente televisivo e una certa prevedibilità di trama ne fanno un prodotto decisamente di serie B, ma non per questo necessariamente negativo.

Nonostante i limiti stilistici la trama coinvolge e si è (anche un po’ morbosamente) curiosi di vedere cosa succederà a Will mentre continua a dimagrire a vista d’occhio pur abbuffandosi in modo patologicamente smodato, preda di una fame ormai totalmente fuori controllo.

Incarnazione estrema dell’insano desiderio di mangiare senza freni e, non solo non ingrassare, ma anche dimagrire, Will sprofonda gradualmente in un incubo che sembra non avere via d’uscita.

Cast tutto sommato neanche troppo anonimo, con Robert John Burke nel ruolo di Will, Joe Mantegna e Micheal Constantine.

Non manca neanche il consueto cameo di King stesso, questa volta nei panni di un farmacista.

Imdb.

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Allora. L’ho visto subito quando è uscito ma continuo a rimandare il post perché non so bene come partire.

In sintesi, mi è piaciuto ma non mi ha esaltata perché ho delle riserve.

Innanzi tutto sul tanto discusso Pennywise di Bill Skarsgård.

Inutile che ci giri intorno. Non mi convinceva nel trailer e continua a non convincermi tuttora.

Non mi fa paura.

Non è neanche vagamente spaventoso come il Pennywise di Tim Curry. Punto. E se l’operazione di spostamento degli anni da ’58-’59 a ’88-’89 per l’ambientazione ha richiesto tutta una serie di inevitabili adattamenti, la figura del clown era un elemento che poteva benissimo rimanere immune da tentativi di ammodernamento. Il clown è il clown. E’ vintage per definizione. E’ fuori moda per definizione perché sa di vecchio circo.

Ed è spaventoso per definizione proprio per le sue intenzioni così ostentatamente amichevoli e i suoi atteggiamenti iperallegri.

Muschietti ha voluto dare a Pennywise un aspetto più inquietante anche quando è in versione ammiccante, con i colori smorzati del vestito e del trucco, e questo va a discapito della duplicità della figura del clown.

Il vecchio pagliaccio è più inquietante quando vuol fare il simpatico o vuol sembrare innocuo. Molto di più che non quando rivela la sua vera natura.

In questo Pennywise 2017, la duplicità si perde un po’ perché è subito troppo dichiaratamente il ‘mostro’.

Non ultimo c’è anche un problema di denti. Passi che il denti di IT-mostro sono precisi identici a quelle delle mega sanguisugone dell’Acchiappasogni. Ma perché, in nome degli dei, perché hanno dovuto mettergli quei due incisivi da castoro nella faccia normale? Io non riuscivo a non fissarli. Mi è anche venuto il dubbio che fossero i denti veri del povero Bill Skarsgård ma sono andata a cercare sue foto e non mi pare proprio che abbia i dentoni da roditore.

E poi non mi aggrada eccessivamente come lo fanno muovere in quelle specie di corse accelerate.

E anche l’incipit, che pure è ricostruito in modo praticamente letterale – e quindi tecnicamente anche molto simile all’It televisivo degli anni Novanta – offre un’entrata in scena di It che non è neanche lontanamente orrorofica come quella di Curry. Poi sì, ho apprezzato  che si vedesse il dettaglio del braccio staccato, ma non è sufficiente.

Detto ciò, visto che son partita dalle critiche, altra cosa che mi ha lasciata un po’ perplessa è l’aggiunta di elementi nuovi – e non sto parlando di quelli funzionali allo spostamento temporale – o la modifica di alcuni tratti che non c’era nessun motivo di cambiare.

Una per tutte, perché spostare l’entrata alle fogne?

Altro appunto è per Derry. Non è abbastanza presente. Non si percepisce abbastanza quella cappa inquietante di un’intera comunità contaminata dal Male. E’ un elemento centrale e non gli viene dato sufficiente rilievo. Il che si ripercuote sul livello di malessere generale trasmesso dall’atmosfera.

Nel complesso tuttavia, come dicevo, non è che non mi sia piaciuto.

Lo slittamento agli anni Ottanta è gestito bene, con il conseguente adeguamento di tutti i riferimenti culturali – nonché di citazioni più o meno esplicite. Parentesi. Ad un certo punto si vede sullo sfondo che al cinema di Derry c’è in programmazione Nightmare – che era dell’84 ma pazienza, non ci sono solo prime visioni – e la scena a del lavandino di Beverly ricorda tantissimo il getto di sangue dal letto in cui viene fatto sparire il povero Johnny Depp vittima di Freddy Krueger. Chiusa parentesi.

Bella la casa di Neibolt Street e, in generale, la ricostruzione fisica di Derry, buono il cast, con un bel gruppetto di ragazzini ad incarnare la banda dei Perdenti, connotati in modo piuttosto fedele – anche se forse non avrebbe guastato qualche approfondimento in più sulle singole storie.

Henry Bowers sembra Kevin Bacon da giovane e ben si adatta ai panni del classico bullo kinghiano della stirpe di Asso Merrill.

Buono il modo in cui sono stati mantenuti alcuni punti chiave pur con un contesto temporale diverso – per dire, la battaglia a sassate ha un che di anacronistico ma ne è uscita fuori una scena veramente ben congegnata.

Apprezzabile anche la sostanziale fedeltà di fondo allo spirito del libro, pur con qualche indebolimento.

Mi è un po’ dispiaciuta la scelta di spezzare nettamente passato e presente perché secondo me l’impostazione alternata con i flashback aveva un sacco di potenzialità in più anche in termini di suspense, ma pazienza.

Che dire. Da vedere, su quello non si discute.

Per quanto l’ho aspettato speravo in qualcosa da strapparmi i capelli per l’entusiasmo però va bene lo stesso.

Sono veramente curiosa di vedere quale sarà il cast per i ruoli da adulti.

Cinematografo & Imdb.

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L’altra sera mi è capitato tra le mani questo dvd e mi sono resa conto che, pur avendolo visto anni fa, non ne conservavo alcun ricordo.

Avevo vaghe immagini di Ron Pearlman che diceva Tac con sguardo allucinato e una sensazione di lentezza ma non di più.

2006. A dieci anni esatti dalla pubblicazione del (quasi) omonimo romanzo (Desperation, 1996), Stephen King’s Desperation è una produzione per la TV che ha avuto una risonanza tutto sommato immeritatamente limitata. Non che sia un capolavoro eh, però non è peggio dei vari It e L’ombra dello scorpione (peraltro diretta dallo stesso Mick Garris che troviamo anche qui). O anche di un Pet Sematary, che pure era un film vero e proprio.

Ha delle pecche, questo sì.

La prima, come accennavo, è una certa lentezza dovuta al format – gli stacchi pubblicitari sono facilmente riconoscibili e, se non sbaglio, era pensata per essere trasmessa in due parti.

La seconda è che la sceneggiatura è dello stesso King, che negli anni continua a mantenere intatti i suoi talenti tra cui scrivere romanzi fantastici e sceneggiarli, nel migliore dei casi, in modo mediocre.

In questo caso va detto che non ho letto il libro ma, a naso, conoscendo l’autore, ho idea che quanto è finito nel film sia come sempre, a voler essere generosi, un 10 percento, non di più. E sì, è cosa nota che la trasposizione su schermo è sempre riduttiva rispetto al libro, ma è anche vero che nel caso di King questa sproporzione raggiunge sempre livelli particolarmente ragguardevoli.

Detto ciò, c’è una giovane coppia di New York (Annabeth Gish e Henry Thomas) che viaggia su una strada del Nevada e viene fermata da uno sceriffo non proprio centratissimo.

Collie Entragian (Ron Pearlman) trova un motivo per arrestare la coppia portarla a Desperation. Dove sono tutti morti.

Tutti tranne un gruppetto di persone chiuse nelle celle dello sceriffo e un inquietante numero di cani che ostentano un comportamento parimenti inquietante.

Si creano subito le situazioni tipicamente kinghiane del piccolo paesino caduto vittima di strani eventi e forze misteriose e il gruppetto di protagonisti, associati in modo casuale, che deve trovare il modo di uscirne, con tutto quello che ne consegue in termini di dinamiche relazionali tra perfetti sconosciuti provenienti da background totalmente diversi e capitati lì ciascuno sulla scia delle proprie circostanze fortuite.

C’è un vecchio veterinario con un problema con la bottiglia, una famiglia già provata dalla morte della bambina – ammazzata dallo sceriffo – , uno scrittore spocchioso, reduce del Vietnam e in giro per l’America sulla sua moto (cosa che ha fatto lo stesso King)(attraversare gli Stati Uniti in moto, non il Vietnam e la spocchia), un ragazzino – il figlio della famigliola di cui sopra – che pare avere un rapporto privilegiato con Dio. In arrivo, oltre alla coppia di newyorkesi, c’è anche il tecnico dello scrittore – che lo segue con un camion e l’attrezzatura per allestire di volta in volta le sue presentazioni – e un’autostoppista recuperata per caso.

Toni horror mediamente inquietanti, molto giocati sull’effetto macabro della città fantasma piena di morti in ogni angolo. Splatter contenuto – il che fa passare sotto silenzio la mediocre qualità degli effetti – salvo qualche caduta di stile pseudo digitale nel finale.

Citazioni come se piovesse, incrociate tra i libri ma anche tra i film a partire dalla scritta Redrum sulla parete come in Shining.

Sempre parlando di citazioni, mi è rimasto un dubbio che forse potrei chiarire leggendomi il libro forse anche no per un discorso di cronologia (nel senso che penso sia una cosa presente solo nel film). Ad un certo punto – senza specificare contesto e personaggi per evitare spoiler – si trova un biglietto dove qualcuno che si firma Barbie si rivolge ad un certo Jim.

Ora, Barbie e (Big)Jim sono i due protagonisti di The Dome, che uscirà solo nel 2010 e se nel ’96 era forse improbabile che King ci stesse già lavorando – anche se nulla si può escludere – non lo è altrettanto se parliamo del 2006.

E dunque, sono davvero loro? C’è qualche collegamento che mi sfugge o è solo uno dei tanti giochetti di riferimenti che si trovano un po’ ovunque?

Da approfondire.

In ogni caso il film merita un’occhiata.

Nel cast anche Tom Skerritt (Viper di Top Gun), nel ruolo dello scrittore.

Imdb.

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1985. Stephen King si dedica alla sceneggiatura del suo Cycle of the Werewolf, romanzo breve  pubblicato per la prima volta nel 1983, costituito da un collage di piccole storie autonome ma legate dal comune denominatore del lupo mannaro.

Regia di Daniel Attias, cineasta dalla carriera quanto mai scarna ma ritornato prepotentemente all’onor del mondo con la sua partecipazione a quella meraviglia di True Detective (prima stagione).

Cast tecnico assai vario, con una cospicua componente italiana per quel che riguarda scenografie, fotografia ed effetti speciali.

Cast artistico che comprende un giovanissimo Gary Busey (per gli amici, il quasi-sosia di Nick Nolte) e Terry O’Quinn prima che precipitasse sull’isola di Lost nei panni di Locke.

Non so se ho visto male io ma non mi è parso di individuare comparsate dello zio Steve.

Un piccolo paesino della provincia americana (chi l’avrebbe mai detto eh?) si trova di colpo afflitto da una serie di morti inspiegabili. Delitti cruenti ed efferati quanto misteriosi. Non ci sono tracce, non ci sono indiziati. La polizia – nei panni dello sceriffo Joe Haller – brancola nel buio e fatica a contenere la rabbia crescente di una popolazione che esige sempre più prepotentemente di farsi giustizia da sé.

A raccontare la storia è la voce fuori campo di Jane Coslaw, che ricorda gli avvenimenti vissuti da lei e suo fratello Marty – più giovane di lei e bloccato su una sedia a rotelle – aiutati dallo zio Red (Gary Busey), reticente a farsi coinvolgere ma suo malgrado costretto ad accettare di far fronte ad una situazione dai tratti surreali.

Allora. Se adottiamo una prospettiva strettamente orrorifca, Unico indizio la luna piena – in originale Silver Bullet (devo dirlo che era meglio? no, non mi par che sia necessario) – non fa paura. Non spaventa neanche un po’.

Perché è molto datato, perché la sceneggiatura è pur sempre di King, perché il nucleo della faccenda è telefonato fin dalla prima scena – e se ciò non bastasse, anche dal titolo e dalla copertina del dvd.

Si sa subito che si tratta di un lupo mannaro.

Non c’é la parte di mistero e di dubbio che accompagna l’entrata in scena della creatura sovrannaturale.

E tuttavia, forse per le stesse ragioni, mi è garbato parecchio.

Sarà il fascino vintage degli anni Ottanta. Gli effetti macabramente grezzi, la sceneggiatura prevedibile. Non so. Sta di fatto che questo filmettino, con la sua fiera essenza trash, è una piccola chicca per gli appassionati sia di King sia dei B-movie horror.

King non comprende tantissimi lupi mannari nelle sue storie ma ha sempre ricordato con affetto e ammirazione I Was a Teenage Werefolf, del ’57, e non ha mai mancato di sottolineare l’enorme influenza che ebbe sulla sua immaginazione di ragazzino.

Nota per chi, come me, di fronte ad una trasposizione libro-film nutre l’insopprimibile impulso di recuperare sempre i libri d’origine: la versione italiana del Cycle of the Warewolf – pubblicata con la stessa traduzione del titolo usata per il film – su amazon (o anche su altri canali se è per questo) non si trova a prezzi inferiori ai 110 euro e, in alcuni casi, ben superiori ai 200. La versione inglese arriva anche sopra i 300 in copertina rigida ma sul paperback si ragiona un po’ di più e si scende fino a 30/40 euro, che rimane comunque un bel pagare per 130 pagine scarse.

Il che significa che dovrò mestamente impormi di aspettare di imbattermi in canali più fortunati e meno dispendiosi.

Cinematografo & Imdb.

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No, decisamente no.
Allora. Togliamo tutti i pregiudizi per i remake e facciamo finta di partire da zero.
Anzi. Un passo in più.
Partiamo avvantaggiati.
Perché stiamo parlando del remake come film di una mini serie per la tv.
Più budget, più attori, più mezzi.
E un villain/boogeyman che da solo spiana la strada e che per di più è anche un clown.
E’ IL clown per eccellenza.
Sembrerebbe un po’ ti-piace-vincere-facile no?
E invece no, no e ancora no.
Poi probabilmente lo andrò a vedere ma, onestamente, dal trailer mi giran già i coglioni.
Sarà perché sono degli anni Ottanta e IT è arrivato esattamente al momento giusto per far presa – nella mia fascia di età, anche tra chi non è appassionato di horror è difficile trovare qualcuno che non ricordi il Pennywise di Tim Curry con un brivido.
O sarà che la mano del King sceneggiatore ha comunque un suo fascino trash.
Non lo so neanche io esattamente che cos’è che non funziona, ma bastano i primi trenta secondi del trailer per capire che non funziona.
Non puoi trattare Pennywise come un qualsiasi mostro di adesso. Proprio non puoi.
Forse è proprio l’enorme peso che l’originale ha nell’immaginario collettivo ad essere stato controproducente, inibendo una reale reinterpretazione a favore di una più triste scopiazzatura – perché quella è l’impressione più netta che si percepisce.
E soprattutto, alla fine di tutto ciò, c’è che questo trailer non fa un cazzo paura.
Niente. Zero.
In quella robetta da quattro soldi per la tv che era l’originale, basta l’inquadratura del triciclo rovesciato e già ti caghi sotto.
Non va.
Non puoi truccare qualcuno da clown fargli fare Pennywise così a caso.
E poi si subodora più che altro un facile adagiarsi sull’ammiccamento all’aspetto nostalgico (peraltro controproducente) dell’intera operazione a discapito di tutto il resto.
Poi magari dopo che l’avrò visto scriverò una recensione entusiasta e non dormirò per due settimane, ma sinceramente ne dubito.

In uscita il 21 settembre.

Non si fa. Ecco. Non si fa.

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è che i romanzi, i film, i programmi della Tv o della radio – persino i fumetti – che si occupano di horror si svolgono sempre su due livelli.

Alla superficie c’è il livello grossolano – quando Regan vomita in faccia al prete o si masturba con un crocifisso in L’esorcista, o quando il mostro scorticato e simile a un ammasso di carne cruda del film Profezia di John Frankenheimer sgranocchia la testa del pilota d’elicottero come fosse un dolcetto. Il grossolano può esser fatto con vari gradi di finezza artistica però c’è sempre.

Ma su un altro livello, ben più potente, l’orrore davvero diventa una danza, una ricerca continua, ritmica. Ed è alla caccia del luogo dove tu, lettore o spettatore, vivi al tuo livello più primitivo. All’orrore non interessano i prodotti della civiltà, nelle nostre vite. Non si muove attraverso quelle stanze che ci siamo costruiti un pezzo alla volta, e nelle quali ogni pezzo esprime (lo speriamo!) la nostra personalità socialmente accettabile ed educatamente illuminata. E’ invece alla ricerca di un altro luogo, una stanza che può a volte somigliare al segreto covo di un gentleman vittoriano, o alla stanza delle torture dell’Inquisizione spagnola…ma più spesso è lo scarno, brutale, disadorno buco di un cavernicolo dell’età della pietra.

L’orrore è arte? Su questo secondo livello, sì, non può essere altro; raggiunge lo status di arte semplicemente perché è in cerca di qualcosa che sta oltre l’arte, che fa dell’arte una preda; è in cerca di ciò che chiamerei punti pressione fobica. Il buon racconto di orrore danzerà fino al centro della tua vita e troverà quella porta della stanza segreta di cui solo tu credevi di conoscere l’esistenza: come hanno fatto notare sia Albert Camus sia Billy Joel, lo Straniero ci rende nervosi…ma ci piace indossare la sua faccia in segreto.

Sono i ragni a spaventarti? Bene. Abbiamo i ragni, come in Tarantola, Radiazione BX distruzione uomo e Il regno dei ragni. E i tobpi? Nell’omonimo romanzo di James Herbert, li puoi sentire arrampicarsi su di te… E mangiarti vivo. I serpenti? Claustrofobia? Le altezze? O…qualsiasi cosa.

Poiché i libri e i film sono mezzi di comunicazione di massa, il campo dell’horror è stato spesso capace negli ultimi trent’anni di fare ancora meglio di queste paure personali. In questo periodo (e in minor grado nei settant’anni precedenti) il genere horror è spesso riuscito a trovare dei punti di pressione fobica nazionale, e i libri e i film che hanno avuto maggior successo hanno quasi sempre chiamato in causa ed espresso paure che esistono in un vario spettro di persone. Tali paure, spesso politiche, economiche e psicologiche piuttosto che soprannaturali, danno alle migliori opere dell’orrore un appagante senso allegorico, ed è quel tipo di allegoria con la quale i registi vanno a nozze. Forse perché sanno che se le cose cominciano a diventare noiose, possono sempre far uscire il mostro dal buio.

Stephen King, Danse Macabre, 1981

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Tratto dall’omonimo racconto di Stephen King, contenuto nella raccolta Full Dark No Stars (Notte buia niente stelle).

Darcy e Bob Anderson sono una coppia felicemente sposata da 25 anni. La loro vita è ricca e piena. Lui è un contabile stimato e dalla solida posizione; i figli sono ormai cresciuti e ben avviati sulle loro strade. La figlia è prossima al matrimonio.

Un quadro perfetto di felicità familiare.

I rituali condivisi, il lessico di coppia. La felicità tranquilla data dalla profonda abitudine all’altro.

E poi, senza preavviso, senza nessun motivo particolare, succede qualcosa. Una cosa piccola e insignificante, ma sufficiente a spazzare via tutto.

Bob è un collezionista di monete. Non è il suo lavoro, ma è un’attività che porta avanti con dedizione professionale.

Una sera Bob è fuori per incontrare un potenziale venditore e Darcy sta guardando la televisione. Vuole cambiare canale ma le pile del telecomando sono scariche.

Come in tutte le case americane dei film, le pile sono in garage e Darcy si mette a cercarle in mezzo ad attrezzi e scatoloni.

Uno di questi scatoloni si muove.

Un’asse si sposta e rivela un nascondiglio.

Quello che Darcy trova nel nascondiglio cancella e ribalta in un attimo tutte le certezze della sua vita.

Chi è realmente suo marito?

Chi è la persona con cui ha condiviso buona parte della sua esistenza?

Chi è il padre dei suoi figli?

Nello scrivere il racconto, King dichiarò di essersi ispirato al caso di cronaca del serial killer Dennis Rader, noto con il soprannome di BTK (Bind Torture and Kill – lega tortura e uccidi – dal modus operandi sulle sue vittime) che uccise per oltre vent’anni in Kansas prima di essere scoperto e arrestato. Rader aveva una famiglia e una moglie del tutto ignara – almeno stando a quanto si accertò all’epoca – delle attività del marito e King prova a interrogarsi su come sia possibile vivere tutta la vita accanto a qualcuno senza sapere di fatto nulla di questa persona. Fino a chiedersi se, in definitiva, sia mai possibile conoscere davvero qualcuno, anche (o forse proprio in particolar modo) le persone che dovrebbero essere più vicine.

A conferire un tocco surreale a tutta la faccenda c’è anche il fatto che pare che la figlia di Rader abbia cercato di fare le sue rimostranze a King perché sfruttava l’immagine dei suoi genitori.

Tornando al film, i coniugi Anderson sono interpretati da Anthony LaPaglia e Joan Allen per la regia di Peter Askin, che nel 2007 diresse il documentario su Trumbo.

A Good Marriage ha forse un taglio un po’ televisivo ma nel complesso funziona.

Gestito bene lo stacco netto che divide la prima e la seconda parte, con il gioco delle dinamiche di coppia apparentemente uguali ma di fatto radicalmente diverse a causa della nuova prospettiva dopo la scoperta di Darcy.

Imdb.

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