E’ un periodo strano, questo.
Forse non più di altri, però è strano comunque e lo è per diverse ragioni che non credo di aver voglia di approfondire più di tanto.
E’ un periodo di musica che ritorna da anni a cui non pensavo da molto, di libri in cui cercare risposte, di strade (relativamente) nuove – non metaforicamente, proprio in senso geografico – e silenzi da ascoltare senza avere fretta di capire.
Quando ho parlato di Quello che non so di Lei di Polanski, vedendo che era tratto da un romanzo mi sono subito incuriosita e, date le tematiche e il gioco di piani a metà tra autobiografia e fiction, avevo intravisto la possibilità di una scoperta letteraria molto interessante.
Ad essere precisi avevo subodorato la potenzialità per una fissa letteraria bella e buona.
E così è stato.
Mi sono perdutamente innamorata dei libri di Delphine de Vigan e probabilmente questo non sarà l’unico post a lei dedicato.
Comincio da questo titolo perché è quello alla base del film – che, per inciso, è un’ottima trasposizione. Parentesi. E’ la seconda volta in due settimane che parlo di una trasposizione messa su schermo da Polanski. Non ci avevo fatto caso fino a questo momento. Chiusa parentesi.
Dicevo. Da una storia vera.
Non so bene come rendere l’idea di cosa effettivamente è questo libro.
Prima accennavo alla commistione tra invenzione e autobiografia ma questa è solo la classica punta dell’iceberg.
C’è la realtà.
Delphine parla in prima persona e parte da una serie di elementi della sua vita reale. In particolare, parte dal suo ultimo romanzo in cui ha raccontato la storia della sua famiglia e del suicidio di sua madre. Un romanzo che ha avuto conseguenze molto più ampie e pesanti di quelle che si era aspettata. Un romanzo che l’ha prosciugata e che ha sconvolto gli equilibri intorno a lei a causa delle rivelazioni fatte a proposito di persone della sua famiglia.
Delphine parte da se stessa. Dal suo stato d’animo, dal suo vissuto, dalle sue abitudini.
E poi c’è tutto il resto.
C’è L. – che in francese gioca sulla pronuncia elle, sia nome che pronome.
L. che entra piano nella vita di Delphine. Presenza confortante all’inizio. Talmente perfetta da sembrare un dono inaspettato. Amica premurosa. Compagna presente. Confidente affidabile.
L. che c’è sempre. I suoi occhi sono solo e sempre per Delphine.
L. che a poco a poco diventa troppo.
E poi ci sono i libri.
Parlare di scatole cinesi sarebbe banale e riduttivo.
I livelli si moltiplicano in un gioco di specchi in cui la realtà da un lato si perde ma dall’altro prende una forma ancora più forte, reale e concreta.
I riferimenti incrociati sono tantissimi, al punto che è impossibile elencarli tutti.
La situazione in cui si trova Delphine è palesemente molto kinghiana – nel filone degli scrittori alle prese con i propri demoni.
All’inizio delle tre sezioni in cui il libro si divide ci sono citazioni da romanzi di Stephen King. Delphine stessa è colta da un blocco dello scrittore simile a quello di Mike Noonan di Mucchio d’ossa – con tanto di vomito nel cestino all’apertura di Word -, è in qualche modo perseguitata da se stessa come Thad Beaumont ne La metà oscura, è incastrata nella fama portata dall’ultimo romanzo e nell’influenza di L. come Paul Sheldon è inchiodato in casa di Misery, la sua fan numero uno.
E mentre Delphine riflette e discute dello scrivere storie che è come far riemergere fossili dalla terra (sempre King), disquisisce dell’opportunità o meno dell’autobiografia e del grado di verità che lo scrittore deve (o non deve) al suo pubblico, i confini tra storie reali e storie inventate diventano sempre più vaghi e confusi.
Le citazioni e riferimenti ad altri libri e anche a svariati film sono molteplici, sia in termini di richiamo esplicito sia sotto forma di ulteriori aneddoti che entrano così a far parte della vicenda di Delphine e di L. e riproducono a loro volta altre storie narrate.
Ma allora cos’è reale? Cos’è tratto da una storia vera?
Fino a che punto la verità è tale?
E fino a che punto L. può continuare ad occupare spazio nella vita di Delphine prima che lei scompaia del tutto, soffocata da così tanta attenzione?
Da una storia vera è un capolavoro.
Caustico nel puntare il dito contro la morbosità voyeuristica – tanto di moda adesso – che ruota attorno allo specificare se gli eventi narrati siano o meno tratti da una storia vera, questo libro è una perfetta operazione di depistaggio.
La scrittura di Delphine ti risucchia e ti inchioda alle pagine alla ricerca di tracce che sembrano evidenti ma non conducono mai dove ci si aspetta.
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