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Archive for the ‘T. Farmiga’ Category

Ispirato ad un fatto di cronaca raccontato da Sam Dolnick in un suo articolo comparso nel giugno 2014 sul New York Times, The Mule ripercorre la storia di Earl Stone e di come, ormai quasi novantenne, si sia trovato a diventare un corriere della droga braccato dalla DEA.

Earl (Clint Eastwood) conduce una vita spartana e solitaria. Ha dedicato la sua vita al suo lavoro e ai suoi fiori, trascurando moglie e figlia che ormai non vogliono più saperne di lui.

Improvvisamente rimasto senza un soldo, si trova inconsapevolmente coinvolto in un giro di consegne di carichi di droga.

Earl non si rende subito conto di ciò in cui si sta cacciando ma la paga è dannatamente buona e tutto sommato il lavoro sembra facile.

E poi lui è bravo. E insospettabile, con quel suo aspetto da vecchietto perbene e un po’ rintronato.

Il carico di lavoro, per così dire, aumenta fino ad attirare l’attenzione di Colin Bates (Bradley Cooper), agente della DEA che si occupa delle indagini sui traffici del cartello.

Dimentichiamoci pure dell’infelice esito di Ore 15.17: Attacco al treno e tiriamo un sospiro di sollievo per il ritorno di Clint Eastwood che dirige e interpreta un film di tutto rispetto.

Un film di cui lui stesso è l’anima e il centro, regalando con il personaggio di Earl una nuova interpretazione memorabile.

Certo, si può obiettare che, di fatto, Earl è l’ennesima variazione sul tema Eastwood, e certo, in parte è sicuramente vero.

Earl è il classico personaggio tagliato su misura per Clint. E’ un personaggio alla Walt Kowalski di Gran Torino, per capirci. E’ il vecchio burbero, egoista e rigido ma anche fondamentalmente buono. E’ il vecchio politicamente scorretto nelle sue uscite verbali ma sostanzialmente correttissimo nelle sue azioni. E’ l’incarnazione di contrasti e contraddizioni che fanno al tempo stesso sorridere e commuovere. E sì, tutto questo si è già visto e, in particolare, si è già visto con Clint.

Resta però il fatto che Eastwood sa dare vita a questo personaggio come nessun altro e quello che ci troviamo di fronte è un protagonista talmente umano da essere reale e di una enorme, travolgente intensità.

E’ impossibile non empatizzare con Earl. Anche quando è irritante.

E’ impossibile non essere partecipi delle sue vicende.

A tratti anche divertente, The Mule è toccante e coinvolgente. Tiene bene il ritmo dall’inizio alla fine, ammicca al poliziesco senza però strafare e bilancia bene le parti in gioco, compreso il fronte dei sentimenti familiari.

Ottimo anche Bradley Cooper anche se pensavo che il suo ruolo avrebbe avuto più spazio. Di fatto è poco più che un one-man show intorno a Earl.

Nel ruolo della figlia di Earl c’è Alison Eastwood, la figlia di Clint, e sul fronte della DEA troviamo anche Lawrence Fishburne.

In ogni caso, molto consigliato.

Cinematografo & Imdb.

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Ad un certo punto potrei diventare spoilerosa. Nel caso avviserò in modo chiaramente riconoscibile. Anche se forse in questo caso più che di spoiler si potrebbe parlare di avvertimenti per evitare di andare a impelagarsi in questo film.

Che fregatura colossale.

Lo aspettavo tantissimo ed ero tutto sommato convinta che, trattandosi sempre dell’ambito Conjuring non sarei rimasta delusa.

Ok, gli Annabelle non sono sicuramente al livello dei due Conjuring originari – sono più prevedibili e, in questo senso, più standard rispetto agli elementi canonici coinvolti – però sono comunque dei dignitosissimi horror. Con un trama coerente sia in sé sia in rapporto al quadro generale.

Se Annabelle è un filone di spin-off che ha origine dal primo film, The Nun doveva approfondire le origini della suora demoniaca del secondo – suora che altro non era che il demone Valak in sembianze blasfeme per – così si disse al tempo – minare la fede di Lorraine.

Oltretutto, incidentalmente, in Annabelle Creation – il secondo – viene anche stabilito un collegamento trasversale tra i due spin-off tramite il personaggio di Suor Charlotte.

Detto ciò, The Nun, che pure aveva buone potenzialità – dovute anche solo banalmente al fatto che, visivamente, la suora è proprio ben riuscita – compie un enorme balzo all’indietro in termini di qualità, tanto da non sembrare neanche associabile al filone Conjuirng cui dovrebbe appartenere.

Siamo nel 1952, in Romania. In un’antica abbazia, il suicidio di una suora attira l’attenzione del Vaticano che manda sul posto ad indagare Padre Burke, un prete dalla lunga esperienza in miracoli e simili, e sorella Irene, una giovane novizia in procinto di prendere i voti.

Fin dal loro arrivo, i due capiscono che c’è qualcosa che non va.

Nel paese presso cui sorge l’abbazia, nessuno vuole avere a che fare con quel luogo. I vecchi sputano per scacciare il demonio e nessuno si avvicina. L’unico che può aiutare la ragazza e il prete è un giovane di origine franco-canadese, soprannominato il francese, che si occupa di portare le scorte di cibo al convento. Non a caso, è lui che ha trovato la suora impiccata.

Ora, l’idea di fondo di per sé non ha niente che non va.

C’è il convento che invece di essere luogo di Dio nasconde una forza del male.

Non sarà l’idea dell’anno in quanto a originalità, ma via, ci poteva stare.

Peccato che non ce ne sia una che funziona, intorno a questa idea.

Il panorama complessivo è un tale disastro di elementi sbagliati che non so neanche da che parte cominciare.

Forse dalla sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti – cosa che, peraltro, davvero non mi spiego, visto che è di Gary Dauberman, lo stesso degli Annabelle e del nuovo It.

O magri potrei partire dalla totale, completa, disarmante assenza di qualsiasi tentativo di connotazione dei personaggi, che sono piatti, unidimensionali e sciatti. Troppo persino per dire che incarnano dei cliché.

Padre Burke ha il carisma di un copriteiera scolorito, il francese è poco più che una macchietta. Sorella Irene è interpretata dalla brava e bella Taissa Farmiga che tuttavia, pur mettendocela tutta, da sola non basta a far funzionare qualcosa.

Oppure potremmo parlare di come, dal momento dell’arrivo all’abbazia fino alla fine, si assista ad un ininterrotto susseguirsi di situazioni pretestuose, scollegate tra loro e assolutamente sconclusionate.

Troppo jumpscare – ma di per sé sarebbe anche il meno, non fosse che a volte il jumpscare arriva pure sfasato rispetto a quello che sta succedendo. Del tipo che ogni tanto piantano un botto giusto per risvegliarti, nel caso nel frattempo fossi caduto in coma.

Troppe sequenze notturne semi-oniriche e slegate – non è che solo perché si parla di fantasmi e paranormale allora vale tutto e possiamo far succedere cose a cazzo. Porcamerda.

Corridoi e visioni della suora – che a forza di vederla bene e in dettaglio finisce col far paura quanto il summenzionato copriteiera.

Preghiere perpetue, croci rovesciate, fantasmi che aiutano e fantasmi che remano contro.

Battute di dubbio gusto che dovrebbero stemperare una tensione che non si crea neanche per sbaglio.

Il prete espertissimo che, manco a dirlo, porta il fardello del senso di colpa per un esorcismo non riuscito e che, sempre in virtù della suddetta esperienza, si fa gabbare da qualunque cosa circoli nell’abbazia, anche i sorci.

La povera sorella Irene che vaga come una turista guardandosi intorno con infruttoso stupore.

Il tutto

SPOILER SPOILER SPOILER SPOILER

per convergere verso un finale che ridefinisce il concetto di imbarazzante, con tanto di reliquia usata a mo’ di gadget di Final Fantasy (e già è fare un complimento) e una bella sputazzata di sangue di Cristo (giuro!) in faccia al demone per scacciarlo, guadagnando così il trofeo Peggior Cacciata di Demone della storia del cinema – e anche della storia dei demoni.

Demone che, peraltro, essendo dotato di forze e poteri sovrumani, non trova niente di meglio che tentare di far fuori Taissa a mani nude, cercando di strozzarla e annegarla.

Mah.

Io non è che sia troppo esigente per gli horror. Tutto sommato sono di bocca buona e mi garbano tranquillamente anche prodotti di serie dalla C in giù. Davvero, mentre per altri film posso essere oltremodo una pigna in culo, sugli horror tendo a fagocitare indulgentemente qualsiasi cosa.

Però qui non va. Non ci siamo.

Non c’è una cosa che funzioni. Dalla simbologia cristiana spicciola a tutti i possibili cliché d’ambito demonologico.

Un’accozzaglia disordinata di stereotipi e situazioni da manuale appena abbozzate senza cura né coesione.

Le uniche cose carine che funzionano sono i collegamenti con i vari Conjuring e con Annabelle.

Una grossa delusione e un’occasione proprio buttata via.

Oltre che una grossa fonte di incazzatura.

Pessimo.

Cinematografo & Imdb.

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Quando si parla di American Horror Story il commento che sento più spesso è qualcosa tipo “le prime due stagioni sono fighissime, la terza è deludente, la quarta è di nuovo fighissima”.

E vabbè. Io cerco sempre di non farmi condizionare ma a forza di sentire questo ritornello ho finito col cominciare Coven con un po’ di apprensione e con un atteggiamento inevitabilmente più critico.

In realtà devo dire che, onestamente, mi sento più che in dovere di spezzare una o più lance a favore di Coven.

Sotto certi aspetti, è vero, è un po’ sottotono rispetto alle due stagioni precedenti – in particolare rispetto ad Asylum che, per quel che mi riguarda, finora rimane la migliore e la mia preferita – ma non la definirei deludente. Anzi.

A me è piaciuta parecchio.

Poi sarà che per me le streghe stanno appena un mezzo punto sotto ai vampiri nella mia personale classifica di creature con poteri, ma tant’è.

Siamo a New Orleans e il luogo attorno a cui ruota tutto è una antica casa, ora adibita ad istituto per ragazze particolari.

L’ambientazione è bellissima, sia per la città, sia per la casa in sé che è enorme e ostentatamente semplice e lussuosa. Ho il dubbio che sia la stessa casa utilizzata per Murder House ma è una cosa che devo verificare.

Siamo in ambito magia&stregoneria e il fatto di trovarsi a New Orleans apre il repertorio a tutto il settore voodoo.

Inoltre, il personaggio di Madame LaLaurie, con il suo sadismo patologico e la sua inclinazione per la tortura, offre spunti per diverse virate genuinamente horror-splatter che fanno sì che ci si tenga ben lontani da qualsivoglia associazione a scuole di magia in stile Hogwarts.

Non che io abbia mai avuto nulla contro Hogwarts e quel filone lì, solo che la stregoneria in senso classico ha altri parametri di riferimento.

Per come viene impostato l’incipit, inizialmente sembra che le protagoniste siano le ragazze che vengono accolte dalla scuola – la prima che viene introdotta è Taissa Farmiga, con il suo potere di Vedova Nera che ammazza chiunque faccia sesso con lei – ma già dopo tre-quattro episodi è chiaro che il centro non sono le vicende delle ragazze.

Il fulcro è la congrega – che viene fatta risalire all’epoca di Salem, se non anche prima – le dinamiche di potere al suo interno e la figura della Suprema che la governa. O dovrebbe governarla, dal momento che l’attuale Suprema sembra avere tutto per la testa tranne che svolgere il suo compito.

Le vere protagoniste risultano essere la Suprema, a capo delle streghe bianche (in senso proprio di pelle bianca, non di magia bianca), interpretata da una strepitosa Jessica Lange, e Marie Laveau , a capo delle streghe nere – personaggio ispirato all’omonima storica regina del voodoo che visse a New Orleans nell’Ottocento (e che, nonostante tutto, rimane il mio personaggio preferito di questa stagione).

Il materiale e i canoni tipici del genere ci sono un po’ tutti, così come ci sono un po’ tutti i poteri possibili legati a stregonerie varie, il che crea spunti pressoché infiniti per gli sviluppi di trama.

Ecco, l’aspetto in cui si riscontra maggiormente un calo rispetto alle due stagioni precedenti è sicuramente la costruzione dell’intreccio. Non è un calo tale da pregiudicare la godibilità della serie, perché alla fine il tutto risulta comunque avvincente e divertente. Però si nota.

Si nota perché, proprio per il discorso delle infinite possibilità fornite dalla scusa dei poteri magici, chi ha scritto la sceneggiatura ne ha approfittato un po’ troppo e in modo un po’ troppo grossolano.

Il fatto stesso di inserire un personaggio come Misty Day, con il suo potere di resuscitare i morti, rappresenta un rischio se non lo si sa gestire più che bene. Il discorso resurrezione è un po’ come i viaggi nel tempo. Te lo puoi giocare come jolly per salvare un nodo di trama che non si vuole sciogliere ma se lo fai in modo troppo spudorato diventa pretestuoso.

E qui questo genere di espedienti viene usato un po’ troppo spesso e con un po’ troppa leggerezza.

Poi. Se sicuramente Jessica Lange – Fiona – è meravigliosa nella sua folle e regale decadenza, devo dire che, soprattutto verso la fine, la parte diventa un po’ forzata – e tra l’altro, nell’edizione italiana, il doppiaggio della Lange risulta piuttosto molesto con quella voce costantemente stanca e sfiatata. Ma pazienza.

Tra i miei personaggi preferiti c’è sicuramente Myrtle, interpretata dalla meravigliosa Frances Conroy.

Ci sono alcuni personaggi, poi che a mio avviso non avrebbero dovuto neanche entrare nella stagione perché il loro ruolo risulta forse un tantino troppo appiccicato. Uno per tutti, Kyle. E ok, sì, probabilmente Evan Peters aveva bisogno di lavorare, però il personaggio di Kyle non serve proprio a nulla. Giusto forse a catalizzare un po’ di reazioni tra Zoe e Madison e a inserire la scena splatter dell’obitorio e del puzzle di cadaveri.

Anche Madison non mi piace particolarmente ma ha sicuramente più ragione di esistere.

Ancora. I personaggi delle ragazze più giovani avrebbero potuto venire approfonditi un po’ di più e caratterizzati un po’ meglio, mentre quasi tutta la loro connotazione si esaurisce in funzione della questione della successione della Suprema ed è un po’ un peccato perché è riduttivo. Allo stesso modo in cui altri filoni di trama vengono troncati un po’ troppo bruscamente sempre a favore delle beghe di successione.

E sì, forse sul finale è un po’ affrettato il modo in cui vengono fatte uscire di scena le tre Grandi Stronze fino a poco prima così determinanti.

Morale.

Di difetti ce ne sono eccome, è vero. E alcune sono proprio occasioni un po’ sprecate. Però secondo me il risultato riesce ad essere comunque accattivante grazie ad un tono autoironico di sottofondo che sdrammatizza e compensa le lacune. Un tono volutamente grottesco, a volte eccessivo, spesso paradossale (scorretto, coerentemente con l’impronta di tutta la serie), che salva con una risata macabra anche i momenti più deboli della struttura complessiva.

Bello anche il personaggio di Cordelia, interpretata da Sarah Paulson – inquietantissima dopo essersi accecata.

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AMERICAN HORROR STORY: COVEN The Magical Delights of Stevie Nicks - Episode 310 (Airs Wednesday, January 8, 10:00 PM e/p) --Pictured: (L-R) Lily Rabe as Misty Day, Stevie Nicks as herself -- CR. Michele K. Short/FX

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Sul fatto che io abbia un rapporto assolutamente sfasato con le serie TV mi sono già dilungata ampiamente in svariate occasioni. Penso che X-Files sia stata l’unica che ho visto contemporaneamente al resto del mondo. O quanto meno al resto d’Italia, visto che la vedevo in TV. Per il resto ho i miei tempi.

Avevo puntato American Horror Story già da un po’. Per essere onesti da quando ho avuto la dash di Tumblr invasa per mesi di screenshot più o meno spoilerosi dalla seconda e dalla terza stagione, ma ormai ci ho fatto il callo a dover schivare gli spoiler. Diciamo che lo vivo come un allenamento dell’attenzione selettiva.

Anyway, l’avevo puntata già da un po’ ma non ne ero così attirata da precipitarmi.

Un paio di settimane fa ho trovato la prima stagione in offerta mentre in realtà cercavo tutt’altro e niente, è stata addiction al primo episodio e l’ho divorata.

La mia intenzione è quella di non essere spoilerosa ma non garantisco. Leggete a vostro rischio.

Dodici episodi. Struttura ad ambientazione chiusa, numero di personaggi relativamente limitato e quintali di riferimenti al più celebre repertorio dei classici (e non) dell’horror.

Per la prima stagione, Murder House, l’ambientazione è quella della Casa, appunto. Una casa stregata, dal passato torbido e pieno di efferatezze e dal presente pieno di fantasmi, nella quale si trasferisce, ignara, la famiglia Harmon, a sua volta tormentata dai propri personali fantasmi di un dolore troppo recente e difficile da superare.

Ad ogni puntata si scopre un pezzo della storia della casa e si chiarisce così il ruolo dei vari personaggi che ruotano intorno alla famiglia dei nuovi proprietari.

All’inizio di ogni puntata c’è un flashback più o meno lontano nel tempo e un nuovo crimine viene raccontato, un nuovo tassello viene aggiunto al quadro completo del passato della dimora di Los Angeles.

Se forse l’impronta non cinematografica si fa leggermente sentire nel modo affrettato in cui la famiglia Harmon si abitua alle stranezze che la circondano, per il resto, il taglio è assolutamente di buon livello.

La trama è complessa ma definita. Nulla viene lasciato al caso e nulla viene lasciato in sospeso. Ogni particolare ha la sua importanza e tutto si incastra per dare origine ad un insieme tanto armonico quanto terribile.

I personaggi sono connotati bene. Forse qualche cliché ogni tanto ci scappa ma non disturba da un punto di vista empatico.

Il lato strettamente horrorifico è piuttosto soft. Quasi niente splatter – e, anche dove c’è, è parecchio leggero – niente implicazioni demoniache o eccessivamente parapsicologiche. Fantasmi vecchio stile, perlopiù.

E i riferimenti, dicevo prima. Ce ne sono tantissimi e talmente espliciti che è più che legittimo considerarli cercati con meticolosità. Ci sono richiami praticamente a tutti i film un po’ importanti della storia dell’horror recente/contemporanea e anche a qualcosetta al di fuori. Magari non strettamente horror ma comunque di stampo inquietante. Shining, Rosemary’s Baby, Le Verità Nascoste (la scena del bagno è uguale!!) E ora parliamo di Kevin, The Others, Frankenstein, Il sesto senso, Rose Red, tanto per citare i primi che mi vengono in mente.

Il gioco principale attorno al quale si sviluppa l’ambiguità della trama è quello della convivenza tra vivi e morti senza che si sappia quasi mai fin da subito chi è vivo e chi no. Il piano di interazione tra i personaggi è sempre precario. Gli equilibri fragili.

Nel cast il nome più importante è sicuramente quello di Jessica Lange, bella, regale e stronza come poche.

E poi c’è Taissa Farmiga nel ruolo di Violet. Dalla somiglianza con Vera Farmiga avevo dato per scontato che si trattasse della figlia, salvo poi scoprire che le due sono sorelle, distanti 21 anni l’una dall’altra.

Mi piace tantissimo il personaggio di Violet e mi piace il modo in cui viene interpretato.

C’è anche Zachary Quinto in un ruolo che risulta un po’ buffo se, come me, si è ancora reduci abbastanza freschi di Heroes, ma che è gli sta comunque bene addosso.

Poi. Il mio personaggio preferito è Tate. Ok. Adesso finisco il post poi vado in cucina a tirarmi dietro qualche ortaggio da sola per la deprimente banalità di questa considerazione. Banalità perché Tate è costruito apposta per piacere nonostante tutto. E deprimente perché è fatto per piacere prevalentemente ad un pubblico adolescenziale. Che ci posso fare. Così è. A me garba.

Sta arrivando uno SPOILER più grosso del chiacchiericcio che ho portato avanti finora.

Spoiler. Chi non vuole sapere non vada avanti.

Io ho avvisato eh.

Dicevo. Tate. Tate che mi piace proprio perché la sua crudeltà non è logica ma è naturale. Nel senso che è connaturata al suo essere. E pertanto è inspiegabile. Tate che non poteva non piacermi perché generalmente il mio personaggio preferito o muore o si scopre che è uno stronzo allucinante. Qui ho tutte e due le cose in un colpo solo. Che posso mai volere di più? Ecco.

Tate che è complesso proprio perché dietro non c’è niente. Che è male puro, di quello inconsapevole, inevitabile, ma che proprio per questo non ha possibilità di redenzione.

Il tono generale della serie è inquietante ma non eccessivamente. Per dire, ci sono un po’ di momenti in cui ci si caga sotto ma niente che non ti lasci dormire la notte. Man mano che ci si inoltra negli episodi la componente horrorifica diventa, in certo qual modo, una sorta di cornice e sempre più spazio viene lasciato agli eventi passati che riemergono e alle dinamiche relazionali sempre più esasperate.

Un po’ di divertito politically incorrect per quel che riguarda l’approccio al sesso. Niente di che ma ci sono due tre battute tutt’altro che scontate su uno schermo televisivo e soprattutto in una serie TV.

Abbastanza autoironia per compensare anche laddove salta fuori qualche pecca. Il fatto che il numero degli episodi sia limitato e l’ambiente chiuso è un vantaggio perché facilita l’organicità della trama e una visione d’insieme coerente.

Ultima cosa. E’ considerato spoiler se dico che il finale è soddisfacente e adatto? Non so, in ogni caso non è di quelle serie che deludono e si perdono i pezzi per strada in stile Lost.

Per quel che mi riguarda da’ dipendenza. Tecnicamente non sarà chissà che cosa ma tiene incollati.

Ora devo assolutamente trovarmi le altre stagioni.

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