10 maggio 1996. La storia della tragica ascensione all’Everest che costò la vita a 9 persone.
Tratto da Into Thin Air (Aria sottile) dello scrittore, giornalista e alpinista Jon Krakauer, anch’egli parte della spedizione.
Krakauer (che, per la cronaca, è anche l’autore di Nelle terre estreme da cui è stato tratto Into the Wild) che, per parte sua, non ha apprezzato del tutto la trasposizione cinematografica, in particolare, a suo dire, per il modo in cui sono stati rappresentati alcuni aspetti umani/emotivi della vicenda.
Messner, in un articolo su La Stampa di un po’ di tempo fa, giudicava il film sostanzialmente un buon prodotto hollywoodiano ma lamentava la mancanza dell’unica vera protagonista, la montagna.
Ora, per carità, entrambi ne sanno sicuramente più di chiunque abbia messo mano al film, questo è fuor di dubbio.
Resta però il fatto che l’obiezione di Krakauer è legata all’oggettiva distorsione di una situazione ben precisa – nessuno è mai entrato nella sua tenda a chiedergli se voleva o meno uscire a cercar di salvare chi era rimasto preso nella tempesta. Non che egli sostenga che avrebbe potuto fare di più o diversamente. Solo che nessuno è mai entrato in quella tenda e gliel’ha mai chiesto perché le condizioni esterne erano tali che nessuno riusciva a muoversi dalle tende.
L’obiezione di Messner trovo invece che sia piuttosto oziosa, seppur magari anche fondata. Il succo è che non si può dar l’idea di cosa sia stare in alta quota senza ossigeno se si fanno le riprese a 2.500 metri. Che è vero. E’ vero in modo talmente ovvio da essere banale. Ma è un po’ come dire che non si può dare l’idea di cosa sia stato annegare veramente col Titanic girando la scena in una maxi piscina. Mah.
Ad ogni modo, il film in sé a me è piaciuto. Anche se sono uscita che stavo malissimo. A distanza di anni dalla chiusura del mio lavoro per una casa editrice specializzata in alpinismo e arrampicata credo di essere giunta alla conclusione che la montagna mi terrorizza. Almeno, quel tipo di montagna. E lo so che la ricompensa, il motore e il fine ultimo è quella piccola porzione di divina e incommensurabile bellezza che solo a pochi è dato di vedere. Ma non mi basta neanche per apprezzare l’idea.
Scalare quel tipo di montagne è qualcosa che devi avere dentro. O ce l’hai o non ce l’hai. Immagino che sia così per tutti gli sport estremi ma nel caso dell’alpinismo è qualcosa che forse riesco a vedere meglio perché ci sono entrata maggiormente in contatto. E’ qualcosa che devi fare al di là di qualsiasi ragionamento. Contro te stesso, contro tutto il buon senso e contro ogni elementare istinto di autoconservazione. E non è desiderio di scoperta. E’ solo desiderio di andare oltre. Ed è eroismo e follia allo stesso tempo.
Forse è anche per colpa di questi ragionamenti, di queste considerazioni che emerge ancora di più l’assurdità di alcuni aspetti di questa ascensione del 10 maggio ’96 (questa, ma avrebbe potuto benissimo trattarsi di qualsiasi altra).
E’ lo stridente, cacofonico accostamento di quella che è inequivocabilmente un’attività per pochi, col tentativo di renderla accessibile a tutti secondo le logiche correnti del marketing. Rob Hall con Adventure Consultant nel ’92 è stato il primo, ma non è dovuto passare molto tempo perché venisse seguito a ruota, con Mountain madness di Scott Fisher in testa.
Alpinisti esperti e sherpa – che la storia dell’alpinismo si ostina ingiustamente a dimenticare – che operano per portare turisti in cima all’Everest. Già solo a dirlo suona sbagliato. Vendere l’idea che sia qualcosa che chiunque abbia un po’ di esperienza di scalate può fare. E’ così dannatamente falso. Ma evidentemente la tentazione è anche così dannatamente forte. Peccato che qui il margine di errore sia pressoché inesistente.
Il film si divide abbastanza nettamente in due parti, la preparazione e la scalata. La seconda parte è azione pura. E’ la caduta precipitosa in un inferno di neve, ghiaccio e freddo che ti mangia vivo. E’ indubbiamente ben fatta, ritmo veloce, coinvolgente. Ti tiene sospeso e disperato fino alla fine.
La prima parte è interessante e tristemente accurata nel trasmettere l’immagine di una situazione insostenibile. Il campo base dell’Everest è una specie di villaggio-vacanze più affollato di un centro commerciale. La montagna è un bazar di attrezzature piazzate e non, utilizzabili e non. Ci sono un traffico di scalatori e una contaminazione che hanno tratti surreali e non sono sostenibili in un posto del genere. C’è una mancanza di umiltà e di rispetto per la montagna che lasciano esterrefatti, anche se è una situazione nota ormai da anni.
Cast di grandi nomi, Jason Clarke, Josh Brolin, Jake Gyllenhal, Robin Wright, Keyra Knightley. Clarke veste i panni di Rob Hall e offre un’interpretazione pulita ed essenziale di un ruolo che presentava molti rischi in termini di caduta emotiva. Non ci sono vuoti eroismi hollywoodiani, i toni sono complessivamente pacati e lasciano che il dramma sia veicolato dall’impietoso svolgersi degli eventi.
Film d’apertura al festival di Venezia di quest’anno.
Da vedere.