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Archive for the ‘J. Malkovich’ Category

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Il 20 aprile 2010 la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, di proprietà della Transocean e al servizio della British Petroleum, diventa protagonista delle cronache di tutto il mondo a causa di un incidente di proporzioni devastanti.

Peter Berg si attiene agli eventi e il materiale è tale che lascia poco spazio per ricamarci su.

Fin dall’inizio si capisce che la situazione è appesa a un filo. Le condizioni di lavoro non sono ottimali, i costi da tagliare o contenere, più importanti della sicurezza.

Soprattutto all’inizio, i tecnicismi abbondano e per chi come me non ha dimestichezza con il gergo e il funzionamento delle piattaforme petrolifere, buona parte dei nomi e delle procedure risulteranno comprensibili quanto un menù in aramaico. Quello che però non si perde mai di vista, neanche per un secondo, è il punto centrale e cioè che c’è qualcosa di profondamente sbagliato che si sta mettendo in moto.

Controlli che saltano e manutenzione resa impossibile dalle condizioni di deterioramento dell’attrezzatura. Un ritardo di 43 giorni da giustificare e l’esigenza di fare soldi che – banalmente quanto inevitabilmente – prevale su qualsiasi norma di buon senso o autoconservazione.

97 minuti di ritmo serrato, senza neanche un solo istante per prendere fiato. Saliamo su quella piattaforma e ne scendiamo distrutti, insieme ai protagonisti, senza aver tempo per nulla che non sia assistere attoniti e terrorizzati da una catena di eventi che precipita sempre più rapidamente, in una corsa folle verso la distruzione totale.

Le dinamiche relazionali sono ridotte all’osso e rimane l’essenziale. La struttura degli eventi prende forma autonomamente senza bisogno che venga puntato il dito e senza soffermarsi su eroismi inutili.

Un giro di giostra in un inferno galleggiante di fuoco, fango, acqua e petrolio.

Mark Whalberg nei panni di Mike Williams, il protagonista, a fianco di Kurt Russel (Jimmy), John Malkovic (Vidrine) e Kate Hudson (Felicia).

Un buon cast pulito e asciutto, senza sbavature e senza eccessi. Un ritmo adrenalinico e una storia che lascia increduli e stravolti.

Un caso che è subito diventato storia, come il peggior disastro ambientale della storia americana, con la morte di 11 persone, lo sversamento stimato di 60.000 barili di petrolio nelle acque del Golfo del Messico e un incendio che ha continuato a bruciare per 87 giorni, fino al collasso definitivo della piattaforma.

Un incubo dell’arroganza dell’uomo, relegato già al silenzio senza che nessuno abbia veramente pagato per gli errori commessi.

Un film interessante e decisamente al di sopra delle aspettative. Intelligente e non banale, nonostante la natura stessa dell’evento, per la sua spettacolarità, possa trarre in inganno e far pensare all’ennesimo cliché catastrofico.

Molto consigliato.

Cinematografo & Imdb.

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– Now, yes or no? It’s up to you, of course. I will merely confine myself to remarking that a “no” will be regarded as a declaration of war. A single word is all that’s required.

– All right. War.

Questo è un altro di quei film che mi causano rimembranze.

Il che vuol dire che, probabilmente, è in arrivo qualche (sicuramente) inopportuna carrettata di cazzi miei.

Perché è un altro di quei film irrimediabilmente legati ad un periodo preciso della mia vita.

Perché è un altro di quei film che ho visto un numero imbarazzante di volte e che potrei recitare a memoria.

Perché per un po’ di anni, quando non cercavo di trasformarmi in Lestat, cercavo di diventare Valmont.

Non la Marchesa, no, no. Che è meravigliosa, forte, perfetta. Ma è pur sempre una donna ed è un tale cliché puntare ad un personaggio femminile, se sei già femmina tu. A meno che il personaggio in questione non sia Lady Oscar, ma qui si finisce col divagare troppo.

It’s beyond my control.

Perché è uno di quei rari casi in cui amo più il film del libro – per quanto il romanzo sia geniale.

Perché è fisicamente impossibile non essere attratti dalla perfetta, affascinante, superiore crudeltà dei due protagonisti. E sì, dovrebbe sfiorarmi il dubbio che l’insana fascinazione verso un certo tipo di personaggi possa essere un mio problema. Ma anche no.

You’ll find the shame is like the pain, you only feel it once.

Le relazioni pericolose ha fatto epoca per due volte.

Nel 1782, quando de Laclos pubblica il suo romanzo epistolare e le torbide vicende dei due dissoluti seduttori della nobiltà settecentesca, il Visconte di Valmont e la Marchesa de Merteuil, diventano un capolavoro assoluto della letteratura francese.

Nel 1988, quando Stephen Frears lo porta sullo schermo attraverso la magistrale sceneggiatura di Christopher Hampton e, con un cast spettacolare e un raro stato di grazia a calibrare perfettamente ogni elemento, riesce a imporre un film in costume e apparentemente fuori tempo e a renderlo un cult che costituisce quasi un genere a sé stante.

I salotti del Settecento. La nobiltà vuota e annoiata. La patina affascinante e immancabilmente snaturata di quell’epoca che, parlando di alta società (anche perché altrimenti la precisazione avrebbe poco senso), non tiene mai conto del fatto che il Settecento rappresentò uno dei maggiori picchi in negativo per quanto riguarda le condizioni igieniche: erano sporchi, sì, e tutto quel belletto e quegli abiti in cui si bardavano non giovavano certo alle condizioni d’insieme. Ma non importa. Perché ancora adesso guardo quel film e dico cazzo, quanto avrei voluto vivere lì.

I rituali di una società schiava di se stessa e della sua immagine. Le avvisaglie di una decadenza imminente, dietro i grandi fasti.

La trasgressione. Cercata con metodo; tanto più estrema quanto più rigida era la morale dominante. Ma anche il dubbio che si insinua al di sotto di tutta questa messa in scena. Il dubbio che, appunto, non si tratti d’altro che di questo: una bella recita in cui tutti sanno tutto ma tutti fanno finta di niente. Tutti stanno al gioco.

E alla fine di questo si tratta, fondamentalmente.

Un gioco tra due menti brillanti e annoiate. Frustrate dalla vacuità dell’ambiente in cui si muovono. Immature e geniali allo stesso tempo.

Un gioco il cui premio è il piacere, certo, ma ancora più che il piacere carnale è quello della conquista. E’ il potere. E’ la trasgressione impunita.

Un gioco perfetto e crudele di due menti che si ritengono – e per molti versi sono – superiori alla mediocrità che li circonda. Mediocrità che include anche tutto ciò che implica dei sentimenti.

Vanity and happiness are incompatible.

La Marchesa de Merteuil e il Visconte di Valmont, Glenn Close e il miglior John Malkovich che abbia mai calpestato le scene. Una coppia perfetta sotto tutti i punti di vista. Come personaggi e come interpreti. Nessuno dei due è canonicamente bello ma entrambe le interpretazioni incarnano ogni sfumatura della parola fascino.

In mezzo a loro, le pedine del loro gioco, gli ostacoli che si creano da soli, gli obiettivi che si propongono di raggiungere. Perché semplicemente stare insieme non sarebbe all’altezza delle loro pretese.

Il loro ego esige continue prove di supremazia. Il loro ego esige potere sull’altro, prima ancora che l’altro stesso.

When one woman strikes at the heart of another she seldom misses, and the wound is invariably fatal.

Queste pedine inconsapevoli sono Madame de Tourvel – una Michelle Pfeiffer che, come gli altri due, è perfetta sotto ogni aspetto – Cecìl de Volanges – Uma Thurman appena diciottenne – e il Cavaliere Danceny – un Keanu Reeves non molto più vecchio.

When I came out into society I was 15. I already knew that the role I was condemned to, namely to keep quiet and do what I was told, gave me the perfect opportunity to listen and observe. Not to what people told me, which naturally was of no interest, but to whatever it was they were trying to hide. I practiced detachment. I learned how to look cheerful while under the table I stuck a fork into the back of my hand. I became a virtuoso of deceit. It wasn’t pleasure I was afer, it was knowledge. I consulted the strictest moralists to learn how to appear, philosophers to find out what to think, and novelists to see what I could get away with, and in the end, I distilled everything to one wonderfully simple principle: win or die.

Tre oscar vinti: miglior sceneggiatura non originale, miglior scenografia e migliori costumi.

Candidatura a miglior attrice protagonista per Glenn Close – che però aveva lo svantaggio di essersi portata a casa la statuetta già l’anno prima con Attrazione Fatale – e a miglior attrice non protagonista per Michelle Pfeiffer.

Candidato anche come miglior film, anche se poi quello era l’anno di Rain Man e c’è stato ben poco da fare.

Well, I had no choice, did I? I’m a woman. Women are obliged to be far more skillful than men. You can ruin our reputation and our life with a few well-chosen words. So, of course, I had to invent, not only myself, but ways of escape no one has every thought of before. And I’ve succeeded because I’ve always known I was born to dominate your sex and avenge my own.

Cinematografo & Imdb.

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Non ho letto il romanzo di Nicolai Lilin, da cui il film è tratto. A dire la verità, a parte ricordarmi il titolo del libro (2009) non avevo neanche ben chiaro chi fosse esattamente Lilin prima di imbattermi ne Le regole del gioco su Dmax. Ok, sì, virata clamorosamente trash, guardo i programmi di Dmax. E se è per questo sono anche fermamente convinta che siano sempre meglio di una qualsiasi Maria De Filippi e, in generale, della media dei programmi Rai/Mediaset.

Anyway, per il momento non sono in grado di dare un giudizio sulla trasposizione.

Posso però dire che il film mi è piaciuto parecchio. E d’altronde devo ancora trovare un film di Salvatores che non mi sia piaciuto.

Ambientato nella Transnistria, gelida regione del sud della Russia, oggi autoproclamatasi autonoma anche se non riconosciuta da alcuno stato, in una comunità creata dai deportati del regime staliniano e fondata sui principi degli antichi Urca siberiani.

L’educazione a cui si fa riferimento è quella del giovane protagonista (che pare sia anche l’autore stesso in quanto il libro dovrebbe essere autobiografico), Kolima, allevato da nonno Kuzya (un John Malkovich assolutamente fantastico), una sorta di patriarca e figura di riferimento della comunità, ed educato secondo il rigido codice morale e comportamentale degli “onesti criminali” siberiani.

Kolima apprende quindi che si devono rispettare tutti tranne coloro che lavorano per lo Stato, e coloro che detengono un ingiusto potere economico come banchieri e usurai. Che non è sbagliato uccidere qualcuno, se la causa è giusta. Che l’uso di stupefacenti all’interno della comunità è ferocemente punito. Che non si devono tenere in casa i soldi. Che ci si deve prendere cura di quelli che normalmente sono chiamati matti, ma che nella loro lingua sono i voluti-da-dio. Apprende tutta una serie di comportamenti rituali e il loro significato – come tutto quello che ruota intorno alla picca e alla sua importanza. Apprende l’arte del tatuaggio e i complessi significati dei tatuaggi siberiani, che rendono possibile leggere la vita di un uomo sul suo corpo.

Veniamo catapultati in un ambiente chiuso, rigido, crudele ma volutamente presentato in modo ambiguamente affascinante attraverso le sue contraddizioni e il suo presupposto di assoluta necessità.

Protagonista insieme a Kolima è Gagarin. Più irrequieto, meno incline,  fin da ragazzino, a seguire le regole, cerca i suoi obiettivi al di fuori del clan da cui proviene causando un inevitabile scontro di realtà in mezzo al quale Kolima si vede costretto ad operare delle scelte.

E poi c’è Xenia (Eleanor Tomlinson, bravissima), una ragazza dolce, bella ma voluta-da-dio che influisce in modo determinante nelle dinamiche tra i due ragazzi.

La struttura costruita per flash back alternati a momenti del presente in modo tale da far arrivare ad un punto d’incontro le narrazioni dei due piani temporali non sarà forse originalissima ma è molto ben riuscita, fluida ed efficace nel raccontare la storia.

Nel complesso mi aspettavo che fosse molto più crudo. In realtà la violenza c’è, impregna tutto ed è sempre presente ma non si vede quasi mai, e dove si vede non è particolarmente esplicita.

E’ un film interessante. Non so fino a che punto la componente autobiografica sia effettivamente tale, ma resta comunque un buon film.

A questo punto finirò inevitabilmente per procurarmi il libro.

Cinematografo & Imdb.

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Warm Bodies. Ovvero cosa viene fuori mischiando gli zombie-movie con il romance per adolescenti.

Detta così mi rendo conto che può sembrare inquietante ma in realtà il miscuglio è ben riuscito.

Epidemia zombie che ha colpito quasi tutto il pianeta. Zombie “normali” lenti, ritardati, affamati per necessità di viventi e zombie arrivati ormai ad uno stadio ultimo, ridotti a scheletri, senza più nemmeno una parvenza di umanità, affamati con ferocia di qualunque cosa abbia un cuore che batte.

Roccaforte di minoranza non contagiata di sopravvissuti con tanto di muro che li isola e militari che la difendono sotto il comando di John Malkovich – che comunque fa sempre piacere.

R è uno zombie anomalo che conserva residui di ricordi e istinti umani.

Julie è la figlia di Malkovich e fa parte delle squadre che oltrepassano il muro in cerca di rifornimenti e zombie da uccidere. La sua squadra viene attaccata, ma R, invece di mangiarsela, si porta Julie nel suo nascondiglio.

Tentativi di interazione. Diffidenza. Graduale cambio di prospettiva. Conoscenza. Evoluzione del resto della storia più o meno come ci si aspetta che debba andare.

Warm Bodies è un film senza grandi pretese di trama (il che paradossalmente costituisce un ulteriore pregio) ma con una consistente dose di autoironia che lo rende gradevole, divertente, a tratti davvero spassoso. E non importa che la storiella romantica sia esattamente da cliché, perchè anche questo fa parte dell’ironia.

Con i due protagonisti che, con i loro stessi nomi, riprendono la traccia della più grande storia d’amore di tutti i tempi, la storia d’amore per eccellenza, R(omeo) e Julie(tte).

E poi ci sono i riferimenti più o meno evidenti e, anche in questo caso, molto ironici ai canoni classici della filmografia zombie.

Molto ben riusciti i protagonisti. Teresa Palmer (Julie) è carina ma non stucchevole e Nicholas Hoult – oltre ad essere fornito di voce fuori campo azzeccatissima e molto divertente nell’illustrare la crisi esistenziale dovuta al fatto di essere uno zombie – nei panni di R fa ridere solo a guardarlo, con il trucco da zombie ben fatto ma anch’esso non eccessivamente serio; quel tanto che basta per richiamare alla mente l’idea di qualcuno vestito da zombie per Halloween a cui sia venuto particolarmente bene il travestimento.

Presente anche la metafora della condizione adolescenziale senza però sprechi di serietà o eccessive elucubrazioni. Non ci va molto a vedere in R e nella sua felpa malconcia il prototipo di un certo di tipo di teen lobotomizzati.

Purtroppo inevitabili i collegamenti al fenomeno Twilight da parte di una distribuzione che non ha ancora deciso se utilizzare quest’associazione in senso positivo o negativo ma intanto la sfrutta perchè attira comunque l’attenzione. Fortunatamente la cosa si ferma all’aspetto superficiale del marketing e, se qualche richiamo può essere visto nel film, è prevalentemente di stampo se non proprio parodistico quanto meno dissacrante.

Bellissima la colonna sonora rock – anche se non ci sono i Black Keys utilizzati nel trailer – con alcuni accostamenti che ricordano persino un po’ gli anni Ottanta.

Una curiosità. Nei panni del fidanzato di Julie c’è un tizio che ho passato metà del film a pensare uh, ma come somiglia a James Franco. Ecco, si chiama Dave Franco ed effettivamente è suo fratello.

In conclusione. Andate a vederlo e fatevi quattro risate. E’ un film leggero e simpatico. Non c’entra niente con Twilight (chissà perchè ci tengo a ripeterlo e a sottolinearlo) e non vi preoccupate se non vi piacciono gli zombie perchè in questo caso sono in versione decisamente amichevole.

E’ tratto dal libro di Isaac Marion che potrei anche decidere di recuperarmi. Non è neppure una trilogia 🙂

Cinematografo & Imdb.

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