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Archive for the ‘35TFF’ Category

Regia di Kirsten Tan. Sezione Festa Mobile.

Un architetto di Bangkok un tempo di successo ma ormai superato e a fine carriera, si imbatte per caso nelle strade della città in quello che riconosce essere l’elefante che aveva da bambino e a cui aveva dato il nome di Pop Aye.

Amareggiato da un bilancio della sua esistenza che risulta piuttosto deludente, l’uomo si mette in viaggio insieme all’animale per raggiungere il suo paese natale.

Un bel film che, in sostanza, è quasi totalmente quello che ci si aspetta che sia da trama e trailer. Buono che non venga sfruttata eccessivamente la presenza scenica dell’elefante (il cui vero nome è Bong), il che evita di scadere in forzature.

Un po’ agrodolce, garbato, gradevole.

Regia di Aik Karapetian. Sezione After Hours.

Una coppia, Francis e Katrina. Lei è aperta, di buon carattere, forse fin troppo innamorata di suo marito. Lui è duro, sicuro di sé, decisamente dominante nella relazione, quando non prevaricante. Il classico maschio alfa abituato a non essere messo in discussione, a ottenere quello che vuole, a relazionarsi con arroganza con il prossimo.

Eppure. Eppure tutta la sua sicurezza, tutta la sua presunzione, tutta la sua spocchia spariscono di colpo quando si trova immobile e incapace di reagire di fronte ad un aggressore che scippa e molesta sua moglie.

L’incapacità di agire, la sostanziale inettitudine di Francis di fronte ad una situazione di necessità mandano completamente in crisi tutte le sue certezze e le sue presunte autoconsapevolezze.

Comincia così una spirale discendente di azioni e di scelte dettate da un non meglio identificato desiderio di rivalsa, prima di tutto di Francis su se stesso.

Molto mediocre, nel complesso.

Al di là dell’antipatia istintiva che si prova per il protagonista, e dall’impiego eccessivo di luci probabilmente naturali e molto basse, le dinamiche che dovrebbero essere di un thriller ci sono ma sono sfruttate male perché i tempi si dilatano e la tensione si perde anche nei pochi punti in cui si crea.

Si capisce quali sono le intenzioni ma, in generale, pare un po’ un’occasione sprecata.

  1. Regia di Richard Quine. Sezione Non dire gatto…

Con James Stewart, Kim Novak, Jack Lemmon.

Titolo italiano: Una strega in paradiso.

Le vicissitudini di Gil, una strega che vive, in incognito, a New York e che sogna una storia d’amore con il vicino di casa. Grazie ad un incantesimo – eseguito attraverso il gatto Cagliostro (Pyewacket in originale), un bel siamese dagli occhi azzurri e dai comportamenti più che umani, la relazione sentimentale ha inizio.

Una commedia adorabile e spassosissima.

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In concorso. Regia di Michael Pearce.

Ambientato sull’isola di Jersey.

Mall è un’adolescente irrequieta che mal sopporta la madre oppressiva e il contesto iper borghese in cui si inserisce la sua famiglia.

Annoiata da una festa di compleanno fatta più per la forma che per lei, Mall pianta in asso tutti, se ne va a ballare per conto suo e passa la notte fuori. Prima di rientrare si imbatte in Pascal. Pascal che è tutto tranne che borghese. Che fa lavori artigianali. Che caccia di frodo. Che non si sa vestire per il Country Club e ha un odore che non piace alla madre di Mall.

Pascal che ha dei precedenti e che finisce tra i sospettati per una serie di omicidi di ragazzine che stanno tormentando l’isola.

Mall se ne va di casa e sceglie Pascal, nel quale trova risonanza il suo lato più cupo e inquieto.

Ma chi è veramente Pascal? E soprattutto. Chi è veramente Mall?

Un buon thriller, marcatamente psicologico che coinvolge e crea fin da subito forte empatia per i personaggi.

Una lieve virata verso l’interpretazione simbolica (almeno così mi è parso) mi ha lasciato un dubbio sul finale ma non eccessivamente determinante per l’impressione complessiva del film.

Mi è sembrato di capire che in sala non sia piaciuto granché ma personalmente non l’ho trovato affatto male.

Bravissima Jessie Buckley nel ruolo di Mall.

Sezione TFFDOC. Regia e interpretazione di Claude Lanzmann.

Ogni anno non ho cuore di escludere del tutto la sezione TFFDOC dal mio programma e ogni anno mi riprometto di non cascarci più.

Non lo so, magari sono io che non son fatta per i documentari.

Questo qui, per carità, non è che sia brutto o fatto male. Però, tanto per cominciare, avrebbe dovuto durare la metà.

Lanzmann è stato un rappresentante francese nella prima delegazione europea occidentale in Corea del Nord, nel 1958.

Se l’inizio ha una prospettiva più storica e di ampio respiro – ed è quindi più interessante – i restanti due terzi del film sono incentrati sull’incontro di Lanzmann con una bella infermiera coreana che porta i segni del Napalm.

Che di per sè ci potrebbe anche stare. Se non fosse che il racconto diventa via via più dispersivo, ripetitivo, scollegato. Quasi un po’ senile, per certi versi. Che è vero che stiamo ascoltando un ricordo però si ha la sensazione di materiale grezzo un po’ buttato lì senza organizzazione.

In concorso. Regia di Jun Tanaka.

Mah. In teoria dovrebbe trattarsi di un horror. In pratica sì, ci sono i fantasmi, ma penso di essermi imbattuta negli unici fantasmi giapponesi che non mi hanno spaventata neanche un po’.

E in ogni caso, tolti detti fantasmi, non ha nulla del canone dell’horror, orientale o occidentale che sia.

Un ombrello rosso che cade dal cielo. Un incontro. Lui vede i fantasmi mentre lei no.

Molta simbologia dell’incomunicabilità di coppia in chiave teen-movie, un po’ di spunti da fumetto e qualche idea carina.

Alla fine gli ho dato il mio biglietto solo perché mi spiaceva la fastidiosa e ostentata disapprovazione/noia che regnava in sala e che mi è parsa oltremodo scortese.

Nel complesso ha delle idee interessanti ma mi ha lasciata piuttosto perplessa. E anche un po’ addormentata in verità.

Sezione After Hours. Scritto, diretto e interpretato da Ana Asensio.

Una bella ragazza con un passato doloroso e difficoltà economiche riceve una misteriosa offerta di lavoro. Deve andare ad una festa con un vestito nero corto, tacchi e niente borsa. Non deve fare niente. Solo essere lì. E per questo verrà pagata profumatamente.

80 minuti per un piccolo, bellissimo esempio di come low budget non sia sinonimo di sciatteria/povertà e di come bastino pochissimi dettagli ben piazzati e ben scelti per connotare in modo profondo un personaggio o una situazione.

In particolare, proprio la connotazione di Luciana, è un capolavoro di rapporto efficiente tra minimo di dettagli e massimo di complessità.

Molto ben costruita la tensione intorno alla festa.

E ottima la scelta di non voler strafare con finali o spiegazioni eccessivamente elaborate e allusive che sarebbero rimaste inevitabilmente e stupidamente aperte.

Una struttura essenziale e completa in ogni dettaglio.

Un film semplice ma che funziona alla perfezione. Originale, pulito, intelligente.

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Sezione Festa Mobile.

Regia e sceneggiatura di Talylor Sheridan, già sceneggiatore di Sicario e Hell or High Water, a conclusione di quella che può essere considerata una sorta di trilogia ideale.

Protagonista è Cory Lambert, un Jeremy Renner come sempre a suo agio in ruoli di armi e sopravvivenza. Cory è un cacciatore che vive e lavora nella riserva indiana di Wind River, nelle terre grandi e fredde del Wyoming. Un giorno si imbatte nel cadavere di una ragazza e a risolvere il caso, in aiuto alle autorità locali, viene inviata la giovane agente dell’FBI Jane Banner (Elizabeth Olsen), di buona volontà ma piuttosto impreparata a muoversi in quei luoghi. Cory si trova così ad aiutarla nelle indagini per risolvere un caso che risveglia in lui dolori sepolti e che lo vede particolarmente coinvolto a causa dei suoi legami con la comunità indiana.

Un buon thriller, duro e teso, che ricorda a tratti i toni di Cold in July o della Promessa.

Forse non originalissimo nella connotazione dei personaggi ma indubbiamente un buon film.

Regia di Tomás Espinoza. In concorso.

Protagonista è Germán, preside di una scuola superiore. Ogni giorno Germán gira per l’istituto controllando gli zaini dei ragazzi per evitare che venga introdotto qualcosa di pericoloso. Generalmente si sottopongono tutti di buon grado alla routine della perquisizione degli zaini ma un giorno Cata, una ragazza problematica, scappa cercando di nascondere qualcosa che si rivela poi essere una siringa con cui la ragazza pratica delle iniezioni nelle labbra delle compagne. Cata è piuttosto abbandonata a se stessa e Germán si trova a doversi occupare di lei in attesa di rintracciare i familiari.

Le telecamera sempre molto addosso ai protagonisti – in particolare a Germán – come se si stesse osservando la scena da sopra le spalle, rende in modo molto intenso e diretto la forte emotività delle situazioni.

Il peso della responsabilità e della contraddittorietà latente tra pensiero e azione. Sconfitta o riscatto? Resa o consolazione?

Un film essenziale, asciutto, ben calibrato e con buoni interpreti.

Regia di Graham Skipper. Sezione After Hours.

Piacerà ai (nerd) nostalgici degli anni Ottanta, per i quali pare confezionato apposta.

Oz lavora in un negozio di riparazioni di videogiochi vintage. Non il classico lavoro che ti copre di soldi ma buono per chi, come Oz, sia realmente appassionato. Un giorno gli capita per le mani uno strano videogioco che comincia ad esercitare una potente influenza su di lui. Parallelamente Oz incontra Tess, che, incredibilmente, sembra essere finalmente la ragazza per lui.

Colonna sonora degna di tutti i predecessori del filone e una grafica che ricorda non poco certe sequenze di Tron (quello del 1982).

Una velata vena simbolica (l’inizio di una relazione vera in contrasto e in parallelo con l’attrazione morbosa e terrorizzante esercitata dal videogioco) ma soprattutto la commistione della fisicità uomo-macchina in perfetto omaggio al Cronenberg di Videodrome ed eXistenZ, con tanto di effetti speciali anch’essi piuttosto vintage.

Forse è un po’ debolino di trama, e anche di scioglimento, a voler essere onesti, ma ha il buon senso di evitare l’assurdo e tiene comunque un filo logico. Avrebbe potuto osare un po’ di più e sfruttare più a fondo alcuni spunti, ma nell’insieme non è male.

Regia di Marleen Jonkman. Sezione Festa Mobile. Titolo originale La Holandesa.

Una coppia. Un viaggio in Sudamerica. Il fantasma di una gravidanza che non vuole saperne di arrivare. Dopo l’ennesimo litigio per questo motivo, Maud lascia il marito e se ne va, da sola e senza una meta precisa.

Un viaggio che è fuga e ricerca. Una ricerca totale e ossessiva della maternità.

Il film mi è piaciuto. Il personaggio di Maud un po’ meno perché anche l’empatia che suscita trova un ostacolo nella sua ricerca che soffoca e annulla qualunque altro aspetto della sua vita. A partire dal matrimonio. Dalla relazione con un uomo che la ama ma che non è abbastanza. Maud scappa all’inseguimento di una maternità a tutti i costi. Ma veramente tutti. Al punto di accettare anche una maternità rubata. Una maternità presa in prestito.

Un’ossessione di cui neanche lei è in grado di indagare le motivazioni ma che è puro istinto. Estremo egoismo? Anche. Forse. Ma non racconta tutta la storia.

Sulla strada di Maud c’è Messi, un ragazzino che si fa chiamare col nome del calciatore e che accompagnerà Maud per un po’ in un viaggio sospeso, fuori dai canoni.

Un buon film. Toccante ma senza essere stucchevole. Coinvolgente e ben costruito.

 

E ancora. Questo è il trailer del film vincitore del 35TFF (non sono riuscita a trovare una versione sottotitolata in inglese che funzionasse).

E QUI tutti i premi di questa edizione.

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Fresco fresco dal Festival, vi propongo quest’horror irlandese che ho inserito nel mio programma piuttosto alla cieca (come parecchie altre cose se è per questo – diciamo che ho visto scritto zombie e ho detto ucchebelloloprendo.) ma che si è rivelato una gradita sorpresa.

E gli dei benedicano sempre e sempre  conservino la sezione After Hours.

Regia di David Freyne.

In Irlanda si è scatenata un’epidemia. Un virus che trasforma gli uomini i zombie. Fortunatamente l’infezione è stata contenuta e non è uscita dai confini dell’isola. Sempre fortunatamente, si è riusciti a trovare anche una cura.

Cura che, per quanto efficace, presenta però due inconvenienti di una certa rilevanza: a) non è efficace sul 25% degli infetti e b) su coloro per i quali invece è efficace, non cancella la memoria.

In pratica, gli zombie che ritornano umani ricordano tutto quello che hanno fatto da zombie. Ma proprio tutto. E se subito non si realizza la portata di questa implicazione, pensate un po’ come sarebbe ricordare di essersi mangiati la mamma o un parente prossimo.

I curati, una volta accertata la guarigione, sono pronti per essere reintegrati in società ma la faccenda è tutt’altro che semplice.

Da un lato loro stessi hanno problemi a convivere con quello che ricordano di aver fatto. D’altro canto la società non li rivuole indietro. E a poco serve ribadire che quando si è infetti non si è coscienti o consapevoli. La maggior parte delle persone non vuole indietro quelli che ormai reputa dei mostri. I familiari superstiti rifiutano di offrire ospitalità a qualcuno che probabilmente è responsabile della morte di qualche altro membro della famiglia.

Il quadro che si delinea è agghiacciante e le dinamiche comportamentali della massa riproducono alla perfezione tutte le declinazioni della discriminazione del diverso. I curati fanno paura. E ciò che spaventa non ha mai vita facile.

Senan (Sam Keeley) è stato curato e ha la fortuna di venire ospitato da Abbie (Ellen Page), la moglie del suo defunto fratello, che ormai vive sola con il figlio di 8-9 anni.

Senan è diviso. Tra ciò che è e ciò che è stato. Tra ciò che non può dire a Abbie e il suo desiderio di proteggere lei e suo figlio. Tra il desiderio di andare avanti e la voce del suo amico Conor. Che non è stato fortunato come lui. Che viene rifiutato dal padre. Che da avvocato è diventato spazzino. Che continua a parlare di ingiustizia e vendetta.

The Cured è un ottimo horror che parte dal canone tradizionale del genere zombie, ci inserisce in mezzo una buonissima idea nuova e riesce a farla funzionare senza farsi prendere la mano e mandare tutto all’aria.

Se per molti versi non è originale – l’ambientazione ricorda tantissimo 28 giorni dopo e il modo di interagire degli infetti ricorda quello di I am legend, tanto per fare due esempi al volo – resta il fatto che l’idea della memoria rimasta e della reintegrazione sociale è dannatamente buona. E, per quel che mi risulta, anche nuova, per lo meno in questi termini.

Il cast è buono, in particolare è bravo Sam Keeley, che spicca di più di una Ellen Page non male ma, onestamente, non proprio memorabile.

Trucco ed effetti dosati con parsimonia. Più sangue che non splatter vero e proprio.

Un buon ritmo, filoni di trama ben definita e cura nel non sciupare l’idea di partenza.

In definitiva uno degli zombie-movie più intelligenti dell’ultimo decennio, se non di più.

Consigliatissimo.

Imdb.

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Bellissimo.

Probabile candidato ai prossimi Oscar per la Corea del Sud.

Regia di Hun Jang, basato su fatti reali.

Siamo tra il 18 e il 20 maggio del 1980, durante quella che fu la rivolta di Gwangju, poi sfociata in un sanguinoso massacro ad opera delle autorità coreane.

Jurgen Hinzpeter, un giornalista tedesco, senza dichiararsi come tale, riesce ad entrare a Seul e cerca un modo per raggiungere la zona dove si vocifera siano in atto delle rivolte che paiono concentrarsi intorno alla città di Gwangju.

Non c’è niente di certo e non c’è modo di verificare quello che si sente dire perché il regime coreano ha tagliato tutti i collegamenti di Gwangju con il resto del paese. Niente linee telefoniche. Niente stampa. E i notiziari sono rigorosamente di regime.

In quei giorni la Corea viveva la dittatura di Chun Doo-hwan ed era un paese dove era possibile non sapere cosa stesse succedendo a duecento chilometri di distanza. Dove Seul e Gwangju potevano essere effettivamente due pianeti diversi. Se ti affidavi ai notiziari potevi al massimo sentire di come i bravi soldati coreani difendessero l’integrità della patria dalla minaccia dei giovani estremisti comunisti.

Kim Man-seob è un tassista di Seul. Vedovo, con una figlia piccola, cura il suo taxi come un gioiello e svolge il suo lavoro con dedizione. E’ un uomo buono e semplice. Pensa che gli studenti perdano tempo a protestare e che, in fin dei conti, non ne abbiano motivo perché vivono in un bel paese.

Fatica a star dietro alle spese e a pagare l’affitto, motivo per cui, quando sente per caso lo stralcio di conversazione di un altro tassista che fa cenno ad un compenso altissimo per portare uno straniero da Seul a Gwangju non ci pensa due volte a soffiargli l’incarico. Non sente la parte sul fatto che quello che dovrà fare sarà cercare di penetrare una zona vietata e, al momento, ad altissimo rischio.

Sullo sfondo di una situazione sempre più estrema e drammatica, prende forma il curioso rapporto che si instaura tra Kim e Hinzpeter, che quasi non si capiscono e reciprocamente si esasperano in un susseguirsi di malintesi.

La prima parte del film è leggera, sinceramente spassosa. Il tono cambia gradualmente man mano che si delinea la reale portata di ciò che sta succedendo intorno.

Le autorità impiegano poco ad identificare un giornalista straniero entrato illegalmente e un tassista di Seul e impiegano ancora meno a tentare di eliminarli.

L’unica speranza di far sapere al mondo quello che sta succedendo lì è che Hinzpeter riesca a lasciare la Corea con i suoi filmati.

Con i suoi filmati dell’esercito che spara ai civili. Dell’esercito che spara ai feriti. Dell’ospedale pieno di morti e feriti. Ragazzi, donne, anziani. Non fa differenza. Vengono massacrati tutti senza pietà.

A Taxi Driver è un film ricchissimo. Di raro equilibrio e intensità. Vengono gestiti con estrema naturalezza sia i toni della commedia – a tratti un po’ buddy movie – sia quelli del dramma e, cosa importantissima, viene gestito bene il momento di passaggio, dove l’ironia e la tragedia coesistono in modo contrastante eppure armonico.

Commovente senza essere né sentimentale né scioccamente eroico, divertente e toccante.

Kang-ho Song, nel ruolo di Kim, il tassista, offre una parte intensa e perfetta nella sua graduale evoluzione dall’ingenuità alla consapevolezza. Dalla fiducia al dolore per il tradimento profondo dello spirito di una nazione.

Nei panni di Hinzpeter troviamo un Thomas Kretschman particolarmente invecchiato e, di per sé, neanche troppo in forma. Diciamo che fa la sua parte ma non è sicuramente la sua recitazione a costituire un tratto distintivo del film.

Ripeto. Bellissimo. Mi auguro davvero che arrivi in distribuzione nelle sale.

Imdb.

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Molto soddisfatta di questa mia prima giornata di festival, ho realmente faticato a scegliere da cosa cominciare a parlare perché i cinque film di oggi mi sono piaciuti tutti, seppur per motivi e con declinazioni differenti.

Alla fine ho optato per l’ultimo della giornata e per la mia amata Isabelle.

Barrage. Regia di Laura Schroeder.

Tre generazioni rappresentate da due donne e una bambina.

Madre, Elizabeth – Isabelle Huppert, figlia, Catherine – Lolita Chammah (realmente figlia della Huppert), nipote, Alba – Thémis Pauwels.

Non tanto un confronto generazionale quanto piuttosto una lunga incursione nell’ereditarietà del conflitto.

Elizabeth fa da madre a sua nipote per compensare la mancanza di Catherine. Si occupa di lei praticamente da sempre.

E poi, un giorno, Catherine ricompare nella vita di Alba e prova – per quello che pare essere un secondo tentativo – a trovare un modo di farne parte.

La tensione è palpabile tra le tre donne. Tra Elizabeth e Catherine si percepisce il disagio prima ancora del loro primo effettivo incontro.

Per contro, Alba rifiuta la presenza di quella donna di cui ricorda solo la predisposizione ad andarsene. Di cui ricorda solo l’assenza.

Rancori covati per anni e mai espressi. Recriminazioni e ricordi che pesano come macigni. L’incapacità di parlare e il peso schiacciante di non detti lunghi una vita intera.

Gli errori che si ripetono e i conflitti irrisolti, destinati a passare come un’eredità stantia da una generazione all’altra.

Il peso della dedizione. Il prezzo dei legami. Fantasmi che non si riescono a chiudere fuori.

Ottima come sempre Isabelle Huppert in un ruolo comunque più marginale. Vera protagonista è Lolita Chammah che si dimostra perfettamente a suo agio nella parte anche se è inevitabile il confronto con la madre dalla quale la separa ancora parecchio lavoro/esperienza/talento.

Degna di nota Thémis Pauwels che si muove con naturalezza tra le due attrici fornendo loro una controparte perfettamente all’altezza.

Doloroso, intenso ma non drammatico, tiene il filo dei ricordi teso, lascia spazio all’introspezione ma si ferma prima di diventare sentimentale. Essenziale e ben strutturato nei tempi e negli spazi d’azione.

Non so se e quando arriverà nelle sale. In ogni caso, molto consigliato.

Cinematografo & Imdb.

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Tempo di programmazione e di sane maratone cinematografiche (e di ferie che-non-ho-ma-fa-lo-stesso per riuscire a farle, queste maratone).

Quest’anno anche la cerimonia di apertura sarà solo a inviti, come già era per la chiusura, e ovviamente la cosa non può che contrariarmi.

Anyway.

Il film d’apertura.

Arriverà nelle sale il 4 gennaio 2018.

E il film di chiusura.

Quest’ultimo dovrebbe arrivare intorno a marzo 2018 e mi pare molto interessante.

Il festival va dal 24/11 al 2/12 il che significa che dalla prossima settimana – da martedì suppongo – cominceranno i post a tema.

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