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Archive for the ‘Nobel’ Category

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I premi Nobel sono quella cosa su cui la proprietaria del blog è molto ignorante.

Anche limitandomi solo a quelli per la letteratura, io ci provo tutti gli anni a seguirli in modo sensato ma inevitabilmente esce fuori un nome che non ho mai sentito.

Morale che ne ho letti molto pochi e in ogni caso post premio.

Non fa eccezione quello del 2015 a Svetlana Aleksievič, autrice bielorussa, considerata una delle maggiori giornaliste e scrittrici contemporanee.

Ho spulciato i suoi titoli – pubblicati in Italia da edizioni e/o – e ho scelto Preghiera per Černobyl’, uscito per la prima volta nel 1997 e edito in Italia nel 2002.

Ho scelto questo perché probabilmente tra gli argomenti che affronta nei suoi libri, è quello con cui mi pareva di avere maggior dimestichezza. Perché di Černobyl’ mi ricordo anch’io. Ero piccola ma ricordo i miei che ne parlavano. Oltre ovviamente ad una parte di ricordi indotti da quello che si sente dire, si legge, periodicamente viene ricordato, magari strumentalizzando e stigmatizzando il tutto in sede di discussione pro o contro il nucleare.

Pensavo di sapere qualcosa di Černobyl’.

La realtà è che non sapevo niente di niente.

Certo, le macro tappe del disastro sono note a tutti e la sua ricostruzione sommaria si può trovare ovunque in rete.

La scarsa preparazione tecnica a monte. La rapida diffusione delle radiazioni. Danni trasmessi alle generazioni future. Malformazioni, tumori, cibo contaminato, pioggia radioattiva e l’insalata che era meglio non mangiare, anche da noi. E i rischi troppo alti. E via così, insomma.

Verità, certo. Ma una verità che è una parte infinitesimale di una realtà di cui si sa poco o niente. Di cui non si è parlato e non si parla.

Il disastro fa notizia. La paura immediata di conseguenze punta i riflettori sullo scenario della catastrofe quel tanto che basta a rassicurare le coscienze di essere sufficientemente lontani. Come per Fukushima, nel 2011. (Tra l’altro la nuova edizione di questo libro ha una nuova introduzione dell’autrice scritta dopo Fukushima).

Poi tutto rientra nella normalità.

Preghiera per Černobyl’ è una raccolta di testimonianze di coloro che hanno vissuto il disastro in prima persona.

A dieci anni di distanza dall’incidente del reattore 4, la Aleksievič ha viaggiato in lungo e in largo per quei luoghi raccogliendo ricordi, stralci di esistenze, impressioni, emozioni, dati.

E quello che emerge è qualcosa che mi ha colto impreparata.

Perché c’è il disastro, certo, in primo piano.

Ma alle sue spalle prende vita e forma il quadro di un paese e di un contesto storico-sociale che per certi versi amplifica le proporzioni della catastrofe.

E’ una mentalità radicatamente sovietica, quella che (non)elabora Černobyl’. E’ un popolo votato al bene comune, all’obbedienza e al sacrificio, quello che affronta le conseguenze di qualcosa che non sa capire.

Le autorità da un lato non erano preparate tecnicamente ad affrontare l’incidente, dall’altro, anche avendo i mezzi, anteponevano sempre e comunque l’immagine del regime alla sicurezza delle persone.

Per dire, non si potevano diffondere i reali dati di contaminazione perché si sarebbe scatenato il panico. Il popolo andava rassicurato.

E così i soldati, il personale, i liquidatori, reclutati nell’immediato per cercare di limitare i danni.

I primi pompieri ad essere chiamati a spegnere l’incendio sul tetto del reattore son stati chiamati come per un normale incendio. Non è stato dato loro nulla per proteggersi (anche se non sarebbe comunque servito).

Le autorità organizzavano le missioni ragionando in termine di elementi sacrificabili. Si calcolava quante vite sarebbe costato andare a lavare o interrare una zona.

A un certo punto si è profilato il pericolo di un’esplosione atomica e l’esigenza, per scongiurarla, di svuotare il serbatoio d’acqua sotto il reattore; se la massa fusa di uranio e grafite fosse sprofondata nell’acqua si sarebbe innescata una reazione di fissione incontrollata. Ci sarebbe stata un’esplosione da tre a cinque megaton. Non solo Kiev e Minsk sarebbero state ridotte a un deserto senza vita, ma gran parte dell’Europa sarebbe diventata inabitabile.

Han cercato dei volontari che si immergessero nel serbatoio per azionare la valvola di svuotamento. Li han trovati subito. Nessuno sa nulla di loro. Nessuno ricorda i loro nomi.

E l’insensatezza delle operazioni per cercare di rimediare a qualcosa di irrimediabile. Per dare ed avere l’illusione del controllo. Di poter fare qualcosa.

Le case e le strade lavate. La profilassi a base di ioduro di potassio. L’interramento di interi villaggi.

Sotterravamo la foresta. Segavamo gli alberi in pezzi da un metro e mezzo, li impacchettavamo in fogli di plastica e li seppellivamo in fosse.

E le persone.

Una popolazione contadina, reduce dalla guerra. Abituata al regime. Abituata ad avere paura di un nemico armato. Abituata all’idea di patire la fame. Ecco, questa popolazione non la capiva l’evacuazione. Soprattutto le persone anziane, non capivano perché mai, di punto in bianco non potessero mangiare la roba che nel loro orto cresceva così bene. Loro non la vedevano questa radiazione, non faceva loro paura. Avevano lavorato i loro campi, non volevano lasciare tutto in malora.

Chi ci è riuscito, si è opposto all’evacuazione.

Molti di coloro che sono stati evacuati a forza, sono ritornati dopo poco tempo alle loro case – se non erano state distrutte – perché non avevano altro posto dove andare.

Vastissime aree della zona contaminata sono attualmente abitate.

Queste persone ricordano gli orrori della guerra – e non stiamo parlando solo del fantasma della seconda guerra mondiale ma anche di tutta una serie di conflitti seguiti al disfacimento dell’URSS dei quali si sa poco o niente.

Queste persone non riescono a percepire Černobyl’ come un pericolo. Anzi. Vivono nelle zone evacuate e sperimentano per la prima volta una libertà e una sicurezza che non conoscevano. Hanno cibo in abbondanza e nessuno che venga a dir loro cosa fare o non fare.

E anche per chi invece cerca di comprenderla, Černobyl’, il percorso è tutt’altro che semplice.

Perché Černobyl’ è stata l’apocalisse della coscienza sovietica. Era qualcosa che nessuno, in nessuna parte del mondo, era pronto a capire, e meno che mai il popolo cui è toccata.

E’ stato il disastro di ideali politici, scientifici, storici. E’ stato un tassello importantissimo nella disgregazione dell’identità sovietica.

E’ stato il catalizzatore di una miscela di inadeguatezza tecnica, istituzionale ma anche (soprattutto) psicologica ed emotiva.

Il popolo di Černobyl’ è un mondo a parte per tante ragioni. E’ la vittima di un sacrificio insensato e forse impossibile da capire fino in fondo.

Preghiera per Černobyl’ ha una costruzione perfetta e impeccabile.

E’ un frammento di una realtà sconosciuta riportato a noi grezzo e spogliato da false retoriche.

E’ un coro di voci dal passato – il 26 aprile di quest’anno saranno trent’anni. Ma forse anche dal futuro.

Noi ci preparavamo alla guerra, alla guerra nucleare, costruivamo rifugi antiatomici. Pensavamo di trovare riparo dall’atomo come ci si protegge dalle schegge di un obice. Ma questo è dappertutto…Nel pane, nel sale…Respiriamo la radiazione, mangiamo la radiazione…Ero arrivato a concepire che pane e sale potessero anche mancare del tutto, e che si potesse arrivare a mangiare qualsiasi cosa, addirittura a far bollire una cintura, per sentirne l’odore, per cibarsi del suo odore. Ma questo no…E’ tutto quanto avvelenato? L’importante adesso è capire come continuare a vivere.

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