L’altra settimana ho finito Hunger Games di Suzanne Collins.
Non lo so…
Sulla fascetta apposta sulla sovraccoperta sono riportati alcuni “giudizi famosi” tra i quali spicca: “un libro che dà assuefazione” S. King. E se lo zio Steve ne è rimasto assuefatto chi sono io per non precipitarmi a leggerlo? E così ho fatto.
In effetti Hunger Games è un libro che prende. Su questo niente da dire. Si legge in fretta, ha una prosa che potrebbe essere migliorata un tantino (magari rendendola un po’ meno scolastica) ma ti tiene comunque attaccato alle pagine – soprattutto nella parte centrale che è un susseguirsi di colpi di scena.
L’idea non è originalissima ma questo di per sè può non voler dire assolutamente nulla. Alla fin fine nessuna idea è veramente originale. L’originalità, nella maggior parte dei casi, è competenza del come le idee (anche quelle più standard) vengono realizzate. Secondo me, ovviamente.
L’idea, dicevamo. Ennesima variazione sul tema “degenerazione del reality”. Ancora prima. Ennesima variazione sullo stato totalitario e onniveggente che ha potere di vita o di morte sui suoi sudditi. Ma il centro rimane comunque il reality. Gli Hunger Games, appunto.
In questa versione del futuro gli Stati Uniti non esistono più. Esiste invece Capitol City che governa altri dodici distretti. Ogni anno ha luogo la Mietitura, cerimonia con la quale vengono estratti a sorte due tributi per ciascun distretto: un ragazzo e una ragazza tra i 12 e i 18 anni che dovranno partecipare agli Hunger Games, un reality in cui il vincitore è l’ultimo sopravvissuto.
Echi di Concentramento di Amélie Nothomb. E non mancano neanche i precedenti cinematografici incentrati su qualche gioco/sport di stato le cui regole prevedono di ammazzare gli avversari: La decima vittima (1965) di Elio Petri con Mastroianni e la Andress, Rollerball (1975) di Norman Jewison, e anche Death Race 2000 di Paul Bartel.
In ogni caso, a lasciarmi perplessa è stato il finale. Un po’ per la fine in sè che risulta un filo scontata (come anche le dinamiche tra i due protagonisti) ma più che altro perchè sembra affrettata apposta per lasciare l’apertura ai libri successivi. Ecco. Di questo non mi ero accorta quando l’ho comprato. E’ anche questo il libro primo di non si sa quanti, anche se si può supporre di tre. Cosa di cui non si sentiva assolutamente il bisogno. E’ una storia che poteva benissimo essere conclusa in sè anche perchè non ha, secondo me, le potenzialità per reggere troppi ulteriori ampliamenti. Ma, tant’è…pur senza nulla togliere alle saghe e alle trilogie (che io per prima divoro convulsamente) pare che adesso anche la lista della spesa vada scritta almeno in tre parti…