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Archive for the ‘Under Electric Clouds’ Category

Post cumulativo, come avevo preannunciato.

Anche perché non è pensabile che dedichi un post ad ogni film che ho visto in questi giorni, a meno che non voglia andare avanti per un mese solo a base di tff, ma al tempo stesso mi dispiace non dire neanche due parole su tutti quanti.

In generale, direi che è stata una buona annata per quel che riguarda la mia selezione perché su sedici film – alcuni dei quali scelti proprio un po’ a occhi chiusi – ne ho beccati solo due che non mi hanno detto granché. E nemmeno uno che non mi sia piaciuto in modo categorico (per dire, non sono incappata in nulla che mi abbia provocato attacchi di odio come N-Capace l’anno scorso).

Un breve giro su Imdb mi conferma quel che temevo e cioè che nessuno dei film che seguono arriverà nelle sale. Di certo non in Italia ma nemmeno in altri paesi. Tristezza.

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Nasty Baby. U.S.A. Regia di Sebastiàn Silva.

Freddie e Mo sono una coppia che sta cercando di avere un figlio con l’aiuto di Polly, la loro più cara amica. La gravidanza non arriva subito, nonostante i ripetuti tentativi. Risulta che Freddie non è adatto come donatore e sarebbe forse più semplice provare con Mo. Tensioni e frustrazioni all’interno di una relazione a tre atipica, che ha tutte le carte in regola per funzionare in un sistema isolato ma che si trova a scontrarsi con continue pressioni che arrivano dall’esterno. La famiglia di Mo, che evidentemente non ha ancora accettato del tutto la sua omosessualità. L’inevitabile giudizio sociale cui viene sottoposta l’idea stessa di una famiglia con tre genitori. Lo strano vicino di casa squilibrato, che mette a dura prova l’emotività dei tre. E l’incombente presenza di un baratro in cui si può sprofondare da un momento all’altro.

Nel complesso è un film interessante. Forse qualcosa avrebbe potuto essere fatto meglio e magari qualche parte è un po’ lenta, ma il rapporto tra i tre protagonisti è reso benissimo la storia risulta coinvolgente.

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Under Electric Clouds. Russia/Ucraina/Polonia. Regia di Alexey German Jr.

Costruzione per episodi. Sette capitoli. Un grattacielo incompiuto. Storie e personaggi che partono da punti lontanissimi e finiscono per intrecciarsi, in modo più o meno accidentale. L’idea dell’affresco mi piace a prescindere, forse per questo mi aveva attirata.

In realtà mi è pesato parecchio. Non so, forse se fossi russa l’avrei capito meglio.

Non mi sento di dire che è brutto perché si vede che c’è del mestiere. C’è tecnica e c’è sostanza. E c’è tutta la disillusione di una Russia che affonda nelle macerie delle sue speranze e contempla il cadavere del suo futuro al di là di ogni possibilità di redenzione.

Però non mi ha coinvolto. Ho faticato a seguirlo e mi ha lasciata piuttosto distaccata.

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Evolution. Francia/Spagna. Regia di Lucile Hadzihalilovic. Esterni girati a Lanzarote, che non necessita di alcun intervento perché già di suo sembra un posto fuori dal tempo e dallo spazio.

E la dimensione è quella. Fuori dal tempo e dallo spazio.

Mare. Rocce nere. Piccole case bianche e tutte uguali. Bambini. Tutti maschi. Giovani donne diafane e tutte uguali.

Ritmi scanditi dal nulla. Ripetizione metodica e instancabile delle stesse azioni. E una medicina per i bambini. Per rinforzarli in vista del cambiamento del loro corpo.

Nicolas però non è come gli altri. Disegna cose che sull’isola non ci sono. Vede che le donne la sera li lasciano soli e si radunano. Cosa fanno? E cosa succede nella strana clinica in cui i bambini vengono ricoverati senza motivo apparente?

Dai giudizi in sala mi è parso di capire che questo film non è piaciuto quasi a nessuno. Io l’ho adorato. Inquietante, visionario, bellissimo. Terribile nella sua risoluzione, angosciante e liquido nelle sue immagini pure e ipnotiche.

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Lo scambio. Italia. Regia di Salvo Cuccia.

Anni Novanta. Sicilia. Una coppia di mezz’età che affronta una crisi. Due ragazzi freddati al mercato. Un’indagine e un bambino rapito. Mafia. Violenza. Equilibri di potere.

Recitazione non particolarmente degna di nota, così come gli attori. Il dialetto salva buona parte dei dialoghi perché rendendo la parlata più fortemente connotata sopperisce alle pecche di interpretazione.

Buona l’idea di fondo di costruire un quadro, per così dire, al contrario. Perché nulla cambia ma ad un certo punto si capisce che nulla è come era apparso. Tutti i ruoli sono invertiti, la prospettiva ribaltata, il senso sradicato dalle fondamenta.

In realtà non ho ancora capito se mi è piaciuto o no e non l’ho votato come pubblico. Però era interessante.

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Interruption. Grecia. Regia di Yorgos Zois. Presentato anche a Venezia quest’anno.

Una compagnia teatrale sta mettendo in scena una versione postmoderna dell’Orestea. Ad un certo punto il coro – nelle vesti di un solo attore – interrompe lo spettacolo e comincia a coinvolgere attivamente alcuni spettatori.

Comincia così una sorta di balletto delle prospettive. Attori e spettatori che vedono invertite le loro posizioni. Personaggi e persone che vedono mischiate le loro identità. Teatro nel teatro. Cinema nel teatro. Riprese nei corridoi e voci che si sentono. Inquadrature che non si allargano ma si allontanano fisicamente dal luogo dell’azione. Distanze colmate dalla voce. Quanto lonotano ci si può spingere per guardare? Dove finisce il limite dell’interpretazione? Dov’è il confine tra dentro e fuori dal teatro? Dentro e fuori dalla storia?

Dov’è il confine tra realtà e finzione? Esiste il confine tra realtà e finzione? Elementi classici snaturati eppure immutati. Commistione di elementi e la ricerca di tutte le possibili angolazioni di visione.

Un lavoro sperimentale sull’atto del guardare in sé. Scatole cinesi di occhi che guardano sempre più a fondo o sempre più da lontano. Catarsi? Forse.

Questo è il secondo film che ho faticato a portare alla fine.

Gli attori sono molto bravi e ci sono un sacco di idee tecnicamente molto sofisticate ma non sono riuscita ad entrarci veramente.

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