Da vedere, su questo non si discute.
Non è sicuramente il migliore (o il mio preferito) di Scorsese né tanto meno del binomio Scorsese-Di Caprio ma è a tutti gli effetti un bel film.
Riflettevo sulle motivazioni del mio non eccessivo entusiasmo e penso che in parte (in buona parte) sia dovuto al fatto che il protagonista non mi piace. Mi è antipatico. E probabilmente va anche bene così. Non è un personaggio pensato per piacere ma per ostentare. Soprattutto se stesso. Il che non significa che non sia realizzato in modo impeccabile.
Alla base di tutto c’è l’autobiografia di Jordan Belfort, il Lupo di Wall Street, ampiamente arricchita, romanzata, enfatizzata ben oltre i limiti della plausibilità. E anche questo è un aspetto che va bene così. Perché non è la plausibilità ad essere importante. E’ l’immagine che si forma. E’ il ricordo che si imprime di qualcosa di eccezionale, sia nel successo che nella caduta.
Il film è tutto sopra le righe. Costantemente e ostentatamente eccessivo. In certi momenti sembra quasi di vedere una sorta di Baz Luhrman senza però quell’aspetto teatrale e glamour che rende lo sfarzo di Luhrman inevitabilmente bello. L’eccesso di Scorsese è iperbolico, poco credibile per un buon ottanta percento ma mantiene comunque parametri più reali. Il che implica una consistente componente di grottesco, di squallore anche.
La storia è raccontata in prima persona da Belfort, non semplice voce fuori campo ma vero e proprio protagonista narrante.
Spulciando qua e là tra quello che del film si è detto e scritto, quello che emerge più di tutto è che nessuno perdonerà mai al povero Martin di aver fatto parlare Leo direttamente in camera. Jordan si rivolge direttamente allo spettatore, lo guarda, lo apostrofa, quasi si aspetta da lui una risposta. E dal momento che a Hollywood va ormai di moda condannare senza appello la metateatralità come fino a dieci anni fa andava di moda osannarla senza ritegno, di sicuro questo costituirà l’appiglio a cui si attaccheranno tutti coloro che vorranno denigrare il film come eccessivamente costruito per raccogliere consensi con facili espedienti fintamente creativi.
La realtà è che l’approccio diretto Di Caprio-spettatore non disturba poi particolarmente. Ci sta tranquillamente, si amalgama e viene quasi sommerso da tutto il resto.
Dal punto di vista della storia, se la primissima parte, ambientata proprio in Wall Street, rischiava di risultare persino troppo scontata nel suo sottinteso di estremizzazione di quell’ambiente alternativamente mitizzato e demonizzato, da quando la scena si sposta al di fuori (e Jordan scopre le penny stocks, per intenderci) cambia anche la percezione dei toni esagerati di tutto il contesto. E’ come se il fatto che Jordan debba in qualche modo reinventarsi da sé giustificasse tutto quello che segue.
Festini, soldi, droghe in quantità industriali, soldi, gnocca in quantità ancor più industriali e ancora soldi. Una specie di mondo fuori dal mondo fino all’incursione inevitabile di una realtà più prosaica e noiosa nei panni di un agente dell’FBI.
Ascesa e caduta, parabola classica, tutto sommato, se la si guarda molto da lontano, ma la realtà è che il finale è molto meno scontato di quello che ci si aspetta.
Riferimenti ad altri film disseminati qua e là. Alcuni li ho subodorati ma non sono sicurissima di averli colti.
Menzionato inevitabilmente Gordon Gekko, non foss’altro che per dire ad alta voce che la storia del Lupo non c’entra niente con il vecchio film Wall Street.
Una finezza da regista di alto livello nella scena – grottesca – in cui si discute il trattamento dei nani da lanciare su un bersaglio come intrattenimento: il coro di “li tratteremo come noi” (o simili, non ricordo le parole esatte adesso) richiama il più celebre “l’accettiamo è una di noi” dei Freaks di Tod Browning. E in quel momento devo dire che ho avuto un modo di sconfinato amore per Scorsese.
Di Caprio. Di Caprio è fantastico. Io sono uscita dal film veramente affaticata per lui perché fa una parte sfiancante. Sempre schizzata, sempre al top dell’adrenalina, sempre, costantemente in piena esaltazione chimica. E’ l’ennesima volta in cui si merita in pieno la candidatura all’Oscar. E purtroppo, però, temo che sarà anche l’ennesima volta che non vincerà perché la concorrenza di McConaughey è veramente significativa. Poi, per carità, se vengo smentita non mi dispiace comunque perché sarebbe pur sempre un riconoscimento strameritato – anche se continuo a dire che avrebbero dovuto darglielo per Aviator o Departed.
Tutto questo sempre ragionando su quelli che ho visto finora, perché poi magari arriva 12 anni schiavo e sbanca tutto anche solo per il fatto di parlare di schiavitù&redenzione – ma qui comincio a far polemica prima del tempo quindi mi autocensuro.
Candidatura come non protagonista anche per Jonah Hill, Donnie, l’amico grasso e scemo, il complice fin dall’inizio. Bravo, certo, ma io continuo a tifare per Jared, qui proprio senza neanche pensarci su.
Poi. Se si volesse introdurre una nomination per la Maggior Gnocchitudine suppongo che Margot Robbie si meriterebbe in pieno la statuetta, ma qui si vira verso il demenziale quindi ora concludo.
Piccola parte iniziale proprio per McConaughey che riesce comunque a spiccare per la bravura in quel ruolo assurdo. Lui è un broker in ascesa e porta a pranzo un Jordan Belfort appena sbarcato nel mondo di Wall Street.
Ed è quasi crudelmente ironico, se ci si pensa, vedere Leo a tavola con la persona potenzialmente più titolata a soffiargli l’Oscar da sotto il naso ancora una volta.
Cinematografo & Imdb.
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