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Archive for the ‘W. Shakespeare’ Category

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Sospensione di rito del Weekly Horror causa intasamento da Oscar&Arretrati vari che altrimenti finisco col perdermi per la strada.

Macbeth.

Regia di Justin Kurzel.

Ruoli principali per Michael Fassbender e Marion Cotillard.

Attingere ai classici è un’arma a doppio taglio. Da un lato si ha la garanzia di una soglia minima di interesse da parte del pubblico – che quanto meno è curioso – e di una solida base di partenza in fatto di trama, dall’altro, tanto più è grande il classico e tanto più ci si muove su un campo minato. In termini di aspettative, confronti, rapporto con l’originale.

A ciò si aggiunga che questo discorso è, se possibile, ulteriormente amplificato nel caso di Shakespeare. Perché è un fatto che Shakespeare lo conoscono quasi tutti. O comunque raggiunge, foss’anche solo per sentito dire, una fascia di pubblico estremamente più ampia rispetto ad altri tipi di classici.

Shakespeare è popolare. Non a caso. Lo è adesso perché lo era a suo tempo. E’ nella sua natura.

Quando Christa Wolf ha messo mano a Medea, seppur in forma letteraria, ha raccolto i suoi riscontri in un bacino d’utenza che era sostanzialmente quello della tragedia greca classica. Il che significa, molto ridotto.

Chiunque tocchi Romeo e Giulietta, sempre per fare esempi, si confronterà con le reazioni delle masse. Se poi lo fa come Baz Luhrman ancora di più, ma questo è un altro discorso e ultimamente tendo pericolosamente a divagare.

Ora, Macbeth non è famoso come Romeo e Giulietta ma è comunque una delle tragedie shakespeariane più note. Forse appena meno del Mercante di Venezia. Ne sono state fatte innumerevoli versioni cinematografiche, a partire da quella del ’48 di Orson Wells per passare attraverso quella di Kurosawa del ’57 – forse la migliore in assoluto – e quella di Polanski del ’71, tanto per citare le tre più celebri.

Kurzel si avventura dunque in un ambito delicato e il minimo errore non passerà inosservato.

Sceglie di approcciare l’opera shakespeariana con delicatezza e reverenza.

Mantiene il testo originale quasi immutato – salvo che per alcuni tagli – e decide di accentuare i toni cupi della vicenda attraverso un paesaggio freddo e livido e attraverso l’aspetto provato dei nobili soldati reduci dalle battaglie. Tutta la fatica e il dolore del combattimento sono gridati a gran voce dal sangue che macchia i loro volti e le loro vesti, dai visi tirati, dalle membra stanche.

Il sangue è ovunque. Non solo sulle mani di Macbeth e di sua moglie. E’ ovunque fin dall’inizio, lugubre presagio del destino che si prepara.

Fassbender è impeccabile e riesce a rendere negli sguardi intensi e in una gestualità essenziale tutto il tormento che attraversa nella sua lenta discesa nell’abisso. Non di meno la Cotillard, spietata e bellissima, la cui crudeltà stride con la dolcezza dell’aspetto e la cui forza e lucidità rappresentano anche la sua condanna.

Ambizione e follia e sangue.

Unico neo, se devo dire, le riprese rallentate delle battaglie. E’ pur vero che l’espediente viene usato con moderazione, però era lievemente stonato.

Un po’ di filtro rosso e costumi e trucco non tradizionali (e bellissimi) per Lady Macbeth.

In definitiva, molto molto bello. Da non perdere.

Soddisfazione nel constatare che, nonostante tutto, la sala del cinema si riempie e fa quasi il tutto esaurito.

Una curiosità. Kurzel è anche il regista di Assassin’s Creed, in arrivo per quest’anno, sempre con Fassbender e Cotillard. Prossimamente seguiranno aggiornamenti in materia.

Cinematografo & Imdb.

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Stanotte ho visto una cosa stranissima.

Stavo tornando a casa, in una notte calda e opprimente, come ce ne sono qui, in questo periodo dell’anno, quando la pelle è lustra di sudore e la camicia non si asciuga mai. Avevo suonato il piano nel bar dove lavoro, e nessuno aveva voglia di andarsene, così avevo fatto più tardi di quanto volessi. Mio figlio aveva detto che sarebbe venuto a prendermi in macchina, ma non si era fatto vedere.

Stavo tornando a casa, verso le due di notte, con una bottiglia di birra fredda che mi si riscaldava in mano. Non bisognerebbe bere per strada, lo so, ma che diavolo! dopo aver lavorato nove ore di fila servendo al bar quand’era tranquillo e suonando il piano quand’era affollato… La gente beve di più se c’è la musica dal vivo, è un fatto indiscutibile.

Stavo tornando a casa quando il cielo si è squarciato e la pioggia è venuta giù come ghiaccio, in realtà era ghiaccio: chicchi di grandine grossi come palline da golf e duri come palle di elastico.

Jeanette Winterson per me è sempre amore incondizionato.

Lo spazio del tempo è una riscrittura del Racconto d’inverno di Shakespeare, nell’ambito di un progetto della Hogarth Press (la casa editrice fondata nel 1917 da Virginia e Leonard Woolf) di riscritture shakespeariane ad opera di autori contemporanei. Al momento lei è la prima della serie, che in Italia è pubblicata da Rizzoli.

Trasfigurazione della storia che cambia rimanendo la stessa.

Ogni cosa porta per sempre in sé l’impronta di ciò che è stato prima.

E’ una frase che ricorre. C’era anche ne Gli dei di pietra. Ed è così inequivocabilmente perfetta. Racchiude tutto.

Una storia che rimane intatta attraverso i secoli. Che muta di forma e di aspetto ma che viaggia nel tempo mantenendo intatta la sua sostanza.

Fiabe. Leggende. Varianti. Versioni. Fanfiction.

Parole e vicende che sconfiggono il tempo.

Si fanno beffe della sua presunta irreversibilità.

Forse, in qualche modo, il tempo é reversibile.

Forse esiste un modo di porre rimedio al tempo e alla sua solida e statuaria inamovibilità.

Che cos’è la memoria se non una dolorosa disputa con il passato?

Jeanette prende il testo di Shakespeare, se ne appropria con tutto l’amore di chi nutre una reale passione e lo restituisce alla nostra epoca pressoché intatto nella sua plausibilità.

Lo restituisce in vesti delicate e struggenti. In immagini di una bellezza lancinante. In parole e sentimenti di una purezza primordiale.

La forma atomica del tuo amore.

Lo spazio del tempo è una riscrittura ma non solo. E’ un omaggio umile e garbato. E’ una dichiarazione d’amore per il testo originale e per tutte le parole scritte di questo mondo. E’ una promessa di devozione assoluta alla narrazione.

Le cose importanti capitano per caso.

Lo spazio del tempo è un intreccio di legami che si annodano indissolubilmente sempre più in profondità. C’è Shakespeare ma c’è anche tanta Winterson nei continui richiami alle sue tematiche. Impronte che vengono messe a nudo e legami viscerali che vengono svelati. Corrispondenze e risonanze.

E a noi non è dato di conoscere le vite degli altri, e non è dato di conoscere nemmeno la nostra, al di là dei dettagli che sappiamo tenere sotto controllo.

E Perdita. Che rappresenta una sorta di convergenza nello spazio e nel tempo.

Perché è la perdita la misura dell’amore? era l’incipit di Scritto sul corpo. Qui non viene ripetuta esplicitamente questa domanda – anche perché, curiosamente, il gioco di parole funziona meglio in italiano – ma ne è reso ugualmente esplicito il significato. Perché Perdita è la misura dell’amore. Ne è il catalizzatore, il riferimento, la catarsi.

E le cose che ci cambiano per sempre avvengono senza che noi ce ne rendiamo conto [—]. Ci vuole così poco tempo per cambiare una vita e ci vuole tutta la vita per comprendere il cambiamento.

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