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Archive for the ‘S. Tucci’ Category

Fiona Maye (Emma Thompson) è una giudice dell’Alta Corte britannica.

Una carriera notevole alle spalle, una dedizione totale e incondizionata al suo lavoro e al suo ruolo.

Una ferma risolutezza nell’affrontarne le contraddizioni, i lati oscuri, le conseguenze. Siano esse le inevitabili polemiche e tempeste mediatiche nel caso di cause particolarmente delicate, o l’inarrestabile sgretolarsi del suo matrimonio.

Quando Jack (Stanley Tucci), il marito decide di andarsene, Fiona ne è sconvolta ma questo – come nient’altro del resto – la distoglie dal rimanere sempre coerentemente fedele al suo personaggio. Continua a lavorare. Continua a dedicarsi a tutte le attività che normalmente svolge.

Nel frattempo le arriva un caso molto urgente, che richiede una decisione nel giro di pochi giorni.

Adam Henry, minorenne ancora per qualche mese, malato di leucemia, si oppone, per motivi religiosi, a ricevere trasfusioni che potrebbero salvargli la vita.

Per qualche ragione che forse trascende la comprensione di Fiona stessa, la giudice decide di sentire direttamente l’opinione del ragazzo e va a trovarlo in ospedale.

L’incontro tra Adam e Fiona segnerà in modo determinante e indelebile le vite di entrambi.

Bello, bello, bellissimo.

Non ho letto La ballata di Adam Henry da cui il film è tratto, ma vedo che la sceneggiatura è dello stesso McEwan quindi presumo che non abbia stravolto il senso e il tono del suo stesso libro.

E in ogni caso conosco abbastanza l’autore per riconoscerne l’impronta inconfondibile e quella capacità di colpire a fondo come pochi riescono a fare.

La regia di Richard Eyre (Diario di uno scandalo) si trova a suo agio con la sceneggiatura e ben si sposa con i ritmi e i modi di un film delicato e, a tratti, impietoso al tempo stesso.

Emma Thompson è immensa.

Per me le si potrebbe pure dare subito l’Oscar saltando a piè pari nomination e cerimonia. E’ lei stessa l’anima profonda di questo film. E’ tutto lei. E’ solo lei. Centro gravitazionale della storia e del mondo che prende vita in essa. Forte, espressiva, tenace, fragile, riesce a incarnare e ritrasmettere intatte tutte le emozioni di questa donna incredibile.

Misurata, mai sopra le righe, perfetta, toccante.

Bravo anche Stalney Tucci nel ruolo del marito.

E molto bravo anche Fionn Whitehead (Dunkirk), nel ruolo di Adam.

Un film delicato e trascinante. Un’interpretazione memorabile per una storia così terribilmente vera, dalle profonde implicazioni etiche e morali e dal sapore di una ricerca di giustizia che è vocazione prima ancora che legge.

Da non perdere.

Cinematografo & Imdb.

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Sei nomination: miglior film, regia, attore e attrice non protagonista, sceneggiatura originale e montaggio.

Regia di Tom McCarthy, basato su eventi reali.

Spotlight è il nome di un team di giornalisti del Boston Globe, specificatamente dedito al giornalismo d’inchiesta.

Nel 2001, partendo dall’indagine su alcuni abusi sessuali commessi da preti su minori arrivò a far luce su una rete di crimini sensibilmente più ampia e, quel che è peggio, sulla connivenza delle alte sfere della chiesa nel coprire tali crimini.

Il caso è cronaca, l’esito è noto e la vicenda ricostruibile se si cercano anche solo notizie in rete, tuttavia McCarthy mette in piedi un film coinvolgente, dalla costruzione quasi simile a un giallo, nella quale, ogni nuovo tassello va a completare l’insieme di un quadro agghiacciante.

Il caso capita in redazione quasi incidentalmente. Al Boston Globe c’è un nuovo direttore (Liev Schreiber) ed è lui a fornire lo spunto per un’indagine su un caso di pedofilia che vede coinvolto un prete ma anche – non si sa bene quanto indirettamente – un cardinale.

Quello che dapprima sembra un episodio isolato di insabbiamento di prove si rivela ben presto essere la classica punta dell’iceberg. Un iceberg nascosto di abusi perpetrati e coperti per decine di anni, ma, soprattutto di vittime ormai ben oltre qualsiasi possibilità di recupero o di perdono. Di avvocati corrotti e di una chiesa in cui il marcio si è infiltrato ad ogni livello.

Spotlight – parentesi, Il caso Spotlight, anche se sembra una versione innocua del titolo, è l’ennesima storpiatura fuori luogo, dal momento che non esiste, di fatto un caso con questo nome, essendo Spotlight il nome del gruppo di giornalisti, chiusa parentesi.

Dicevo, Spotlight è un gran buon film. Ho delle riserve su alcune della candidature ma non perché ne abbia sulla qualità del film in sé.

Ad un buon ritmo veloce e incalzante si unisce una ricostruzione della vicenda estremamente pacata, dettagliata e precisa.

Non abbiamo i giornalisti-eroi cui ci ha fin troppo facilmente abituato il cinema americano, né abbiamo i toni enfatici e trionfalistici della vittoria del bene e del giusto contro il male.

Qui abbiamo dei giornalisti molto realistici e un’attenzione completamente centrata sulla costruzione dell’inchiesta.

E’ l’inchiesta, la vera protagonista. Con le sue testimonianze messe insieme a fatica, le conversazioni a casa delle persone coinvolte e nei bar, i quintali di materiali d’archivio da cercare e consultare.

A supportare tutto ciò, un ottimo cast, con Mark Ruffalo e Rachel McAdams nei panni di due dei giornalisti e Michael Keaton nel ruolo del redattore capo di Spotlight.

Le mie uniche riserve, dicevo prima, sono esclusivamente legate ai criteri di assegnazione delle nomination.

Spotlight è un buon film, questo è appurato. Resta il fatto che, per questa edizione degli Oscar, rappresenta il film della coscienza. Il film che deve esserci e che deve essere premiato.

E se le candidature per film, regia e sceneggiatura originale ci stanno effettivamente tutte, trovo un tantino eccessive quelle per i due attori non protagonisti. Ok, è vero che io non amo particolarmente né Ruffalo né la McAdams (anzi, lei di solito proprio non mi va giù), ed è vero, per contro, che qui, soprattutto Ruffalo, interpretano le loro parti in modo più che egregio. Però non ho trovato nessuna di queste due interpretazioni particolarmente sopra le righe. Non abbastanza per una nomination, ecco.

Avrei piuttosto rinominato di nuovo Michael Keaton (anche se sarebbe stata quasi sicuramente una nomination a vuoto come quella di Redmayne). La sua interpretazione è eccezionale ed è quella che ho trovato più empaticamente coinvolgente.

Ruolo minore anche per Stanley Tucci.

Cinematografo & Imdb.

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E siamo a quattro.

Non che mi dispiaccia, sia chiaro. I Transformers sono un’altra saga che seguo piuttosto volentieri sostanzialmente perché è divertente e perché, diciamo le cose come stanno, Michael Bay gli action movie li sa fare.

Resta il fatto che, se appena uscita dalla sala la prima reazione è stata quella di uh-che-figata, più ci ripenso e più mi vengono in mente un po’ di osservazioni.

Prima di tutto, mi spiace che sia cambiato il cast. E questa è una cosa indipendente dall’esito del cambio. In generale, non mi piace quando mi cambiano i personaggi di una saga/serie, non so neanche io bene come chiamarla. E poi Shia LaBeouf e Turturro funzionavano bene. Nel terzo c’era già stato il cambio della gnocca di turno che dalla Megan Fox dei primi due era diventata Rosie Huntington-Whiteley e già avevo trovato la cosa fastidiosa perché, va bene che dobbiamo metterci la gnocca, ma non penso che provochi malattie terminali se anche la suddetta sa articolare qualche parola. Non che la Fox fosse chissà che cosa ma, oltre ad essere più adatta al ruolo, interpretava un personaggio, non stava solo lì a fare presenza come Rosie. C’era persino un vago tentativo di ironia nel personaggio di Megan. Parentesi. Che poi. 2010. Megan Fox molla i Transformers perché non vuole rimanere incastrata in un personaggio legato a un action movie precludendo i possibili sviluppi della sua carriera. 2014. Megan Fox interpreta April O’Neil, protagonista del nuovo remake delle Tartarughe Ninja. Chiusa parentesi.

In ogni caso, il nucleo del cast fino al terzo è rimasto stabile, tutt’al più con qualche aggiunta e, come dicevo, funzionava egregiamente.

Il fatto che in questo quarto episodio non ci sia più nessuno del vecchio cast ha come prima conseguenza il reset della trama. Non c’è più traccia di tutte le dinamiche preesistenti tra i personaggi. Ci sono ovviamente i riferimenti agli avvenimenti passati ma, oltre ad una nuova storia, vanno reimpostati tutti i rapporti e gli equilibri tra i protagonisti. Il che, in questo genere di film, porta quasi inevitabilmente ad un appiattimento. Non è che Whalberg e Tucci non funzionino. Ma non vanno oltre qualche scambio di battute divertente.

(Per carità, è anche comprensibile che LaBeouf si sia stufato di fare Witwicky – e che sia stato colto anche da improvvise esigenze di compensazione dato che, mollato Bumblebee, si è buttato subito su Lars Von Trier).

La trama, nel senso stretto della storia legata ad Autobot, Decepticon e tutta quella gente lì, vive di rendita sugli agganci agli avvenimenti passati mentre i personaggi, se vogliamo dire la verità, è come se non ci fossero.

Anzi. Avrebbero potuto benissimo non esserci. Non sono più quasi neanche un pretesto.

Il film è per due terzi abbondanti fatto di combattimenti tra Autobot, altri robot che fanno la funzione dei Decepticon e terzi pseudo-robot più evoluti (che sono poi quelli che saltavano fuori alla fine del terzo e che adesso non mi ricordo come si chiamano). Le dinamiche politiche e militari che portano agli scontri sono un po’ troppo affrettate e poco approfondite. Cade Yager (Whalberg), un inventore squattrinato, e sua figlia Tessa (Nicola Pelz) si trovano accidentalmente coinvolti nel casino per aver trovato Optimus Prime che, cinque anni dopo la battaglia di Chicago, non è più benvoluto sulla Terra ed è costretto a nascondersi con i suoi Autobot.

Il rapporto di coppia è sostituito tra quello padre-figlia con tutti i cliché del caso, anche perché poi si aggiunge uno sconosciuto bellimbusto nei panni del fidanzato di Tessa. E comunque non è che siano i cliché il problema. Non in film come questi. Ci sta che i personaggi siano modellati su alcuni macro-ruoli più o meno standard. E’ che il tutto poteva essere reso un po’ meglio. Ci sono un po’ di dialoghi divertenti ma niente di più. E, dal punto di vista dell’azione in sé, i tre, più che scappare mentre i robot se le danno di santa ragione, non è che facciano poi molto.

Stanley Tucci veste i panni di un industriale corrotto ma non troppo e riesce ad essere come sempre simpatico, dovunque lo piazzino.

Dal punto di vista tecnico è tutto ovviamente impeccabile. Mi è persino spiaciuto non essere andata a vederlo in 3D perché non sarebbe stato male.

I combattimenti sono spettacolari, articolati, lunghissimi ma, cosa più importante, sono coinvolgenti. Non annoiano (che dopo quella lagna di Godzilla son rimasta traumatizzata e sono ancora più sensibile all’argomento).

Il film è lungo ma le tre ore passano senza pesare.

In definitiva vale la pena vederlo. E’ divertente. E gli Autobot sono sempre più fighi ad ogni versione (compreso Bumblebee che diventa ovviamente la nuova Camaro).

Viene, manco a dirlo, lasciata aperta la strada al seguito e spero solo che, se non rivoluzionano di nuovo il cast, nel prossimo curino un po’ di più i personaggi non metallici.

Cinematografo & Imdb.

TRANSFORMERS: AGE OF EXTINCTION

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TRANSFORMERS: AGE OF EXTINCTION

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Cercando il link sul sito del cinema, ho appena scoperto che il terzo capitolo degli Hunger Games è stato splittato in due.

*inserire turpiloquio a piacere*

Sì, il terzo, come quasi sempre nelle trilogie che abbiano un minimo di struttura, è più complesso. E no, non ce n’era bisogno. Anzi. Rischiano di tirarla troppo per le lunghe e perdere il ritmo. Vabbè, mi riservo gli insulti per quando effettivamente usciranno i due film.

Nonostante il cambio di regia, La ragazza di fuoco continua ad essere in linea con le aspettative lasciate dal primo capitolo. Di fatto, non sono state apportate modifiche né al cast né all’aspetto visivo il che va a beneficio dell’unità di tono tra i due film. In particolare, continuo ad apprezzare tantissimo il modo in cui i costumi eccentrici e sostanzialmente fanta-glam di Capitol City sono stati resi senza risultare fasulli. Sono eccessivi e bastava veramente poco perché scadessero nel caricaturale e invece riescono ad essere, oltre che belli, soprattutto credibili.

Per quel che riguarda la sceneggiatura, tutto estremamente fedele al libro.

Due parti divise piuttosto nettamente. La prima in giro per i Distretti e poi a Capitol City, la seconda nell’arena dei giochi. L’arena e gli Hunger Games, in questo secondo capitolo, sono centrali non in quanto tali, come nel primo, ma in funzione del contesto più ampio che va delineandosi nella prima parte.

Il gesto con cui Katniss ha salvato se stessa e Peeta nella precedente edizione dei giochi, creando così per la prima volta due vincitori, è stato un gesto di puro istinto di sopravvivenza per lei, un atto d’amore agli occhi dell’ottuso pubblico di Capitol City, ma un vero e proprio simbolo di rivolta per il resto di Panem. E questo ha conseguenze destinate a sfuggire di mano. Al presidente Snow (Donald Sutherland). Ma anche a Katniss stessa. Eroina involontaria. Incarnazione in parte inconsapevole, in parte riluttante di quella speranza alla base di qualsiasi spirito di rivoluzione.

Jennifer Lawrence sempre brava e bella, mai sopra le righe, sempre perfettamente credibile nella sua testardaggine assolutamente priva di premeditazione.

Accanto a lei Josh Hutcherson – Peeta – che non mi piace particolarmente ma che di fatto rende bene il personaggio.

Woody Harrelson nei panni di Haymitch invece mi piace sempre tantissimo, così come Lenny Kravitz che interpreta Cinna, lo stilista di Katniss.

Molto ben ricostruita l’arena, anch’essa fedele nei minimi dettagli a quella descritta nel libro, con i suoi meccanismi sempre più crudeli, e soprattutto, molto ben costruite le dinamiche di quello che si svolge all’interno dell’arena e che non è assolutamente quello che potrebbe sembrare inizialmente. Questa seconda parte non era facile da rendere ma se la sono giocata davvero molto bene.

Ottimo anche Philip Seymour Hoffman nei panni del capo stratega.

Da vedere. Se non distruggono tutto con il doppio terzo capitolo fin qui sta venendo fuori una trasposizione davvero valida.

Cinematografo & Imdb.

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The Hunger Games: Catching Fire (2013)

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Tecnicamente è già lunedì ma dal momento che son le due di notte non riesco ancora a dire nulla sulla cerimonia degli Oscar che si sta svolgendo in questo momento – per ora ho solo qualche scorcio di red carpet con Quevenzhane Wallis vestita di blu e accompagnata da un cane di peluche, ma niente di più. Se riesco, seguirà aggiornamento durante la giornata, altrimenti domani resoconto completo dei vincitori.

Gambit. Come già anticipavo qualche settimana fa, remake dell’omonimo film del 1966, diretto da Michael Hoffman e sceneggiato dai fratelli Coen.

Londra. Un curatore di mostre (Colin Firth) dalle ottime capacità e dal grande amore per l’arte, vessato e umiliato dal suo datore di lavoro ricco, arrogante e spocchioso (Alan Rickman). Una cowgirl spennatrice di polli (Cameron Diaz). Un Maggiore in pensione dedito alla pittura. Una roulotte. Claude Monet e i suoi Pagliai. Un altro curatore di mostre dall’atteggiamento eccentrico (Stanley Tucci). Ah, già, dimenticavo. Un leone e qualche giapponese.

A questi ingredienti si aggiunga la summenzionata sceneggiatura dei fratelli Coen.

Si mescoli il tutto con una buona dose di umorismo se non proprio inglese quanto meno molto British-style e si ottiene una commedia gradevole e simpatica, dall’impostazione molto classica e dai tratti a volte persino un po’ retrò.

Basata fondamentalmente sullo schema della truffa da organizzare e mettere in atto, apre in diversi momenti alla commedia degli equivoci – la scena dell’albergo è spassosissima – con qualche ammiccamento all’aspetto sentimentale – senza però, per fortuna, indulgervi eccessivamente.

Colin Firth si dimostra ancora una volta attore estremamente adattabile alle parti più diverse, divertente e molto credibile nel ruolo, con quella sua espressione di chi non ha ancora capito bene dove si trova.

Cameron Diaz fa la matta ed è bella – forse persino un po’ troppo per il suo personaggio, ma non facciamo i pignoli – e brava.

Alan Rickman è assolutamente impagabile. I ruoli antipatici gli riescono sempre che è una meraviglia, con il suo repertorio di  espressioni più significative di qualsiasi copione.

E c’è anche Stanley Tucci, nei panni di un personaggio che si intuisce essere simpatico ma che in verità è discretamente massacrato da un doppiaggio eccessivamente caricaturale.

E’ un film divertente e leggero, senza grosse pretese ma con uno stile delicato, una trama che funziona e una struttura ben costruita.

I fratelli Coen si intuiscono nell’impostazione, anche se la loro impronta non è così dichiarata, non essendo loro alla regia.

Ho letto critiche che lo definiscono per certi versi superiore all’originale perchè più ironico e più dinamico. Sarei curiosa di recuperarmelo.

Cinematografo & Imdb.

E in attesa dei risultati, qualche sbirciata sul red carpet.

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85th Annual Academy Awards - Arrivals

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