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Archive for the ‘Autobiografia’ Category

Ho comprato questo libro nell’autunno dell’anno scorso e quando l’ho preso non avevo la più pallida idea di chi fosse Marina Abramović. E’ stato uno di quegli acquisti istintivi che ogni tanto faccio. Uno di quei libri che ti chiamano dagli scaffali senza una ragione precisa.

Poi, come al solito, l’ho lasciato lì a decantare un po’ nella sempre più ingestibile coda di lettura che mi ritrovo.

E poi, ad un certo punto, tutti parlavano di Marina Abramović.

Perché probabilmente Cate Blanchett la interpreterà nella serie Documentary Now!

Perché a Firenze, a Palazzo Strozzi, dal 21 settembre 2018 al 21 gennaio 2019 ci sarà The Cleaner, una mostra a lei dedicata.

E poi non lo so bene perché ma da un paio di mesi a questa parte me la ritrovo sempre fra i piedi.

La mostra di Firenze però è stata l’elemento decisivo per decidermi a leggere il libro. Voglio andare a vederla e voglio andarci preparata, per quanto possibile.

 

Ora, io di arte non ne capisco niente. Ci tengo a dirlo per mettere subito le cose in chiaro. In particolare di arte contemporanea.

Ciò non significa che l’argomento non mi interessi.

L’arte contemporanea è qualcosa che mi affascina, in incuriosisce e mi attira ma della quale non sono capace di parlare con reale cognizione.

I miei giudizi sono prevalentemente di pancia.

Le mie impressioni sono istintive e spesso non so motivarle e non so difenderle con argomentazioni oggettive.

Per dire, adoro Damien Hirst ma se qualcuno mi attacca dicendo che è una stronzata mettere uno squalo in formaldeide, esporlo e chiamarla arte io non sono capace di controbattere in modo convincente. A me lo squalo in formaldeide piace. Posso dire solo questo. Sul fatto che valga milioni di dollari…boh, fa parte del gioco. Un gioco che non capisco appieno ma che, ripeto, mi affascina per il suo miscuglio di leggi che sono in parte significato sostanziale e in parte mera arbitrarietà.

Da un lato, è vero, ci sono i meccanismi di un sistema chiuso, autoalimentato e autocelebrativo, ma è anche vero che ci sono ragioni più profonde nelle forme d’espressione e che le grandi esposizioni di arte moderna e contemporanea sono pezzi di storia che spesso diventano realmente comprensibili solo a distanza di tempo.

Tutto questo per dire che cosa? Che anche per Marina Abramović il mio approccio è stato assolutamente di pancia.

Ero attirata in modo quasi ossessivo dal libro.

Quando ho saputo della mostra ho cercato in rete qualcosa sulle opere di Marina e quello che ho visto mi ha lasciata perplessa.

Se già di arte contemporanea capisco poco, con la performance art brancolo decisamente nel buio.

Istintivamente, la performance art mi trasmette una sensazione di disagio. Mi disturba. Mi impaurisce, anche. Per l’imprevedibile utilizzo del corpo, credo. Ma anche questo sarebbe un argomento da approfondire a parte.

Morale. Ho deciso di non cercare altro materiale sulle performance della Abramović ma di andare con ordine e cominciare proprio da Attraversare i muri.

Direi che ho fatto bene.

Ho amato moltissimo questo libro e, benché continui tuttora a provare sensazioni contrastanti di fronte alle performance di questa artista – pur avendo capito cosa c’è all’origine alcune mi risultano comunque ostiche (e anche molto disturbanti, anche se probabilmente questo è uno degli scopi delle performance) – mi sono trovata ad ammirare profondamente la sua filosofia di arte e di vita.

Marina Abramović nasce a Belgrado il 30 novembre del 1946.

Figlia di due ferventi partigiani di Tito e del regime inflessibile della Jugoslavia post seconda guerra mondiale. Marina cresce in uno strano contesto, tra il grigiore ossessivo del suo paese, le violente contraddizioni della sua famiglia, un rapporto con la madre che la segnerà – nel bene e nel male – per il resto della sua vita.

Il racconto della sua giovinezza e delle suoi primi tentativi di fare arte offre, tra le altre cose, uno spaccato incredibilmente interessante del contesto artistico e culturale dell’Europa degli anni Sessanta e Settanta, nonché delle profonde ferite che il mondo slavo ha elaborato e incorporato attraverso i mezzi di una tradizione diversa da tutto il resto d’Europa.

Proprio in quegli anni si assiste anche alla nascita del concetto di performance art, un concetto complesso che implica l’unione intrinseca di arte e azione, di arte come forma di protesta/rivoluzione, di arte come concetto legato allo spazio ed al tempo ma al tempo stesso in grado di trascendere e annullare sia spazio che tempo.

Marina è stata una pioniera in questo campo.

Ha unito la stoica disciplina ereditata dalla sua educazione ad una spinta creativa di rara potenza e ad un desiderio di conoscenza e consapevolezza spinti all’estremo.

Potrei parlare delle sue singole opere – alcune delle quali, come Rhythm 0 hanno realmente fatto storia – ma diventerebbe un discorso interminabile.

Potrei però più proficuamente parlare di come, al di là dell’apprezzare o meno le singole opere, quello che mi ha affascinato tantissimo è l’insieme di elementi da cui queste opere sono scaturite.

La ricerca di una dimensione di consapevolezza e contatto con se stessi, con il proprio corpo e con il pubblico portata all’estremo.

Il rapporto con il corpo e con il dolore.

La forte consapevolezza della connessione corpo e mente. La gestione del dolore – in particolare dolore autoinflitto o autoimposto – e il suo superamento con disciplina – sono questi i muri cui si fa riferimento nel titolo, quei muri che la rigorosa disciplina sovietica, nonché quella di sua madre, l’hanno addestrata ad attraversare senza battere ciglio.

L’assoluta mancanza di paura nello spingersi sempre oltre i limiti. La consapevolezza dell’assenza di limiti.

 

Il dolore era come un muro che avevo attraversato uscendo dall’altro lato.

 

E ancora.

La totale, completa, profonda apertura mentale verso tutto e tutti. La sete insaziabile di sperimentare e conoscere. E anche la fragilità, la simpatia e la toccante umanità di questa donna forte e strana, dal naso troppo grande – lo dice lei – e dalla volontà incrollabile.

Ora sono ancora più curiosa di andare a vedere la mostra. So cosa aspettarmi ma so (e spero) che dal vivo la mia opinione su alcune opere cambierà ancora.

Quello che non cambierà sarà l’ammirazione per una donna incredibile, per una vita intera dedicata all’arte ma non come vuoto estetismo. Ad un concetto di arte come vita nella sua più alta espressione. Vita come connessione e comunione di tutte le forme viventi. Vita come vincolo indissolubile di umanità. Arte come mezzo, luogo e momento per migliorarsi, per creare speranza, per celebrare l’energia vitale.

Quali che siano le opinioni artistiche, una lettura bellissima, ricca, fortemente consigliata.

 

La soverchiante importanza degli imponderabili determina il comportamento umano.

 

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