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Archive for ottobre 2012

C’è qualcosa di perverso nel meccanismo per cui, da un lato, mi rendo perfettamente conto del fatto che non sono più in grado di guardare film horror da sola di notte (ma anche di pomeriggio tardi se fa già abbastanza buio) senza cagarmi sotto per i due giorni successivi, ma dall’altro, continuo a comprarne di nuovi, dimostrando così di non essere neanche in grado di gestire le mie tendenze compulsive. In particolare, tutto questo discorso vale per un certo tipo di film. Per dire, ieri sera Dario Argento proponeva Alta tensione di Alexandre Aja e l’ho mollato dopo il primo quarto d’ora non perché facesse effettivamente paura quanto perché non avevo proprio voglia di un’ora e mezza di splatter di livello medio-basso (la decapitazione con la credenza e annessa fontana di sangue dal collo residuo ha influito non poco sul sorgere del mio scazzo). Sì, poteva valere la pena continuare a vederlo per Cécile de France e perché all’inizio c’era Sarà perché ti amo nella colonna sonora, ma alla fine non erano motivazioni così forti.

C’è invece tutta una categoria di film che parte dall’Esorcista, passa per The Ring (e in verità per parecchi horror giapponesi) e in generale per tutto ciò che coinvolge demoni/fantasmi/possessioni&infestazioni di vario tipo, che fa particolarmente presa sul mio inconscio (e anche sul conscio). Generalmente ne esco tesa e guardinga, con la fastidiosa tendenza a cacciare strilli se mi si rivolge la parola senza il dovuto preavviso.

Su Paranormal Activity ero sempre rimasta piuttosto scettica perché, data tutta la pubblicità che ne hanno fatto, mi aveva dato l’idea di essere l’ennesimo fenomeno teen-horror montato ad arte per scopi di cassa. E in parte è sicuramente vero. Tant’è che non accennano a mollare il filone.

Però io sono morta di paura con questo film.

Vivo in un appartamento. Sono abituata ai rumori, anche in piena notte. Quella di sopra che cammina coi tacchi alle tre del mattino. Quello di fianco che litiga. Il gatto che tira giù qualcosa. Ecco, improvvisamente tutte queste cose sono diventate fonte di enorme tensione.

Poi per carità, è tutto molto soggettivo. La materia di base è piuttosto banale se ci si pensa. Budget ridottissimo, girato a casa del regista. Telecamere fisse. Lunghe inquadrature di niente che però presuppongono che qualcosa prima o poi lo vedrai succedere. Però funziona. O almeno, non so, probabilmente sono il target ideale per questo genere di operazioni, ma su di me ha funzionato alla grande. Paura pura e semplice.

A questo punto potrebbe sembrare logico che, dopo siffatto trauma, io abbia orientato le mie esigenze orrorifiche verso altri lidi. E invece ieri mi sono comprata il terzo (sì, lo so, si dovrebbe andare con ordine, ma il secondo non era in offerta 😛 ).

Se non muoio d’infarto seguirà recensione anche di quello.

Cinematografo & Imdb.

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Oggi sono terribilmente in ritardo col post causa ulteriore round dell’incontro me vs tumblr che si protrae ormai da tre giorni. E per la cronaca non ne sono ancora venuta del tutto a capo.

Comunque, dando per assodata la fondamentale imperscrutabilità della Tecnologia e la sua intrinseca ostilità nei miei confronti e tenendo presente che, quando c’è qualcosa che non riesco a risolvere, mi si pianta un chiodo fisso nel cervello per cui l’argomento tende a riaffiorare in modo reiterato, costante e possibilmente a sproposito, ecco, possiamo passare al post.

In realtà su quest’ennesima accoppiata libro film sono rimasta indecisa fino all’ultimo per diversi motivi, primo fra tutti il fatto che siano entrambi totalmente italiani e poi il fatto che l’italiano in questione, nel caso del film, sia Silvio Muccino. Perché, diciamocelo, quali sono le prime tre parole che ci vengono in mente al sentirlo nominare? Fratello (del regista Gabriele), paraculo (in quanto fratello del regista Gabriele) e teenager (possibilmente ululanti perché Silvio è il fratello figo del regista Gabriele – e su quest’ultima, please, non chiedetemi perché). Tant’è che l’ho sempre piuttosto snobbato – considerato  anche il fatto che non sono una grande fan neanche di Gabriele Muccino (tolta La ricerca della felicità). Poi non lo so.  A dicembre del 2010 ho visto il trailer di Un altro mondo e – sicuramente anche per colpa di Secret Garden di Bruce Springsteen – ho pensato che si poteva fare un tentativo (anche visto che sembrava qualcosa di ben diverso da quell’onanistica autocelebrazione immeritatamente considerata che era stato Parlami d’Amore – all’epoca non l’avevo ancora visto ma date le mie manie di indagare a ritroso su autori o registi ora il mio giudizio è espresso con cognizione di causa).

Autrice del libro è  Carla Vangelista – adattatrice per il doppiaggio dei dialoghi di film come Il Pianista, The Hours, Magnolia, The Others. E’ autrice anche della sceneggiatura, cosa che ha reso la trasposizione ovviamente fedelissima e assolutamente azzeccata per quel che riguarda i tagli e le (poche) modifiche.

La trama (dalla quarta di copertina): “Andrea vive insieme a Livia una esistenza smemorata, molle, remissiva, in mezzo ad amici che, come lui, più di lui, ricamano finzioni intorno al buio del cuore, all’abisso di sentimenti inespressi. Tanti anni prima il padre di Andrea ha abbandonato la famiglia e si è trasferito in Kenya, lasciando dietro di sé solo silenzio. E ora arriva una sua lettera: vorrebbe rivedere il figlio prima di cedere alla morte.
Andrea è più rancorosamente curioso che animato da pietà filiale, ma ci va. Va in Africa. E là scopre di avere un fratello, più orfano di lui. Il padre ha lasciato a entrambi una eredità difficile. Comincia a quel punto un viaggio che è una vera e propria avventura dentro l’immensità e la maestà di un continente derelitto, e dentro la devastata interiorità di un giovane uomo che al fratello-figlio, al piccolo Charlie, deve aprire uno spazio o lasciarlo fuori da sé per sempre, nero e bastardo. In fondo, a una decina di ore di volo c’è il suo mondo che lo aspetta e dove tutto può ricominciare – come prima, come sempre. E se invece fosse possibile un altro mondo? Se sulla scacchiera dell’esistenza ci si potesse muovere senza l’ingombro di fantasmi, finalmente pieni di vento e di memoria? […]”

Il libro è scorrevole, moderatamente introspettivo, forse un po’ più crudele della sua versione cinematografica ma si mantiene comunque in equilibrio senza eccessi di sentimentalismi o intellettualismi né in un senso né nell’altro.

Anche sul film il mio giudizio è complessivamente positivo. Purtroppo anche qui mi trovo a dover fare una distinzione che, mi rendo conto, si ripresenta puntualmente per i film italiani, tra cast tecnico e cast artistico. Tecnicamente è davvero di ottimo livello: ci sono diverse sequenze – in particolare quella iniziale con la scelta (perfetta) della voce fuori campo (che poi ritorna sul finale) per riassumere i punti salienti di alcune situazioni che altrimenti avrebbero appesantito la narrazione, o la giornata passata insieme di Andrea e Charlie, o, ancora, tutta quella dedicata all’evoluzione della gestione dei nuovi ritmi di vita – che non sembrano neanche appartenere a un film italiano, anche se so che dicendo questo probabilmente mi attirerò le ire di qualcuno (mi riferisco ovviamente alla produzione italiana più recente non a tutto il cinema italiano dagli albori). Volendo dare un voto, regia, montaggio, colonna sonora (ok, sì, Secret Garden era di Jerry Maguire ma ci sta comunque bene), costumi e, come dicevo prima, sceneggiatura si meritano ampiamente un 8.5. Sul cast artistico dobbiamo calare un po’. Se ci limitiamo ai tre interpreti principali siamo ancora su un buon livello: Silvio Muccino ha definitivamente corretto i suoi difetti di pronuncia e ha imparato a parlare senza mangiarsi le parole; potrebbe ancora togliersi l’accento de roma ma finché continua ad interpretare personaggi bene o male costruiti per (e diretti da) lui la cosa non è poi così drammatica. La sua recitazione in generale è migliorata parecchio e – cosa che mi ha stupito – rende particolarmente bene nelle scene a due con Charlie dove non fa tanto l’uomo ma lascia emergere quella parte del suo personaggio che è fondamentalmente uguale a Charlie cioè quella del bambino abbandonato. Isabella Ragonese è forse un po’ troppo teatrale e scolastica soprattutto nelle scene di maggior pathos ma è comunque brava e poi non mi rallegrerò mai abbastanza di vedere un’attrice italiana che riesce a litigare senza fare l’isterica saltellante. Michael Rainey Junior è un po’ il centro e la mascotte di tutto il film. E’ bravo di quella bravura tipica dei bambini che si trovano a proprio agio a recitare, con quella componente di spontaneità che arricchisce e completa il personaggio.

Poi però arrivano le note dolenti. Perché Greta Scacchi? E soprattutto perché parla così (che sembra il doppiatore del leone di Narnia)? Non si può né sentire né vedere. Idem dicasi per Flavio Parenti che è un altro che palesemente bazzica da quelle parti per il suo cognome ma non ha nessuna dote naturale che gli permetta di far fruttare in qualche modo la fortuna che gli è capitata.

Fortunatamente hanno entrambi ruoli, se non proprio marginali, quanto meno non così invasivi da rovinare il film, che resta comunque valido.

Cinematografo.

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Cerco di dimenticare che non dovrei mai scrivere quando sono di cattivo umore. Cerco di dimenticare che non sono solo di cattivo umore. Mi girano proprio i coglioni. Cerco di dimenticare che non c’è un motivo preciso. E’ lunedì. Fa un freddo malefico e io non ho ancora riesumato niente di propriamente invernale. E poi c’è il sole sull’iPad e non ci vedo un tubo (non sto scrivendo dall’iPad ma non è rilevante). E poi è lunedì. E poi fa freddo. E poi niente, mi girano e basta.

E poi penso che voglio scrivere due righe su On the Road ma ripensare a Kirsten Stewart non è che mi migliori lo stato d’animo. No, così non va. Ricominciamo.

On the Road non è un brutto film. E’ solo un film troppo in ritardo. Diciamo di un quindici-vent’anni almeno.

Va detto che il libro di Kerouac l’ho letto qualcosa come diciassette anni fa (ma perché mi metto a fare ‘sti calcoli che poi mi deprimo) e la mia memoria sui particolari non è così attendibile. Ricordo comunque distintamente l’impressione generale che mi lasciò: non esattamente delusione ma qualcosa del tipo “tutto qui?”.  La potenza rivoluzionaria/provocatoria di quel libro era già praticamente esaurita, per la mia generazione. Se ne coltivava ancora in parte il mito ma era più che altro un rituale estetico, un nostalgico (dove neanche la nostalgia era veramente nostra) girare intorno a quello che rappresentava/aveva rappresentato più che a quello che effettivamente era ai nostri occhi. Mentre, per dire, un altro libro per molti aspetti fortemente generazionale come Cent’anni di solitudine, per me fu una folgorazione (e, nella migliore tradizione degli anni Settanta, mi imparai pure a memoria l’incipit), On the Road mi ha sempre dato l’idea di essere ormai troppo distante per un reale coinvolgimento ma ancora troppo vicino per un approccio letterariamente distaccato.

Tutto questo sproloquio per dire che come trasposizione, il film di Salles è tecnicamente molto valido. E’ molto fedele (forse persino troppo in certi punti) sia dal punto di vista delle vicende narrate, sia proprio per quel che riguarda lo spirito con cui esse vengono vissute e il ritmo del racconto. E’ tutto perfettamente dosato in proporzione al contesto dell’America alla fine degli anni Quaranta. E’ inevitabile che l’esaltazione dei protagonisti appaia datata ai nostri occhi, che i loro miti per noi abbiano ormai un che di scontato.

On the Road è un testo troppo intriso del contesto in cui (e da cui) è stato prodotto e soprattutto ha una prospettiva troppo interna, troppo soggettiva, perché lo si possa presentare in un modo che non sia generazionale. E lo stesso vale per il film. Chi, con stupore, ha definito il film piatto o noioso, probabilmente o non ha mai letto il libro, o non lo ricorda.

Il cast. Garrett Hedlund nei panni di Dean Moriarty è abbastanza ben riuscito anche se forse è esteticamente un po’ troppo moderno e nel doppiaggio gli hanno appioppato una voce che sarà pure quella di Adriano Giannini ma non c’entra niente né con l’attore né con il personaggio. Sam Riley è molto azzeccato nella parte di Sal sia come aspetto sia come recitazione ed è secondo me il personaggio meglio riuscito del film.

Le due Kirsten. Stewart (Marylou) non guadagna neanche mezzo punto nella mia personale scala di valutazione. Permane la monoespressione sulla quale mi sono già dilungata tempo fa e c’è solo da ringraziare che il suo ruolo non preveda grandi dialoghi; e Dunst (Camille) senza infamia e senza lode in un ruolo sciatto per il quale sembra essere fin troppo portata. C’è anche Viggo Mortensen nella parte (brevissima) di Old Bull Lee.

Nel complesso è un film giustamente lento, esteticamente curato; non è di quelli da cui esci esaltato ma si guarda volentieri.

Cinematografo & Imdb.

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“A differenza degli europei che nel cuore delle metropoli conservano le rovine romane ma dimenticano Seneca, che visitano le cattedrali ma trascurano il cristianesimo, i cinesi non alloggiano la propria cultura nelle pietre. In Cina il passato costituisce il presente dello spirito, non un’impronta sulla roccia. Il monumento rimane un fatto secondario, è molto più importante il cuore spirituale, mantenuto, trasmesso, vivo, sempre giovane, più solido di qualsiasi edificio. La saggezza risiede nell’invisibile, un invisibile che si rivela eterno attraverso le sue infinite metamorfosi, mentre la pietra si sgretola.”

Una storia breve, poco più che un racconto, dalla consueta delicatezza che contraddistingue i lavori di Schmitt.

Un uomo d’affari privo di legami, in Cina per lavoro. Una donna, la signora Ming, che si occupa della pulizia dei bagni degli uomini nel Grand Hotel dove alloggia il protagonista. Confucio e le sue massime.

Questi i tre personaggi principali. E poi ci sono i dieci figli della signora Ming e le loro storie che emergono dalle parole amorevoli della madre e che il protagonista ascolta alternativamente con diffidenza – lo sanno tutti che in Cina è proibito avere più di un figlio per cui è ovvio che la donna, per qualche ragione, sta mentendo – e con partecipazione – come può essersi inventata tutto con tale dovizia di particolari?

Il risultato è un balletto di cambi di prospettiva in cui il protagonista si ritrova coinvolto, avanti e indietro tra verità e finzione, tra Europa e Cina, tra una logica univoca e la saggezza di Confucio. Un miscuglio divertente e cangiante sullo sfondo della memoria storica di un paese enorme e misterioso.

Ma soprattutto, la consapevolezza che ci sono molti modi per arrivare alla verità.

“Figlio mio caro, credo che la domanda sia: perché gli uomini non sopportano la verità? Prima di tutto perché la verità li delude. In secondo luogo perché la verità e spesso poco interessante. Terzo, perché la verità non ha affatto l’eleganza del vero: quasi sempre la menzogna è imbastita meglio. E, quarto, perché la verità fa male. Non voglio che tu scateni guerre credendo di diffondere la pace.”

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Ma quanto è bello l’ultimo lavoro di Paolo Barbieri?! In libreria da ieri.

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Coerente con quanto dicevo l’altro giorno sui film in tv, ieri sera mi sono lasciata attirare a vedere questo.

E’ il classico caso di film per il quale non avrei mai speso un centesimo né mosso un muscolo per vederlo in sala (cose che effettivamente non ho fatto) fondamentalmente per due motivi e cioè antipatia per il libro d’origine e diffidenza radicata verso il cinema nostrano. E’ pur vero che è comunque un film di cui due anni fa si è parlato fino alla nausea e quindi, visto il costo zero dell’operazione (e soprattutto la possibilità di backup di addormentarmi sul divano) mi sono lanciata nella pericolosa impresa, con il seguente esito.

“Partiamo da un dato che normalmente le recensioni sottovalutano: ‘La solitudine dei numeri primi’ di Saverio Costanzo è un film tecnicamente straordinario. Il livello della fotografia (Fabio Cianchetti) e del montaggio (Francesca Calvetti) è di grande respiro internazionale. L’uso in colonna sonora di brani musicali preesistenti (Goblin, Morricone, la famosa canzone ‘Bette Davis’ Eyes’ di Kim Carnes) avrebbe fatto sbavare, fosse stato un film di Tarantino, gli stessi cinefili integralisti che l’hanno fischiato. (…)” (Alberto Crespi, ‘L’Unità’, 10 settembre 2010)

Vero. Verissimo. Estremamente vero. Non sono una grande fan delle recensioni di Crespi ma qui ci ha preso in pieno.

E’ esattamente il motivo per cui non ho ancora capito se questo film mi è piaciuto o no. Perché da un lato sei lì che ammiri l’estrema delicatezza delle immagini e della ricostruzione degli ambienti anni ’80 e ’90, l’ottima recitazione dei due protagonisti – una volta tanto senza i soliti eccessi di pathos isterico all’italiana – la colonna sonora (davvero, uno dei miei primi commenti mentre guardavo il film è stato ‘ma si sono affittati i Goblin?!’), e dall’altro scuoti la testa con sconsolata disapprovazione di fronte alla storia.

Probabilmente devo prendere il discorso un po’ più da lontano.

Non ho letto il libro di Paolo Giordano (solo il primo capitolo in libreria) e non ho intenzione di leggerlo perché non ho nessuna stima dell’autore, mi ha disturbato tutto l’aspetto commerciale che si è sviluppato intorno ad esso creando l’ennesimo caso editoriale su autore esordiente e per di più la storia non mi piace neanche poi tanto. Mi urta il fatto che in Italia tendenzialmente se vuoi ritenerti ed essere ritenuto serio devi buttarti sul caso umano. E possibilmente farlo nel modo più melodrammatico possibile (vogliamo parlare di Bella Addormentata?! no, in effetti non ne ho nessuna voglia). Ora, non posso dire niente su come il libro sviluppi la storia ma già detta storia in sé è sufficientemente angosciante.

Alice (cheppalle un’altra Alice! Sono perseguitata) e Mattia sono due ragazzi segnati da un evento traumatico che ha marchiato per sempre la loro infanzia compromettendo in modo, pare, definitivo la loro capacità di relazionarsi con il mondo, con gli altri, ma soprattutto la loro capacità di vivere con se stessi. Sono due sistemi chiusi e isolati (diciamolo, l’immagine dei numeri primi è proprio brutta e tirata parecchio per i capelli oltre che banale – senza contare la mia naturale avversione per ciò che è numerico) che per caso si incontrano e si riconoscono come simili. Che poi dal reciproco riconoscimento si riesca a far partire un qualche percorso di riabilitazione alla vita, ai sentimenti, alla normalità dei rapporti interpersonali, è impresa decisamente più complicata.

Di fatto è un buon film su una trama che però, comunque la si rigiri, è troppo ostentatamente melodrammatica. Talmente tanto da non riuscire neanche a deprimerti davvero. Alla fine mi sono resa conto del fatto che stavo continuando a guardarlo non tanto per sapere come andava a finire quanto perché era davvero un piacere la recitazione della Rohrwacher (che nell’ultima parte regala un’interpretazione di altissimo livello che coinvolge non solo i suoi gesti ma la totalità del suo corpo, magrissimo per l’anoressia del personaggio) e di Marinelli (che riesce ad essere espressivo anche quando non fa niente, e non è cosa da poco).

Ecco. Tralasciando i personaggi di contorno dove ci sono dei picchi di sciatteria tipicamente italiani – non so, ma per me la Rossellini non si può sentire – e delle figure davvero troppo grossolanamente stereotipate – il padre di Alice è veramente troppo negativo, al punto da non risultare neanche più umano (e quindi plausibile) – tutti gli attori scelti per interpretare Alice e Mattia nelle diverse fasce d’età sono ottimi. In particolare Arianna Nastro e Vittorio Lomartire che interpretano i due adolescenti sono davvero delle piccole copie del duo Rohrwacher/Marinelli. La scena alla festa, con la richiesta da parte di Alice di toglierle in qualche modo il tatuaggio è bellissima e terribile. E’ di fatto il vero momento dell’incontro ed è costruita in modo tale da essere straripante di significato senza che esso venga in alcun modo ostentato.

Nel complesso pensavo di rimanere delusa e invece devo dire che sono contenta di averlo visto.

Cinematografo & Imdb.

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Ho amato Vassalli da quando la mia professoressa di italiano del liceo mi fece conoscere La Chimera. Un amore che andava ad unirsi a quello preesistente per la poesia di Dino Campana.

E’ uno di quegli autori che continuo a comprare a scatola chiusa. Mi piace quello che scrive e il modo in cui lo scrive. Mi piace l’idea che dà di andarsene fondamentalmente per la sua strada.

Comprare il sole è una favola ambientata nel presente.

La prospettiva della favola è fondamentale, prima ancora della storia, perché fornisce il pretesto per descrivere tutta una serie di elementi e connotazioni, normali per la nostra quotidianità, come eccezionali. La prospettiva favolistica cambia il modo di percepire determinati elementi, li ricopre di una patina di fantastico e allo stesso tempo ne fa emergere quell’assurdità che giustifica il (ed è a sua volta legittimata dal) fatto che si trovino in una favola. E’ un modo garbato ma molto diretto di smascheramento. Un modo di ironizzare su quanto ci prendiamo sul serio e su quanto, da fuori, questa affannata serietà suoni assurda e persino grottesca.

Per molti versi è un’anti-favola. A partire dalla protagonista stessa. Un’eroina che nulla ha dei tratti amabili di una principessa o simili. Nadia Motta, nonostante l’ostentata indulgenza con cui il narratore la tratta – come se volutamente fingesse di essere dalla sua parte –  è in realtà parecchio antipatica. E neanche troppo furba. E tanto più la voce narrante la difende, tanto più la sua stupidità si fa palese.

Allo stesso modo, la falsa logica delle sue azioni, le attira intorno una galleria di personaggi che sono uno peggio dell’altro e che incarnano con studiata esagerazione (ma neanche poi troppa) le diverse tipologie di un umanità gretta, egocentrica e denaro-centrica, che potrebbe essere ridicola se non fosse davvero troppo patetica.

Sotto un tono leggero, quasi svagato, c’è una mira micidiale nel centrare i punti deboli dell’umanità media da centro commerciale (Nadia); di quella da intellettualismi e idealismi preconfezionati (Alessandro, Piero, Stefi); di quella dei sogni pseudo (o post) capitalisti (tutte le figure più o meno legali che intervengono nella gestione della vincita milionaria della protagonista). Un ritratto impietoso di un’umanità fondamentalmente triste e tanto più meschina quanto più si sente grande; come Eros, che se solo volesse…ma per ora non vuole.

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Mentre rifletto sulla mia patologica incapacità di entrare da fnac senza lasciarci puntualmente somme imbarazzanti (Bad Moon Rising dei Sonic Youth a 9.99 è a tutti gli effetti istigazione) e sulla mia esigenza compulsiva di comprare tutto ciò che abbia David Bowie (l’ennesima raccolta) o Brian Molko (l’ennesimo live) in copertina,  e mentre mi ripeto che no (ovviamente no), non potevo aspettare che il prezzo dell’ultimo dei Black Keys calasse, mi viene in mente (con un passaggio logico degno di re Julien di Madagascar) che negli ultimi tempi – complici anche Once Upon a Time e Dario Argento – mi trovo sempre più spesso a guardare film trasmessi in televisione (cosa che da parecchio non si verificava quasi più). Parliamo rigorosamente di seconda serata – la prima serata davvero non si può sopportare. E questo ogni tanto porta a qualche scoperta curiosa.

After.life, 2009, è il primo film di Agnieszka  Wojtowicz-Vosloo, regista polacco-americana.

Prendete Christina Ricci (che da un po’ non si vedeva in circolazione) e mettetele i panni di una giovane insegnante insoddisfatta e con disturbi della sfera affettiva; prendete Liam Neeson (che qualunque cosa lo si metta a fare la fa bene) e assegnategli il ruolo di un impresario di pompe funebri che svolge il suo compito di preparare i cadaveri con estrema dedizione e sensibilità; aggiungete una camera mortuaria, la defunta che conversa amabilmente con l’impresario e la capacità della regista di non far capire fin quasi all’ultimo come stiano effettivamente le cose.

Ne viene fuori un horror soft dalle atmosfere inquietanti e dall’esito cattivissimo, che strizza l’occhio a diversi più illustri predecessori (primo fra tutti Il Sesto Senso) ma poi continua tranquillamente per la sua strada. Forse c’è una piccola lacuna di spiegazione nel finale ma resta comunque un bel film, per certi versi anche originale, con un taglio che lascia da parte i colpi di scena improvvisi e i picchi della colonna sonora fatti apposta per farti venire un colpo e insinua l’orrore in modo graduale, facendolo strisciare appena al di sotto della normalità.

Qui il sito del film (visto che sui soliti link non si trova niente di che).

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