perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto.
Io stesso sono a caccia di consolazione come un cacciatore lo è di selvaggina. Là dove la vedo baluginare nel bosco, sparo. Spesso il mio tiro va a vuoto, ma qualche volta una preda cade ai miei piedi. Poiché so che la consolazione ha la durata di un alito di vento nella chioma di un albero, mi affretto a impossessarmi della mia vittima.
Cosa stringo allora tra le mie braccia?
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Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione. Mi coglie infine il pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga conto della mia libertà è ingannevole, non è che l’immagine riflessa della mia disperazione.
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L’unica cosa che m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine?
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Uomini diversi hanno padroni diversi. Io, per esempio, sono a tal punto schiavo del mio talento che non ho il coraggio di farne uso per timore di averlo perso. Sono poi così schiavo del mio nome da non osare quasi scrivere una riga per paura di arrecargli danno. E quando infine sopravviene la depressione, sono schiavo anche di quella.
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Ma la depressione ha sette scatole, e nella settima sono riposti un coltello, una lametta da barba, un veleno, un’acqua profonda e un salto da una grande altezza. Finisco per essere schiavo di tutti questi strumenti di morte.
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In che cosa consiste dunque questo miracolo? Semplicemente nella scoperta improvvisa che nessuno, nessuna potenza e nessun essere umano, ha il diritto di esigere da me tanto da far dileguare la mia voglia di vivere.
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Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità? La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del calcolo del tempo.
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Il tempo è una falsa misura per la vita. Il tempo è in fondo uno strumento di misura privo di valore, perché tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita.
Sitg Dagerman, Il nostro bisogno di consolazione, Iperborea 1991-2015