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Archive for the ‘D. de Vigan’ Category

Una forza silenziosa che l’accecava e guidava le sue giornate. Persino una forma di stordimento, di distruzione.

Era successo gradualmente. Era arrivata a quel punto senza rendersene davvero conto. Senza riuscire a reagire. Ricorda lo sguardo della gente, la paura nei loro occhi. Ricorda quel senso di onnipotenza, che spostava sempre più in là i limiti del digiuno e della sofferenza. Le ginocchia che si toccano, le giornate intere senza mai sedersi. In astinenza, il corpo vola veloce sui marciapiedi. Più tardi sono iniziate le cadute per strada, in metropolitana, e l’insonnia che accompagna la fame, una sensazione che non si riesce più a riconoscere.

E poi un freddo incredibile le entrato dentro. Un freddo che diceva che era giunta al capolinea e che doveva scegliere tra la vita e la morte.

Visto che ormai ho cominciato con Da una storia vera, continuiamo con Delphine de Vigan, che in fin dei conti è stato a tutti gli effetti il mio amore estivo di quest’anno.

Giorni senza fame è il romanzo d’esordio di Delphine ed esce in Francia nel 2001 con lo pseudonimo di Lou Delvig.

E’ la storia di Laure, una giovane donna anoressica e di come, in un ultimo barlume di lucidità abbia avuto ancora la forza di chiedere aiuto a un medico e farsi ricoverare.

E’ la storia di tre lunghi mesi di ospedale. Una risalita lenta e faticosa dalle profondità di una voragine nera e ghiacciata.

E, soprattutto, è una storia autobiografica.

Laure è Delphine e, anche se i nomi sono cambiati e magari qualche aneddoto modificato, il suo racconto è il ricordo dei volti e delle voci che hanno popolato quei suoi tre mesi di rinascita, di ritorno dall’inferno.

La scrittura di Delphine de Vigan per certi versi mi ricorda un po’ Jeanette Winterson. Non so dire se ci sia un’effettiva somiglianza. E’ più un’impressione lasciata dal modo in cui le parole fanno presa senza filtri e senza artifici. E’ una scrittura asciutta, lucida, estremamente efficace. E’ un modo di riuscire a trattare argomenti delicatissimi e potenzialmente a rischio di eccessi in termini emotivi e non uscire mai neanche una volta dai binari. Niente lacrime. Niente sentimentalismi. C’è una storia. C’è una realtà. C’è quello che si prova e che si è provato. C’è quello che si può sopportare. Fine.

C’è Laure che cammina per ore e ore. Che mangia sempre meno e poi non mangia più. Che infila maglioni su maglioni e non riesce a staccarsi dal calorifero perché sa che il freddo che le si è attaccato dentro è quello che la porterà via.

C’è un lungo e impietoso ritratto di come sia semplice e leggero lasciarsi prendere per mano. Cominciare a dipendere da qualcosa. Dalla sensazione di controllo che dà il digiuno. Un controllo totale sul proprio corpo.

E c’è una figlia. Una figlia che porta sulle spalle il peso di un’eredità materna e familiare insostenibile. Una figlia che fa da contrappunto alla madre che verrà raccontata in Niente si oppone alla notte e che, di fatto, comincia a pagare sul proprio corpo un prezzo la cui origine sarà l’oggetto di anni di dolorosa rielaborazione.

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E’ un periodo strano, questo.

Forse non più di altri, però è strano comunque e lo è per diverse ragioni che non credo di aver voglia di approfondire più di tanto.

E’ un periodo di musica che ritorna da anni a cui non pensavo da molto, di libri in cui cercare risposte, di strade (relativamente) nuove – non metaforicamente, proprio in senso geografico – e silenzi da ascoltare senza avere fretta di capire.

Quando ho parlato di Quello che non so di Lei di Polanski, vedendo che era tratto da un romanzo mi sono subito incuriosita e, date le tematiche e il gioco di piani a metà tra autobiografia e fiction, avevo intravisto la possibilità di una scoperta letteraria molto interessante.

Ad essere precisi avevo subodorato la potenzialità per una fissa letteraria bella e buona.

E così è stato.

Mi sono perdutamente innamorata dei libri di Delphine de Vigan e probabilmente questo non sarà l’unico post a lei dedicato.

Comincio da questo titolo perché è quello alla base del film – che, per inciso, è un’ottima trasposizione. Parentesi. E’ la seconda volta in due settimane che parlo di una trasposizione messa su schermo da Polanski. Non ci avevo fatto caso fino a questo momento. Chiusa parentesi.

Dicevo. Da una storia vera.

Non so bene come rendere l’idea di cosa effettivamente è questo libro.

Prima accennavo alla commistione tra invenzione e autobiografia ma questa è solo la classica punta dell’iceberg.

C’è la realtà.

Delphine parla in prima persona e parte da una serie di elementi della sua vita reale. In particolare, parte dal suo ultimo romanzo in cui ha raccontato la storia della sua famiglia e del suicidio di sua madre. Un romanzo che ha avuto conseguenze molto più ampie e pesanti di quelle che si era aspettata. Un romanzo che l’ha prosciugata e che ha sconvolto gli equilibri intorno a lei a causa delle rivelazioni fatte a proposito di persone della sua famiglia.

Delphine parte da se stessa. Dal suo stato d’animo, dal suo vissuto, dalle sue abitudini.

E poi c’è tutto il resto.

C’è L. – che in francese gioca sulla pronuncia elle, sia nome che pronome.

L. che entra piano nella vita di Delphine. Presenza confortante all’inizio. Talmente perfetta da sembrare un dono inaspettato. Amica premurosa. Compagna presente. Confidente affidabile.

L. che c’è sempre. I suoi occhi sono solo e sempre per Delphine.

L. che a poco a poco diventa troppo.

E poi ci sono i libri.

Parlare di scatole cinesi sarebbe banale e riduttivo.

I livelli si moltiplicano in un gioco di specchi in cui la realtà da un lato si perde ma dall’altro prende una forma ancora più forte, reale e concreta.

I riferimenti incrociati sono tantissimi, al punto che è impossibile elencarli tutti.

La situazione in cui si trova Delphine è palesemente molto kinghiana – nel filone degli scrittori alle prese con i propri demoni.

All’inizio delle tre sezioni in cui il libro si divide ci sono citazioni da romanzi di Stephen King. Delphine stessa è colta da un blocco dello scrittore simile a quello di Mike Noonan di Mucchio d’ossa – con tanto di vomito nel cestino all’apertura di Word -, è in qualche modo perseguitata da se stessa come Thad Beaumont ne La metà oscura, è incastrata nella fama portata dall’ultimo romanzo e nell’influenza di L. come Paul Sheldon è inchiodato in casa di Misery, la sua fan numero uno.

E mentre Delphine riflette e discute dello scrivere storie che è come far riemergere fossili dalla terra (sempre King), disquisisce dell’opportunità o meno dell’autobiografia e del grado di verità che lo scrittore deve (o non deve) al suo pubblico, i confini tra storie reali e storie inventate diventano sempre più vaghi e confusi.

Le citazioni e riferimenti ad altri libri e anche a svariati film sono molteplici, sia in termini di richiamo esplicito sia sotto forma di ulteriori aneddoti che entrano così a far parte della vicenda di Delphine e di L. e riproducono a loro volta altre storie narrate.

Ma allora cos’è reale? Cos’è tratto da una storia vera?

Fino a che punto la verità è tale?

E fino a che punto L. può continuare ad occupare spazio nella vita di Delphine prima che lei scompaia del tutto, soffocata da così tanta attenzione?

Da una storia vera è un capolavoro.

Caustico nel puntare il dito contro la morbosità voyeuristica – tanto di moda adesso – che ruota attorno allo specificare se gli eventi narrati siano o meno tratti da una storia vera, questo libro è una perfetta operazione di depistaggio.

La scrittura di Delphine ti risucchia e ti inchioda alle pagine alla ricerca di tracce che sembrano evidenti ma non conducono mai dove ci si aspetta.

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Scrittura, ossessione, Eva Green… era praticamente ovvio che avrei adorato questo film. E visto che è tratto da un romanzo – Da una storia vera di Delphine de Vigan – è quanto mai probabile che sia in arrivo anche una nuova fissa letteraria.

Ma andiamo con ordine.

Fuori concorso a Cannes 2017, regia di Roman Polanski, con Eva Green e – manco a dirlo – Emmanuelle Seigner.

Delphine è una scrittrice che ha ottenuto un improvviso successo con un libro fortemente autobiografico sul suicidio della madre. La fama repentina la spiazza. L’attenzione che ha portato sulla sua famiglia evidentemente le crea dei nemici perché comincia a ricevere delle inquietanti lettere anonime. Si sente stanca e sola. Non riesce più a scrivere.

E poi, casualmente, si imbatte in una sua ammiratrice. Una sua grande ammiratrice che sembra diversa dalle solite persone in cerca di una dedica.

Elle (Leila in italiano per mantenere il gioco di parole tra il nome proprio e il pronome lei usato come diminutivo) è affascinante e incredibilmente attenta alle esigenze di Delphine. Sembra essere sempre al momento giusto ciò di cui Delphine ha bisogno.

La loro amicizia si stringe fino a diventare un legame totalizzante. Fino a che Delphine non riesce più ad ignorare gli aspetti inquietanti del loro rapporto.

Perché Lei è apparentemente perfetta. La ascolta, si occupa dei suoi impegni, la sprona a scrivere. Ma forse è fin troppo perfetta. E in fin dei conti, Delphine non sa niente di Lei.

Un thriller psicologico ossessivo e claustrofobico, dichiaratamente ammiccante a Misery di Stephen King ma non solo, ben costruito nel crescendo di tensione e meravigliosamente interpretato dalle due attrici.

Emmanuelle Seigner è brava a vestire i panni sciatti di questa donna sopraffatta dagli eventi e Eva Green è come sempre strepitosa, con gli occhi di ghiaccio e gli sguardi taglienti.

Da quel che mi par di capire, anche il romanzo di partenza è strutturato, come il film, come una sorta di gioco di specchi. L’autrice si chiama realmente Delphine, come la protagonista ed è anche lei autrice di un romanzo autobiografico sul suicidio della madre che ha suscitato sia fama sia controversie per la quantità di retroscena fortemente personali che sono stati resi pubblici e che hanno coinvolto molti membri della famiglia.

Da approfondire.

In ogni caso il film mi è piaciuto molto.

Cinematografo & Imdb.

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