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Archive for the ‘B. Gleeson’ Category

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Regia di Ron Howard.

Tratto dal libro di Nathaniel Philbrick, In the Heart of the Sea: The Tragedy of the Whaleship Essex, pubblicato nel 2000 e a sua volta basato sulle testimonianze dirette scritte da Thomas Nickerson e Owen Chase, rispettivamente marinaio e primo ufficiale sulla Essex e tra i pochi superstiti tratti in salvo nel febbraio del 1821.

Da queste stesse vicende Herman Melville trasse ispirazione per il suo Moby Dick (1851).

E il film comincia proprio con un giovane Melville (Ben Whishaw) che cerca di comprare a Thomas Nickerson (Brendan Gleeson), ormai anziano, il racconto della vera storia del naufragio dell’Essex, al tempo un caso di cronaca che ebbe una discreta risonanza. Tre mesi di paga per una notte di racconto. E per la verità.

Nickerson inizialmente rifiuta. Non ha mai parlato a nessuno di quello che accadde veramente né di come fecero a sopravvivere coloro che furono salvati.

La baleniera Essex salpò da Nantucket il 12 agosto 1819.

Dopo più di un anno di navigazione, la scarsità di barili d’olio spinse l’equipaggio ad avventurarsi al largo del Pacifico dove trovarono i capodogli ma trovarono anche un enorme esemplare maschio di balena che si scagliò contro la nave provocandone l’affondamento.

Siamo nel novembre del 1820.

I pochissimi naufraghi sopravvissuti vennero salvati il 18 febbraio 1821.

Tre mesi di naufragio in cui gli uomini dovettero affrontare l’impossibile. Si spinsero al limite e poi oltre. Fecero le scelte che furono costretti a fare e, i pochi che ne uscirono, furono condannati a conviverci per il resto della loro esistenza.

La storia che Nickerson racconta è la storia delle tenebre chiuse nei ricordi inesprimibili di un sopravvissuto. Del distorto senso di colpa che è insito nella condizione di sopravvivenza. Dell’abisso di orrore in cui non si può guardare senza rimanere segnati per sempre.

E poco importa la razionalità. Poco importa sapere che non avrebbe potuto essere diversamente. Rimane un fondo di oscurità che non potrà più essere rischiarato.

Uomini che pagano il prezzo di essersi spinti troppo oltre.

Non è forse una storia eterna?

In the Heart of the Sea è buon film.

Non ne sono uscita esaltata, quello no. Ma è un buon film.

Avventura, azione, un ritmo veloce e poche elucubrazioni. Poco eroismo gratuito, anche. Il che è molto gradito.

Chris Hemsworth è apprezzabilmente sobrio nella sua recitazione e, benché sia alto grosso e biondo non fa la parte scontata dell’eroe figo di turno.

In generale, tutto il cast è molto sobrio e la recitazione non lascia spazio a eccessi di sentimentalismi in nessuna direzione.

E’ un film coinvolgente, che fa il suo mestiere e ti tiene col fiato sospeso. E che ti fa anche venir voglia di approfondire la storia vera dietro la ricostruzione.

Ottima la coppia Gleeson-Whishaw. Parte relativamente minore per Cillian Murphy.

Cinematografo & Imdb.

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E anche quest’anno ci siamo.

Venerdì sera si è aperta la 33a edizione del Torino Film Festival.

Il che vuol dire, tra le altre cose, che io sarò ancora più tragicamente in arretrato con tutto. Tipo che vorrei davvero infliggervi la narrazione del concerto di Madonna e vorrei parlare dell’ultimo capitolo degli Hunger Games e dell’ultimo film di Seymour Hoffman che son finalmente riuscita a vedere. Ma inevitabilmente mi perderò qualche pezzo per strada.

Anyway.

Serata di inaugurazione che parte con la bandiera francese sullo schermo e la marsigliese suonata dal gruppo dei sassofoni del conservatorio di Torino. Atto simbolico e forse dovuto ma che, per quel che può valere, ho apprezzato.

Ricordo di Orson Wells, cui il festival è dedicato, nella lettura di Giuseppe Battiston.

Madrina del festival Chiara Franchini che, onestamente, pareva capitata lì un po’ per caso. Stucchevole nella lettura della presentazione (che pure non avrà scritto lei, ma tant’è) prima, più simpatica ma comunque un po’ stonata dopo, quando si barcamenava per gestire il ritardo dei sassofonisti, al punto da far salire, piuttosto precipitosamente in verità, sul palco Emanuela Martini a cavarla d’impaccio e scongiurare il pericolo che sbracasse del tutto (visto l’abbrivio di battute preso sui prestanti sassofonisti che dovevano scaldare lo strumento). Non son sicura ma ho idea che la Martini quest’anno avesse poca voglia di salire sul palco e che la Franchini, dopo, possa essersi, per così dire, imbattuta nel suo disappunto. Rapido (e piuttosto brusco) congedo della medesima con mazzo di fiori dai colori verde, bianco e viola.

Green, White, Violet. Give Women Vote.

E si arriva quindi ad una brevissima presentazione del film da parte della regista, Sarah Gavron, accompagnata dalla sceneggiatrice Abi Morgan e dalla produttrice.

Considerazioni su come il tema delle Suffragette sia stato affrontato pochissimo dal cinema e come questo sia forse il primo film sull’argomento con così tante donne dietro e davanti alla macchina da presa.

Il film.

Non male, anche se sicuramente ne ho visti di più coinvolgenti. Per essere un film sui diritti civili avrebbe sicuramente potuto essere più trascinante. Soprattutto trattandosi di una causa di proporzioni così macroscopiche.

Inghilterra, 1912. Il movimento per il suffragio femminile esiste nel Regno Unito fin dalla metà dell’Ottocento ma è solo ai primi del Novecento che le sue azioni cominciano a diventare in qualche modo significative. Il film segue in particolare le vicende delle attiviste guidate da Emmeline Pankhurst.

Le richieste delle donne venivano ridicolizzate o, al più, tollerate con condiscendenza. Far valere il proprio diritto entro i parametri di una legge che ne negava la legittimità di fondo era un paradosso che non era più possibile protrarre oltre. Servivano nuovi metodi. Bisognava uscire dalla legge per cambiarla. E così le proteste, le vetrine spaccate, gli arresti, gli scioperi della fame, le azioni organizzate.

Un quadro di desolante arretratezza e bieca discriminazione nel cuore di un’Europa che forse tende a dimenticare i propri limiti e le proprie battaglie.

Le condizioni di lavoro disumane, la prevaricazione accettata come una realtà fisiologica e incontestabile.

Gli arresti e la nutrizione forzata per interrompere gli scioperi della fame.

Le Suffragette erano donne di qualsiasi estrazione sociale. Ricche, povere, colte, ignoranti. Erano lavoratrici. Erano mogli ed erano madri in una società che le riteneva emotivamente instabili e inadatte ad esercitare il diritto di voto.

Erano anche donne sole. Isolate nella loro battaglia, circondate dall’ostilità delle proprie famiglie e bollate col marchio della vergogna.

Cast molto valido.

Carey Mulligan nel ruolo, tristissimo, di Maud. E poi Helena Bonham Carter, Anne-Marie Duff e Meryl Streep nei panni di Emmeline Pankhurst.

Pochi ruoli maschili. Ben Whishaw nel ruolo del marito di Maud e Brendan Gleeson, poliziotto.

In chiusura passa l’elenco delle date in cui il voto alle donne è stato concesso nei vari paesi del mondo. Per la cronaca, l’Italia (1946) viene dopo la Turchia (1930) e la Svizzera, con quel che se la tira, arriva solo nel 1971.

Alla fine dell’elenco ci sono gli Emirati Arabi che nel 2015 hanno promesso il voto alle donne.

Nota di costume.

Pessimo il comportamento in sala, con gente che se n’è andata durante il film e, soprattutto, con la quasi totalità del pubblico che si è alzato prima ancora che finisse di scorrere l’elenco delle date. Dei titoli di coda manco a parlarne. Sembrava che fossero tutti inseguiti da qualcosa. E meno male che siamo ad un film festival. Il tutto a luci spente, dato che le luci si accendono solo alla fine dei titoli, e con me che auspicavo sinceramente che si inciampassero tutti nei gradini.

Cinematografo & Imdb.

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Zombie-movie o non zombie-movie? Questo è il dilemma. Perché qui non abbiamo esattamente dei morti che ritornano in vita. Qui abbiamo degli infetti. Sì. Anche i morti viventi sono a loro modo infetti – infettati da un virus che li ha uccisi o che comunque rimane latente per poi attivarsi post mortem – ma qui abbiamo dei vivi infetti.

Per la precisione infettati da una forma particolarmente violenta di rabbia che fa sì che perdano il senno e qualsiasi vestigia di umanità e brancolino in giro pencolando e cercando di nutrirsi di carne umana come degli zombie.

Ok. Va bene. E Zombie-movie sia. Per struttura e per connotazione dell’epidemia.
Per essere ancora più pignoli, distopico post apocalisse zombie.

Danny Boyle, reduce dal flop di The Beach, torna e cambia di nuovo genere, con un dichiarato omaggio alla storica trilogia di Romero e, prima ancora, a coloro che già di Romero furono gli ispiratori, non ultimo Matheson di I Am Legend.

A questo aggiunge qualche ammiccamento ad altri esemplari di più recente generazione, come l’immediatamente precedente Resident Evil – il risveglio di Alice nuda in un ospedale deserto nel mezzo di una città ormai svuotata dall’infezione ha in qualche modo fatto scuola, come testimonia il povero Cillian Murphy, anche lui impietosamente ignudo e abbandonato su un lettino ospedaliero (e come non si asterranno dal citare neppure i Walking Dead di Darabont, con la situazione iniziale del personaggio di Rick). E inserisce un antefatto a sfondo sociale che suggerisce l’idea di una valenza simbolicamente antropologica di tutta la faccenda.

Il tutto prende il via da un blitz di animalisti che fanno irruzione in un laboratorio per liberare le scimmie che vengono usate come cavie per la sperimentazione. Le scimmie però sono state infettate dalla rabbia.

Basta un morso. Basta anche meno. Sangue o saliva.

Jim (Cillian Murphy, al tempo pressoché sconosciuto e che io adoro smodatamente dopo Breakfast on Pluto – no, non c’entra un cazzo ma sentivo il bisogno di dirlo) è in coma a seguito di un incidente in motorino. Si sveglia ma nell’ospedale non c’è nessuno. Esce in strada ma non c’è più nessuno da nessuna parte.

Spettacolare la sequenza di Londra deserta, abbandonata e recante i segni della recente epidemia.

La struttura nel complesso è abbastanza canonica.

Primi contatti con gli infetti. Incontro con qualche altro sopravvissuto. Aggregazione. Scappa-ammazza-nasconditi. Sopravvivenza. Ricerca di qualche residuo di civiltà, di un posto verso il quale mettersi in marcia.

Il gruppo è composto da Jim, Selena, Hannah, una ragazzina, e suo padre Frank (il sempre apprezzato Brendan Gleeson).

C’è un messaggio radio. Forse c’è qualcuno che ha una cura. Qualcuno che ha idea di come ricominciare.

Bella l’alternanza di momenti adrenalinici e parentesi di quiete – la scena del supermercato è fighissima.

Poco splatter in generale, con gli infetti sanguinanti sputacchianti ma mai eccessivamente malridotti, e i movimenti a scatti ottenuti con riprese accelerate e sovraesposte. Non che la cosa di per sé sia un pregio – un po’ di splatter in uno zombie-movie mi pare il minimo sindacale – ma ha l’effetto di rendere più efficaci le poche scene effettivamente cruente.

Angosciante e ansiogeno com’è giusto che sia, si rivela anche tutt’altro che banale con la virata dell’ultimo terzo di film. Slittamento. Cambio prospettiva. Non improvviso ma graduale. Strisciante come una consapevolezza, un dubbio che si insinua – chi è il vero nemico? – con un richiamo alla lettura antropologica accennata con l’antefatto e un finale originale e intelligente.

Cinematografo & Imdb.

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