Tratto dall’omonima pièce teatrale di David Lindsay-Abaire, Rabbit Hole è passato nelle sale un po’ in sordina, nonostante la nomination – peraltro forse un po’ eccessiva – di Nicole Kidman come miglior attrice protagonista all’edizione degli Oscar del 2011.
Trama semplice ma estremamente delicata, di quelle tematiche che basta niente e viene fuori il melodramma.
Becca e Howie sono una giovane e bella coppia che ha tutto ciò che si può desiderare, finché la loro vita non viene stravolta dalla perdita del figlioletto di tre anni.
La regia di John Cameron Mitchell è delicata e discreta e conduce dentro le lussuose mura della grande casa a tragedia già avvenuta.
Si entra fin da subito in una dimensione di apparente quotidianità, nella quale però si avverte il sottofondo di una nota dissonante.
Troppi silenzi e, soprattutto, troppe parole di circostanza. Gesti forzatamente normali e infinite distanze che prendono forma e consistenza tra i due coniugi che sono uniti e separati da un dolore che non sanno come affrontare e che, prima di tutto, non sanno affrontare insieme.
Non sanno o non possono.
Ognuno ha i suoi posti nei quali rifugiarsi per sfuggire al dolore.
Ognuno ha il suo modo di evitarlo o affrontarlo.
E non c’è gesto o atto d’amore che possa infrangere la cortina di solitudine che il dolore ti butta addosso.
Becca e Howie hanno perso loro figlio ma vivono due lutti separati.
Molto valide le interpretazioni dei due protagonisti, mai sopra le righe, mai eccessivamente patetici.
Si trasmette molto bene la reale concretezza di una perdita che è prima di tutto assenza costante in ogni singolo gesto.
Quello che arriva non è il dolore urlato della tragedia appena compiutasi ma quello silenzioso e letale delle piccole impronte sulle porte, dei disegni attaccati al frigo, della cameretta con i giochi, del cane che scappa fuori dal giardino.
Molto ben orchestrato anche il coro dei personaggi secondari, con il gruppo di sostegno e il rifiuto di Becca di cercare conforto in qualcosa in cui non crede; con la madre che cerca di lenire il dolore della figlia accostandole quello che a sua volta ha provato – senza ovviamente riuscirvi; con le dinamiche relazionali congelate nell’imbarazzo di un dolore che non si può neanche pensare.
Bellissimo il rapporto di Becca con il giovane Jason (Miles Teller), del quale non posso dire altro per evitare spoiler. E bellissimo il modo in cui questo rapporto entra in scena e gradualmente sposta la prospettiva. Poco per volta, impercettibilmente, ma in modo determinante.
Resta una sensazione cupa e opprimente. Una tristezza prepotente che non ti lascia per un po’.
Da vedere.
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