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Archive for dicembre 2012

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Mi considero una fan piuttosto fedele di Dario Argento. Penso di aver visto praticamente tutto quello che ha fatto e sono in quella condizione – tipica da fan appunto – che alla fine mi piace anche quando non mi piace, se si capisce il concetto.
E’ pur vero che per Dario Argento bisogna adottare dei parametri di giudizio appositamente dedicati e dimenticarsi tutta una certa abitudine al canone horror a cui Hollywood ci ha assuefatti.

Questa sera sono reduce da Dracula 3D. Dracula secondo Argento.

Sinceramente ero parecchio dubbiosa sul risultato e invece son rimasta persino stupita perchè è un film decisamente raffinato sotto diversi aspetti. Tolto Il Fantasma dell’Opera che era ambientato più o meno a fine Ottocento ma si svolgeva quasi interamente all’interno del teatro, questo è il primo film di Argento di ambientazione interamente storica.

Il 3D è fatto bene anche se, come ormai nella maggior parte dei casi, non aggiunge nulla al film. Splatter ridotto davvero al minimo, sia come inquadrature truculente – pressoché assenti – sia come quantità di sangue – che comunque è davvero troppo chiaro e a volte tende pure un po’ al fucsia. Piccola eccezione, peraltro ben riuscita, la scena in cui Dracula costringe Delbruck a spararsi alla gola e si vede un bel rallentatore del proiettile che attraversa la bocca e poi il palato per uscire dal cranio spalmandone il contenuto sul soffitto.

Enorme debito nei confronti del Dracula di Bram Stoker di F.F. Coppola. Per carità, la storia di partenza è sempre la stessa non è che si possano fare molte varianti, ma la scelta di alcune battute (i figli della notte, che dolce musica fanno in questo e i figli della notte, quale dolce musica emettono nell’altro) e l’impostazione di alcune scene (per esempio quella dove Harker si affaccia alla finestra e vede il Conte camminare a quattro zampe sulle mura, tanto per dire la prima che mi viene in mente) rivelano davvero troppo palesemente l’eredità di quel precedente in particolare.

Il digitale. Volendo sorvolare sul fatto che DA lo usa se non per la prima volta poco ci manca con quei dieci anni abbondanti di ritardo rispetto al resto del mondo del cinema, non offre grandi rielaborazioni. Pessime le fiamme che avvolgono Lucy; assolutamente bocciate. Spesso e volentieri utilizza ancora interiora di maiale per le scene truculente e per una volta che qualcosa va fatta alla vecchia maniera ci mette in mezzo il digitale, ma pazienza. Bocciatissima anche la mantide. Ecco, lì poteva anche prendere l’idea di Coppola e rifare la sagoma fatta di topi.

Kretschmann nei panni del Conte ci sta abbastanza bene (anche se le scene in cui urla e vorrebbe essere spaventoso non sono esattamente il massimo).

Lucy è interpretata da Asia Argento che, per quanto io le voglia davvero bene, dovrebbe smetterla di doppiarsi da sola dato che parla come se si stesse lavando i denti.

Rispolverato per l’occasione un ormai un po’ incartapecorito ma ancora valido Rutger Hauer nei panni di Van Helsing.

La storia è quella nota a tutti, ridimensionata un po’ per l’occasione, trasportata in un piccolo paesino (molte riprese si sono svolte nel suggestivo Ricetto di Candelo) e riadattata su scala decisamente più ridotta, con qualche concessione qua e là e atmosfere giustamente molto goticheggianti.

Musiche ancora una volta di Claudio Simonetti.

Morale. Piacerà come sempre agli appassionati di Argento ma è comunque apprezzabile anche da chi non è strettamente addicted.

Cinematografo & Imdb.

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2027

Ho guardato questo film praticamente per caso dopo averlo lungamente snobbato, prima nelle sale poi in dvd. Un po’ perché i film ambientati a corte non sono in cima alla mia top ten, un po’ per Kirsten Dunst che – nonostante ogni tanto incappi anche in qualche interpretazione azzeccata – continua a non suscitarmi particolari entusiasmi e un po’ perché, banalmente, una volta tolto dalle sale, proprio non ci ho più pensato. Poi è andata che qualche tempo fa mi hanno prestato il dvd e quindi.

Sicuramente non è un brutto film.

E’ – ma è quasi superfluo dirlo – esteticamente un capolavoro di costumi (Oscar 2007, Milena Canonero). E’ perfetto oltre i limiti del maniacale nei dettagli di ogni scenografia e di ogni ambiente. E’ scorrevole e persino divertente in alcune parti. Di certo è un film di ambientazione storica ma non è un film storico. La ricostruzione degli eventi che scandiscono l’esistenza di Marie Antoinette è precisa e coerente ma non è sicuramente quello che interessa a Sofia Coppola.

Il nucleo centrale è la persona di Marie Antoinette e il conflitto che si crea con il personaggio che viene chiamata ad interpretare. Vediamo quindi una ragazzina già viziata e sicuramente ingenua, catapultata – attraverso il crudelissimo e simbolico rito di passaggio nella tenda dove deve abbandonare tutto ciò che è austriaco a favore di ciò che è francese, cane compreso – in un mondo che è l’amplificazione all’ennesima potenza di quello da cui proveniva, un mondo che la affascina, la abbaglia e infine la stordisce, lasciandola annichilita e incapace di incanalare altrimenti il suo malessere, se non continuando a nutrirsi avidamente dell’unica cosa che quel mondo può darle: altro lusso, altri fasti, altra eccentricità.

Vediamo un’adolescente in crisi, incapace di gestire e, prima ancora, di capire il ruolo che le hanno infilato addosso insieme alle parrucche e ai vestiti incredibili. Un’adolescente che manifesta il suo disagio attraverso l’unico mezzo del quale le è concesso disporre, la sua ricchezza. Totalmente disinteressata verso la sua reale (in entrambe le accezioni se mi si passa il gioco di parole di livello in verità piuttosto bassino) posizione e i doveri che essa comporterebbe, non per cattiveria ma per genuina e spontanea immaturità. Un’immaturità dalla quale non esce neanche con il passare degli anni, sicuramente non aiutata dal disastroso e totalmente inconcludente matrimonio che le viene imposto, costringendola all’ennesima fuga tra le braccia di un amante che ha la stessa consistenza – e importanza – delle scarpe, degli accessori, dei tessuti.

Anche in questo caso quello che interessa a Sofia Coppola è l’interiorità. Un’interiorità che indubbiamente soffre ma che non riesce a trovare altro modo per reagire a questo dolore se non quello di cristallizzarsi in un eterno, infantile e infruttuoso tentativo di fuga che si protrarrà praticamente fino alla fine. Marie Antoinette non cresce mai, non matura mai. E’ una creatura fondamentalmente sola e non può che trovare conforto nella gratificazione del proprio ego.

Intento introspettivo estremamente lodevole di per sè, ma – e qui arriva il limite maggiore del film – non sfruttato in tutte le sue potenzialità. La regista avrebbe dovuto osare di più. Staccarsi anche dagli ultimi rimasugli di rappresentazione storica e fare per ogni aspetto del film la stessa scelta che fa per la colonna sonora. Non in tono con l’epoca ma con gli stati d’animo. Abbiamo i Cure, gli Strokes, i New Order. Inserti di musica che ti fanno venire voglia di ibrido alla Moulin Rouge, salvo poi rimanere solo un bel particolare in più, senza andare da nessuna parte. C’era il materiale e, soprattutto, c’era la giustificazione per osare di più, per rendere più rock questa regina bambina, prigioniera nella sua reggia da favola. Invece si rimane sempre un po’ a metà, in bilico tra una rappresentazione che sicuramente si riconosce come diversa da quella convenzionale ma che non osa manifestare fino in fondo questa diversità.

Nel complesso rimane comunque un film gradevole e stilisticamente molto curato. Anche Kirsten Dunst non è male. Sta bene in questa parte, con la sua aria perennemente svampita e l’aspetto di una bambina vestita con i panni dei grandi. Nel cast compare anche Asia Argento in un piccolo – ma ovviamente chiassoso – ruolo secondario.

Cinematografo & Imdb.

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Mi metto finalmente a scrivere mentre mi parte in loop per l’ennesima volta Come of Age dei Vaccines per il quale sono andata improvvisamente in fissa manco avessi quindici anni, e intanto rifletto sul fatto che, ecco, se proprio deve arrivare la catastrofe, please, non mentre sono ad una festa, tutta in tiro, e ci ho su un tacco dodici. Che per carità, voglio tanto bene alle mie (bellissime e affettuosissime) scarpe supertaccate e suppongo che indossarle nel pieno di un’emergenza denoti gran classe, ma se devo scappare per tutta la sera in mezzo alle macerie decisamente voglio le mie vecchie Converse.

Cloverfield (2008) è un film tendenzialmente sottovalutato.

E’ impostato come video amatoriale ritrovato tra le rovine di un disastro (in un posto una volta noto come Central Park) e ormai di proprietà del governo degli Stati Uniti. E fin qui, di per sè, niente di nuovo. Ma il punto è anche questo.

Cloverfield non ha la pretesa di dire qualcosa di nuovo sul genere attacco-a-Manhattan, all’interno del quale fondamentalmente si colloca. E’, allo stesso tempo, un tributo ad un certo tipo di film che vanno da King Kong a Godzilla e il punto d’arrivo dell’evoluzione di un genere dopo l’esperienza, ormai acquisita e consolidata, di esperimenti come Blair Witch Project, con un consistente richiamo al filone teen-horror e un pizzico di sindrome post undici settembre (la scena della gente per strada che avanza incredula coperta dalla polvere bianca che si alza dalle macerie è, di fatto, definitivamente entrata nell’iconografia cinematografica) per completare il tutto.

La telecamera a mano. Nella prima parte balla effettivamente parecchio, con le riprese dei messaggi di auguri per il festeggiato prossimo a partire per il Giappone alternati agli spezzoni delle riprese precedentemente registrate su quel nastro e maldestramente cancellate dagli amici. Spezzoni confusi, improvvisi cambi di inquadrature, ondeggiamenti. Ma è anche la parte di massima plausibilità della ripresa amatoriale. Nel senso che non c’è un solo momento della festa nel lussuoso appartamento di Manhattan dove risulti quanto meno insolito il fatto che qualcuno stia facendo delle riprese. Anche quando comincia il casino, in realtà, le riprese ci stanno, se si pensa che in effetti, per qualunque cosa più o meno insolita che succede c’è almeno una decina di persone che riprendono con i telefonini e mettono su YouTube. E la testa della statua della libertà staccata e lanciata in mezzo alla strada probabilmente l’avrei fotografata anch’io.

Tuttavia, man mano che la situazione precipita e si fa più concitata, la telecamera comincia da un lato ad essere fin troppo stabilizzata – che per carità, dal punto di vista dello spettatore è indubbiamente meglio e rende più facile concentrarsi su quello che sta succedendo piuttosto che cercare di capire cosa si sta vedendo – e, d’altro canto, l’eventualità che il ragazzo che vi sta dietro possa pensare davvero di riprendere risulta sempre meno plausibile. Certo, è esattamente il genere di concessione che si deve fare se si accetta di vedere un film impostato come filmato amatoriale, però, non so, se mi ammazzassero un amico davanti agli occhi non credo che riuscirei a riprendere tranquillamente la faccia di suo fratello per documentarne la reazione. E’ anche vero che non sono nata in America e gli americani il senso dello spettacolo ce l’hanno nel DNA.

In ogni caso, il ritmo è ottimo, i colpi di scena e i vari step dell’aggravarsi della situazione sono ben distribuiti perchè ti viene dato il giusto tempo di assimilarne uno prima che arrivi il successivo. Il mostro è davvero ben fatto e riassume nelle sue sembianze tutte le possibilità – creatura preistorica, aliena, frutto di esperimenti – sulla sua origine. L’intervento dei militari nella scena in cui si rendono conto che Marlena è stata morsa, inoltre, strizza l’occhio a tutti i vari film da pandemia indotta.

Morale, mi è piaciuto molto. E sicuramente ha il pregio di sfruttare bene lo spunto di partenza senza lasciare quel retrogusto di occasione persa che spesso si portano dietro i film di questo tipo. Carino anche l’inserimento di un fotogramma di King Kong nell’inquadratura fissa dopo l’abbattimento dell’elicottero, in una sorta di ulteriore piccolo omaggio all’illustre predecessore di chiunque voglia arrogarsi il diritto di passeggiare, enorme e minaccioso, tra i grattacieli di Manhattan.

E poi ha ispirato questa…

Cinematografo & Imdb.

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Weekend piuttosto pigro e decisamente meno produttivo di quanto avrei sperato, con il carico di recensioni arretrate praticamente invariato, una quantità di bozze che comincia a diventare imbarazzante e una long-shot bloccata da così tanto tempo da essere ormai ufficialmente una fonte di ansia.

Ma. A mia discolpa posso dire che ho almeno provveduto a colmare una lacuna cinematografica che di recente mi ha causato più di uno sguardo ricco di sfumature tra l’incredulità, la compassione e la disapprovazione.

No, non avevo mai visto Lost in Translation.  Ci sono diverse ragioni e nessuna ragione in particolare. Di sicuro un certo ruolo lo ha avuto, tanto per cambiare, quell’orrendo sottotitolo (L’amore tradotto?! – ma siete cretini?!) che gli è stato appioppato nella versione italiana e che, fin da quando era uscito, ha fatto sì che lo archiviassi mentalmente sotto la categoria “commedia melensa”.

Ovviamente, nulla di più lontano dal vero.

Non è una commedia. E non è un film d’amore.

E’ un film in cui i sentimenti hanno un ruolo determinante, certo. Ma non è un film sentimentale. Il che già di per sè non è cosa da poco.

Girato interamente a Tokio, il film vede la grande metropoli giapponese con le sue luci, i suoi videogiochi, la sua enormità di palazzi, gente, locali e attività fare da sfondo e da contrasto all’emotività inquieta e solitaria dei due protagonisti.

Bob (Bill Murray), attore ormai in declino, due figli e una vita matrimoniale non esattamente idilliaca, reclutato per la – pur remunerativa ma di sicuro non soddisfacente – pubblicità di un whisky; Charlotte (Scarlett Johansson), neolaureata al seguito del marito fotografo, indaffaratissimo e del tutto assente, alle prese con le incertezze riguardo al proprio futuro e il dubbio – sempre più insistente – di non avere la più pallida idea di chi sia realmente la persona che ha sposato. Entrambi fondamentalmente soli, spaesati, catapultati dove non vorrebbero essere, in un posto che, lungi dal rappresentare una fuga diventa un ulteriore amplificatore della loro sensazione di estraneità nei confronti del mondo e della loro stessa esistenza.

Why do you have to point out how stupid everyone is all the time? 

Si conoscono per caso al grande bar dell’albergo dove entrambi si rifugiano per sfuggire all’insonnia, alla solitudine e a tutto il resto. Comincia tra loro un’amicizia fondata prima di tutto sul reciproco riconoscimento del loro essere entrambi fuori posto e poi sulla complicità che, di conseguenza, si instaura con la condivisione di uno stato d’animo profondo ed essenzialmente non esternabile. Si instaura un legame che ha come chiave il loro sentirsi (ed essere) fondamentalmente incompresi e l’impossibilità/incapacità di comunicare (altro aspetto, questo, ad essere ulteriormente sottolineato e rappresentato dall’ambientazione giapponese).

You’re probably just having a mid-life crisis. Did you buy a Porsche yet? 

E poi c’è questa scena della camera da letto che da sola vale tutto il film. Nello spazio anche piuttosto ristretto di un dialogo e di un letto matrimoniale si concentra una tale quantità di verità espresse in un modo talmente semplice, talmente essenziale da risultare quasi disarmante. Tutto il pathos e l’enfasi del mondo non avrebbero potuto raggiungere lo stesso livello di empatia che questa scena riesce a suscitare.

I guess every girl goes through a photography phase. You know, horses… taking pictures of your feet. 

Ecco, dopo questa, oltre ad essermi strozzata con la tisana allo zenzero devo aver pensato qualcosa del tipo ok, finisco di vedere il film poi vado a nascondermi. E’ la sensazione spiazzante e in qualche modo imbarazzante di quando ti trovi a guardare un parte di te stesso dall’esterno. Di quando un pezzo della tua vita ti viene ributtato addosso a tradimento. E’ ritrovare qualcosa in un posto dove mai più ti saresti aspettato che saltasse fuori.

Lost in Translation è un film di rara delicatezza; interamente e dichiaratamente impregnato di introspezione, riesce tuttavia ad evitarne le insidie e i risvolti claustrofobici, scegliendo di gestire quello che è un nucleo centrale fondamentalmente drammatico attraverso le forme di un’ironia disillusa e divertita che alleggerisce moltissimo l’atmosfera – regalando anche dei momenti estremamente spassosi, come le prove delle riprese per la pubblicità del whisky – e al tempo stesso cattura ancora di più sul piano emotivo.

Sia Murray che la Johansson sono perfetti. In particolare Murray riesce ad essere veramente – anche dal punto di vista delle espressioni – un capolavoro di cinica e consapevole ironia. E per una volta non ho niente da ridire neanche sul doppiaggio perchè la scelta di Oreste Rizzini (la voce storica di Michael Douglas, per intenderci) è effettivamente calzante per il personaggio.

In definitiva, sì, era un film che decisamente andava visto.

In realtà la mia lacuna si estendeva praticamente a tutta Sofia Coppola, della quale avevo visto solo Marie Antoniette – e del quale adesso mi è venuta voglia di parlare per cui aspettatevi un post a breve. Il che significa che adesso (visto che una volta che entro, per così dire, in contatto con un autore devo assolutamente mettermi in pari con tutto quello che ha fatto fino a quel momento) mi mancano ancora Il giardino delle vergini suicide e Somewhere – che tra l’altro è stato il Leone d’Oro di Venezia 2010.

Cinematografo & Imdb.

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