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Archive for 3 dicembre 2012

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Weekend piuttosto pigro e decisamente meno produttivo di quanto avrei sperato, con il carico di recensioni arretrate praticamente invariato, una quantità di bozze che comincia a diventare imbarazzante e una long-shot bloccata da così tanto tempo da essere ormai ufficialmente una fonte di ansia.

Ma. A mia discolpa posso dire che ho almeno provveduto a colmare una lacuna cinematografica che di recente mi ha causato più di uno sguardo ricco di sfumature tra l’incredulità, la compassione e la disapprovazione.

No, non avevo mai visto Lost in Translation.  Ci sono diverse ragioni e nessuna ragione in particolare. Di sicuro un certo ruolo lo ha avuto, tanto per cambiare, quell’orrendo sottotitolo (L’amore tradotto?! – ma siete cretini?!) che gli è stato appioppato nella versione italiana e che, fin da quando era uscito, ha fatto sì che lo archiviassi mentalmente sotto la categoria “commedia melensa”.

Ovviamente, nulla di più lontano dal vero.

Non è una commedia. E non è un film d’amore.

E’ un film in cui i sentimenti hanno un ruolo determinante, certo. Ma non è un film sentimentale. Il che già di per sè non è cosa da poco.

Girato interamente a Tokio, il film vede la grande metropoli giapponese con le sue luci, i suoi videogiochi, la sua enormità di palazzi, gente, locali e attività fare da sfondo e da contrasto all’emotività inquieta e solitaria dei due protagonisti.

Bob (Bill Murray), attore ormai in declino, due figli e una vita matrimoniale non esattamente idilliaca, reclutato per la – pur remunerativa ma di sicuro non soddisfacente – pubblicità di un whisky; Charlotte (Scarlett Johansson), neolaureata al seguito del marito fotografo, indaffaratissimo e del tutto assente, alle prese con le incertezze riguardo al proprio futuro e il dubbio – sempre più insistente – di non avere la più pallida idea di chi sia realmente la persona che ha sposato. Entrambi fondamentalmente soli, spaesati, catapultati dove non vorrebbero essere, in un posto che, lungi dal rappresentare una fuga diventa un ulteriore amplificatore della loro sensazione di estraneità nei confronti del mondo e della loro stessa esistenza.

Why do you have to point out how stupid everyone is all the time? 

Si conoscono per caso al grande bar dell’albergo dove entrambi si rifugiano per sfuggire all’insonnia, alla solitudine e a tutto il resto. Comincia tra loro un’amicizia fondata prima di tutto sul reciproco riconoscimento del loro essere entrambi fuori posto e poi sulla complicità che, di conseguenza, si instaura con la condivisione di uno stato d’animo profondo ed essenzialmente non esternabile. Si instaura un legame che ha come chiave il loro sentirsi (ed essere) fondamentalmente incompresi e l’impossibilità/incapacità di comunicare (altro aspetto, questo, ad essere ulteriormente sottolineato e rappresentato dall’ambientazione giapponese).

You’re probably just having a mid-life crisis. Did you buy a Porsche yet? 

E poi c’è questa scena della camera da letto che da sola vale tutto il film. Nello spazio anche piuttosto ristretto di un dialogo e di un letto matrimoniale si concentra una tale quantità di verità espresse in un modo talmente semplice, talmente essenziale da risultare quasi disarmante. Tutto il pathos e l’enfasi del mondo non avrebbero potuto raggiungere lo stesso livello di empatia che questa scena riesce a suscitare.

I guess every girl goes through a photography phase. You know, horses… taking pictures of your feet. 

Ecco, dopo questa, oltre ad essermi strozzata con la tisana allo zenzero devo aver pensato qualcosa del tipo ok, finisco di vedere il film poi vado a nascondermi. E’ la sensazione spiazzante e in qualche modo imbarazzante di quando ti trovi a guardare un parte di te stesso dall’esterno. Di quando un pezzo della tua vita ti viene ributtato addosso a tradimento. E’ ritrovare qualcosa in un posto dove mai più ti saresti aspettato che saltasse fuori.

Lost in Translation è un film di rara delicatezza; interamente e dichiaratamente impregnato di introspezione, riesce tuttavia ad evitarne le insidie e i risvolti claustrofobici, scegliendo di gestire quello che è un nucleo centrale fondamentalmente drammatico attraverso le forme di un’ironia disillusa e divertita che alleggerisce moltissimo l’atmosfera – regalando anche dei momenti estremamente spassosi, come le prove delle riprese per la pubblicità del whisky – e al tempo stesso cattura ancora di più sul piano emotivo.

Sia Murray che la Johansson sono perfetti. In particolare Murray riesce ad essere veramente – anche dal punto di vista delle espressioni – un capolavoro di cinica e consapevole ironia. E per una volta non ho niente da ridire neanche sul doppiaggio perchè la scelta di Oreste Rizzini (la voce storica di Michael Douglas, per intenderci) è effettivamente calzante per il personaggio.

In definitiva, sì, era un film che decisamente andava visto.

In realtà la mia lacuna si estendeva praticamente a tutta Sofia Coppola, della quale avevo visto solo Marie Antoniette – e del quale adesso mi è venuta voglia di parlare per cui aspettatevi un post a breve. Il che significa che adesso (visto che una volta che entro, per così dire, in contatto con un autore devo assolutamente mettermi in pari con tutto quello che ha fatto fino a quel momento) mi mancano ancora Il giardino delle vergini suicide e Somewhere – che tra l’altro è stato il Leone d’Oro di Venezia 2010.

Cinematografo & Imdb.

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