Stavo scorrendo un po’ di recensioni e notavo che, per lo più, questo povero Mockingjay ha avuto un’accoglienza tiepida nel migliore dei casi, quando non proprio ostile.
Sì, va bene, siamo tutti d’accordo – mi ero lamentata anch’io di questa cosa a suo tempo – che dividere in due l’ultimo capitolo di una trilogia è una moda che sta prendendo piede per mere ragioni commerciali.
Però, a un certo punto, questo aspetto non può neanche diventare l’unico parametro per giudicare il film, anche perché in tal caso ha poco senso proprio andarlo a vedere. Lo si condanna a prescindere come prodotto di marketing e amen. Se si va a vederlo si potrebbe anche far caso a qualche altra cosa. Per esempio che è un buon film.
Il terzo libro della saga della Collins ha materiale sufficiente per tirarci fuori due film? Di fatto sì.
Il materiale in questione è ben utilizzato?
Anche qui la risposta è sì.
Ergo, fatte le dovute considerazioni, non capisco tutto questo accanimento.
Questa prima parte del Canto della Rivolta è in parte interlocutoria, esattamente come lo era la prima parte del libro ma è essenziale. Non sarà tutta azione in senso stretto ma è densissima di elementi. Ed è tutt’altro che lenta.
A me, personalmente, questa serie di film sta piacendo sempre di più ad ogni nuovo capitolo. Perché è resa in modo estremamente fedele ed estremamente per adulti, pur derivando da un cosiddetto young adult. Nel complesso è molto più adult che young.
E non mi stancherò mai di ripetere che, anche visivamente, hanno fatto un gran lavoro perché, soprattutto nei due capitoli precedenti ma anche qui, tutta l’elaborazione di costumi e trucchi se non era più che equilibrata rischiava di ridursi ad una gran carnevalata.
In questo capitolo i colori sgargianti di Capitol City e di tutto il circo mediatico degli Hunger Games spariscono, sostituiti dalle atmosfere grigie del Distretto 13, dove persino l’eccentrica ed esteticamente inflessibile Effie Trinket è costretta ad indossare un’anonima tuta da lavoro.
Dopo la conclusione degli ultimi giochi, Katniss è stata salvata e si trova di colpo ad essere il fulcro e il simbolo della resistenza e della lotta per la liberazione di Panem dalla tirannia di Capitol City.
Si muove tra i claustrofobici ambienti del Distretto 13 e la devastazione seminata da Snow nei distretti che si sono sollevati, con particolare accanimento per il Distretto 12.
L’aspetto mediatico di tutta la faccenda è essenziale. Così come lo è la sua valenza ambigua. E trovo che anche questo elemento sia stato reso benissimo.
Tutto il film ruota intorno allo scambio di messaggi, più o meno diretto, più o meno esplicito, tra Capitol City e la Resistenza. Ed entrambi hanno un simbolo con cui veicolare questi messaggi. Katniss è la voce della Resistenza ma Capitol City è riuscita a riprendersi Peeta prima che potesse essere salvato. E Peeta compare sulle reti della capitale propagandando inspiegabili messaggi di pace. Katniss, dal canto suo, più che per combattere sembra esser stata ingaggiata solo per esortare le folle e questo, manco a dirlo, contrasta con la spontaneità dei suoi precedenti gesti di ribellione.
Questa prima parte è una preparazione alla guerra finale ma è anche, essa stessa, già una guerra. Una guerra mediatica dove la potenza dell’immagine è più forte e ancora più pericolosa della realtà stessa. Dove l’immagine rischia di soffocare quello che dovrebbe trasmettere a favore dell’ambigua natura del potere.
Interpreti validissimi, come sempre. Haymitch, in particolare, mi dà sempre grandi soddisfazioni. Già nel libro era un personaggio che adoravo e qui Woody Harrelson lo rende benissimo.
La Lawrence è brava. Anche se non è una parte da oscar e non è un film impegnato. Poi non lo so, sarò io che con gli anni sto diventando più emotiva, ma la scena in cui lei si fa prendere dal panico perché teme di perdere sia Gale che Peeta mi ha massacrata. E’ una scena relativamente corta ma risulta di una spontaneità disarmante. Ti arriva dritta al cuore. E arriva al cuore del personaggio di Katniss. Che non è la solita eroina pronta a salvare tutti. Katniss è un personaggio complesso e con un’individualità fortissima. Katniss è egoista, alla fin fine. Perché si muove sostanzialmente all’interno di parametri di valore che sono quasi sempre quelli del suo universo personale. Le sue motivazioni, non sono quasi mai nobili ideali ma affetti privati. Lei non vuole sfidare Capitol City. Lei vuole salvare Peeta. Tanto per fare un esempio. E poi c’è tutto l’aspetto psicologico della sua attrazione per le situazioni di sofferenza. La sua incapacità di restare a guardare. Tutti elementi che fanno di lei il perfetto simbolo della ribellione, in teoria, ma anche una mina vagante nel momento in cui il nuovo potere a capo della resistenza – incarnato dall’ex stratega Plutarch (Seymour-Hoffman) e dalla presidente Coin (Julianne Moore) – cerca di farne una marionetta al suo servizio.
Ah. Dimenticavo. Brano sui titoli di coda Yellow Flicker Beat di Lorde.
Bella recensione.
Concordo con il tuo pensiero: c’è stata troppa ostilità nei confronti del terzo Hunger Games.
Secondo me, il regista ha saputo trarre da un libro essenzialmente statico, per la prima parte, un dinamismo almeno a livello dei sentimenti. Io ho apprezzato Katniss e le sue crisi, perché erano umane.
Ho notato invece che molti altri si aspettavano nient’altro che una Katniss guerriera che sfida apertamente e fa guerriglia senza preoccuparsi delle conseguenze.
Non è affatto così: come hai detto tu, Katniss è essenzialmente egoista. Sul serio, hai colto il tratto fondamentale. Perciò agisce solo quando ottiene qualcosa che vuole. Di solito, si tratta di tenere strette a sé le persone che ama e niente di più.
Grazie! 🙂
E’ vero, non era così scontato che si riuscisse a rendere dinamica la prima parte del libro proprio perché incentrata non tanto sull’azione quanto sul giocarsi di equilibri relazionali molto delicati.
Katniss mi è sempre piaciuta molto perché non è quella che ci si aspetta. Non è quella che dovrebbe essere. E’ ben lontana dal cliché dell’eroina così come la trilogia degli Hunger Games non è quello che ci si aspettava all’inizio. Quando è uscito il primo sì, ok, scritto bene, avvincente, ma poteva essere semplicemente l’ennesima variazione sul tema ‘distopia adolescenziale’ con annesse solite tematiche. Invece la Collins è riuscita a partire dalle basi di un genere inflazionatissimo e ne ha fatto qualcosa di complesso e interessante.
Purtroppo buona parte degli spettatori del film non ha letto i libri e le aspettative sono generalmente conformi agli standard medi dei film di questo genere.