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Archive for the ‘Horror & Co.’ Category

Aspettando di riuscire ad andare a vedere The Nun – che esce oggi nelle sale –  mi sono rivista questo secondo capitolo dedicato alla beneamata Annabelle, la bambola posseduta da un’entità demoniaca custodita in una teca del museo dei coniugi Warren.

Se le vicende che compaiono a margine di The Conjuring rientrano ancora tra quelle ispirate a fatti realmente accaduti, per i due film dedicati ad Annabelle, benché sempre appartenenti all’universo di Conjuring e prodotti – anche se non diretti – dall’ottimo James Wan, questa dicitura scompare.

In effetti non so se si sappia da dove arriva la vera Annabelle.

Comunque.

Facciamo ancora un passo indietro rispetto ai fatti raccontati nel primo Annabelle e ci imbattiamo in Samuel Mullins, rinomato fabbricante di bambole. Nella sua casa in mezzo ai campi, Mullins crea modelli unici e ricercati di bambole e conduce una vita serena con sua moglie Esther e la piccola figlioletta Bee.

Come spesso accade in questi casi, è un incidente a spezzare l’armonia e la piccola Bee viene investita da una macchina.

Dodici anni più tardi ritroviamo Samuel nella casa semi deserta, Esther relegata in una camera a seguito – dice Samuel – di un brutto incidente e di una malattia cronica e la casa pulita e preparata per accogliere Suor Charlotte e un gruppo di bambine orfane.

Sono passati tanti anni ormai dalla morte di Bee e ospitare le ragazze sembra ai coniugi Mullins una buona opportunità per ricominciare e per lasciarsi il passato finalmente alle spalle.

Le ragazze hanno tutta la casa per loro. Come da tradizione, c’è però una stanza che deve rimanere chiusa – la vecchia stanza di Bee – e che, guarda un po’, vuole essere aperta.

Janice e Linda, le più piccole del gruppo di Suor Charlotte, sono le prime a venire in contatto con le stranezze di quella stanza. In particolare Janice, la più debole a causa dei segni della polio, viene presa di mira da qualcosa che sembra il fantasma della bambina e comincia a vedere cose strane legate alla bambola che ha trovato rinchiusa nel ripostiglio della stanza.

David F. Sandberg – già regista dell’ottimo Lights Out – costruisce un buon prequel per la celebre bambola e mette insieme un horror forse un po’ più canonico rispetto al resto della famiglia Conjuring ma comunque di buon livello.

La linea evolutiva della storia è piuttosto prevedibile e gli espedienti e gli effetti orrorifici non sono originalissimi ma la tensione si crea fin da subito e si salta diverse volte sulla poltrona.

Annabelle continua a far paura. Sia lei che ciò che la infesta continuano ad essere profondamente disturbanti, in particolar modo sullo sfondo della straziante elaborazione del lutto dei coniugi Mullins.

Anthony La Paglia e Miranda Otto sono i Mullins mentre nel ruolo di Linda c’è Lulu Wilson, la bambina inquietante di Ouija – Le origini del male.

La figura di Suor Charlotte serve un po’ da collegamento trasversale con la figura della suora demoniaca di Conjuring 2 e dell’imminente The Nun – anche se l’effetto olografico delle foto è piuttosto pessimo e forse si sarebbe potuto evitare.

Buono il ricongiungimento della trama con il capitolo successivo.

Piccolo cameo di una bambola dalle fattezze della vera Annabelle verso il finale.

Cinematografo & Imdb.

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Fa sempre un effetto un po’ strano leggere i libri da cui sono stati tratti grandi film. La versione di Polanski di Rosmary’s Baby è talmente famosa che è praticamente impossibile avvicinarsi al romanzo senza vedere immediatamente Mia Farrow con i suoi capelli cortissimi, gli occhioni sbarrati e il coltellaccio.

Ho comprato il romanzo di Ira Levin (1967) al Salone del Libro dell’anno scorso ma, benché avessi voglia di leggerlo subito, ho preferito aspettare che passasse un po’ di tempo dalla mia ultima visione del film, per cercare di smorzare un po’ l’effetto delle immagini.

Il mio scrupolo si è rivelato del tutto inutile dal momento che quel film lo so comunque a memoria ma pazienza.

E possiamo anche far finta di tralasciare le implicazioni inconsce (??) del fatto che mi sia messa a leggerlo proprio in questo periodo, quando sono circondata da amiche incinte, ma pazienza anche qui, altrimenti vado fuori tema e pericolosamente dentro argomenti a rischio.

New York. Rosemary e Guy Woodhouse, giovane coppia di sposini in cerca di un appartamento dove costruire il loro nido d’amore. Lu aspirante attore, lei aspirante mamma. Trovano la sistemazione perfetta al Bramford, un vecchio e cupo edificio molto ricercato per i suoi camini e per il suo stile e anche molto noto per la sequela insolitamente lunga di faccende macabre che vi hanno avuto luogo.

Rosemary e Guy decidono di non farsi condizionare e cominciano la loro nuova vita. Si ambientano. Fanno amicizia con i vicini, Minnie e Roman Castevet, una coppia di anziani signori senza figli che fin da subito si lega molto a Rosemary e a Guy. Un legame che pare svilupparsi da ambo le parti.

Anche se a volte Rosemary è un po’ infastidita dalla costante sollecitudine di Minnie. Certo, c’è l’indulgenza con cui va giudicato il comportamento di una persona così anziana, però…però Minnie e Roman sono davvero parecchio invadenti.

E quando Rosemary finalmente rimane incinta, le attenzioni si moltiplicano in modo troppo ossessivo per non risultare sospetto.

Ma chi sono veramente Minnie e Roman? E chi è veramente lo stesso Guy?

C’è un complotto contro il bambino di Rosemary? E c’è qualcuno disposto a crederle?

La prima cosa che colpisce leggendo le pagine di Levin è l’assoluta coincidenza tra libro e film. Lo stile asciutto, pulito, lineare di Levin sembra fatto apposta per tirarne fuori un copione. D’altro canto, Polanski non si sposta di un millimetro e restituisce una versione visiva totalmente fedele, tolta qualche lievissima discrepanza. Persino i dialoghi sono trasposti letteralmente sullo schermo.

Viene quasi da pensare che il buon Roman alla fin fine non abbia poi dovuto fare granché per quello che è considerato il suo capolavoro ma questa è una battutaccia da due soldi e il film del 1968 è a tutti gli effetti un capolavoro.

La fedeltà a questi livelli ha anche avuto l’effetto di vanificare ulteriormente i miei tentativi di crearmi delle immagini dal libro indipendenti dal film. E’ praticamente impossibile ma, proprio per il fatto che è tutto uguale, questo non intacca la godibilità della lettura.

Unica nota, conoscendo così bene la storia mi riesce un po’ difficile giudicare l’effettivo elemento di tensione/horror – che col film si ricrea comunque sempre ma che nel libro rimane un po’ in secondo piano rispetto alla curiosità di mettere il naso in casa Woodhouse. Non so dire come sarebbe a una prima lettura senza il film in sottofondo, anche se rimane comunque intatta la fredda e ironica forza dirompente della vicenda in relazione agli anni e al contesto di pubblicazione.

Sempre di Ira Levin è anche La fabbrica delle mogli (The Stepford Wives, 1972) da cui nel 1975 è stato tratto il film omonimo, poi rifatto nel 2004 con il titolo La donna perfetta.

Rosemary e Guy Woodhouse avevano già firmato il contratto d’affitto per un appartamento di cinque locali in un palazzone tutto bianco su First Avenue quando, da una certa signora Cortez, vennero a sapere che nel Bramford se n’era liberato uno di quattro locali. Il Bramford, un vecchio edificio nero e imponente, è un agglomerato di appartamenti coi soffitti alti, ricercatissimi per via dei camini e dei particolari vittoriani. Rosemary e Guy si erano messi in lista fin dal giorno in cui s’erano sposati, ma alla fine avevano dovuto arrendersi.

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E ritorniamo anche alle sane abitudini del giovedì.

In realtà al momento sono piuttosto distratta perché mi rendo conto che questo posto avrebbe bisogno di una bella ripulita/rinnovata, tra link che portano a perdere e feed che non funzionano, ma la situazione è un po’ quella di quando si devono far le pulizie di primavera e ci si convince che in fin dei conti è ancora inverno. Aspetto fiduciosa che prima o poi mi colga un raptus – come per le pulizie – e mi venga l’ispirazione per ribaltare tutto.

 

Nel frattempo facciamoci un giro al 112 di Ocean Avenue ad Amityville, New York.

Alle 3.15 del mattino del 13 novembre 1974, Ronald DeFeo Jr., 23 anni, massacra a colpi di fucile tutta la sua famiglia, madre, padre e quattro tra fratelli e sorelle.

E questo è un fatto.

Dopo alcuni maldestri tentativi di depistaggio, Ronald sostenne di fronte agli agenti che erano state le voci e gli spiriti della casa a guidarlo nel suo folle gesto.

E anche questo è un fatto.

 

Il 18 dicembre 1975, la famiglia Lutz entra al 112 di Ocean Avenue. Madre, padre e tre figli resistono 28 giorni nella casa appena acquistata, fino al 14 gennaio 1976, quando fuggono terrorizzati nel cuore della notte.

E questo è un altro fatto.

 

Dopo di che, comincia il mito. La leggenda dell’Orrore di Amityville.

La bibliografia e la filmografia sul tema sono parecchio vaste. Si va dalla fantasia ai tentativi di ricostruzione.

Ci sono fonti, articoli, interviste, racconti, romanzi, film, documentari.

Ci sono fatti e ci sono ipotesi.

Ci sono i coniugi Warren che si occuparono del caso dopo la fuga della famiglia Lutz, amplificando ulteriormente il circo mediatico intorno alla vicenda.

Di certo c’è che per essere una vicenda al limite tra cronaca e paranormale, ebbe una risonanza insolitamente ampia nei media e nell’opinione pubblica.

 

L’idea di Franck Khalfoun (attore nel ruolo di Jimmy in Alta tensione di Alexandre Aja) di andare a pescare nel calderone di Amityville non era dunque quel che si dice originale.

Al di là della mia istintiva contentezza nel veder di nuovo abitata la bella casetta in stile coloniale olandese con le sue belle finestrelle curve come gli occhi tristi di un basset hound – che tenerezza nevvero? – non è che avessi delle reali aspettative perché alla fin fine, giocarsi la carta della casa stregata ad Amityville suona un po’ come un tipiacevincerefacile.

Parentesi. Se proprio c’è ancora qualcosa che vorrei vedere ben raccontato in un film su Amityville è la parte sui coniugi Warren, possibilmente nella versione del filone Conjuring. L’antefatto di Conjuring 2 mi aveva fatto ben sperare ma poi non mi pare se ne sia fatto niente. Chiusa parentesi.

Seconda parentesi. Le finestrelle curve non ci sono più, sostituite alla fine degli anni Ottanta con due banali finestre quadrate dagli O’Neil, allora proprietari. Chiusa seconda parentesi.

Dicevamo. Franck Khalfoun torna ad Amityvile ma contrariamente alle aspettative non se la gioca malaccio.

Oddio, non stiamo parlando di un capolavoro eh. Mi aspettavo il classico teen-horror che sfrutta spudoratamente la fama di Amityville e in effetti lo è ma questo Risveglio ha un suo perché e tutto sommato funziona.

Belle, adolescente pseudo darkettona, si trasferisce con la sua famiglia – madre, fratello e sorellina – al 112 di Ocean Avenue ad Amityville. Sua madre, Joan, ha scelto e comprato la casa e non le ha detto niente della sua fama sinistra. Si sono trasferite lì per essere più vicine alla sorella di Joan e per avere più aiuto dal momento che James, il fratello gemello di Belle, è in stato vegetativo in seguito a un brutto incidente.

La situazione all’interno della famiglia è difficile e si esplicitano fin da subito tensioni e un fondo di rancore neanche poi troppo dissimulato che ruota intorno alla condizione di James.

Inevitabilmente Belle viene a sapere dai compagni di scuola del passato orrorifico della casa e questo non fa che peggiorare il tutto.

Nel frattempo, ovviamente, cominciano a succedere cose strane e, soprattutto, comincia a succedere qualcosa a James. E’ davvero possibile che si risvegli?

Anche se bene o male si sa fin da subito dove si va a parare – la casa è infestata da forze del male etc., etc. – la tensione si crea e la vicenda si sviluppa in modo coinvolgente. Anzi. Proprio perché si sa dove si va a parare la cosa funziona.

Khalfoun sceglie intelligentemente di utilizzare in modo esplicito il passato della casa anche in termini narrativi – gli amici che Belle conosce a scuola sono presi benissimo all’idea di guardare il film del ’79 (The Amityville Horror di Rosenberg) proprio in quella casa e non si risparmiano commenti ironici sulla scarsa qualità di seguiti e remake.

Il cast è buono. Bella Thorne è particolarmente riuscita nel ruolo di Belle e Joan è interpretata da una sempre ottima Jennifer Jason-Leigh. Ci sono anche Thomas Mann (II) nel ruolo di un compagno di scuola e Jennifer Morrison che fa la sorella di Joan.

La figura di James con il corpo deforme e scheletrico è parecchio disturbante e le sequenze semi oniriche sono discretamente inquietanti.

La faccenda della comunicazione via scrittura mentale su uno schermo ricorda molto Patrick – il remake del 2013 più che l’originale del ’78 per ovvie ragioni di supporto comunicativo.

La ricostruzione della casa, per quel che mi ricordo, è abbastanza fedele. La porta di ingresso è rossa e questo è un dettaglio che dovrei verificare perché non so se fosse davvero rossa o se sia una citazione del numero 10 di Elm Street (Nightmare).

Il primo ringraziamento finale va ad Alexandre Aja. Al di là del legame col regista per Alta tensione non so se abbia partecipato in qualche modo alla produzione e se ci sono altre citazioni dei suoi film probabilmente me le sono perse perché è una vita che non li vedo.

Cinematografo & Imdb.

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Lee ed Evelyn, una giovane coppia, con i loro figli.

Intorno a loro, i resti di un mondo spezzato da qualcosa di improvviso.

In uno scenario distopico post catastrofe in stile Resident Evil la famigliola si muove in mezzo alle rovine in cerca di medicinali e provviste.

Si spostano tutti con estrema cautela e nessuno parla. Comunicano a gesti o a voce bassissima.

I titoli dei giornali abbandonati che volano in giro per le strade urlano a caratteri cubitali che “è il rumore” e che stare in silenzio significa rimanere vivi.

Lee, Evelyn e i ragazzi camminano scalzi lungo un percorso di sabbia, tracciato per attutire il suono dei passi. Vivono in una casa attrezzata di tutto punto, un vero e proprio rifugio, usano foglie per piatti ed evitano qualunque cosa possa fare rumore.

Finché qualcosa va storto.

Diretto e interpretato da John Krasinski, A Quiet Place mi ispirava già molto dal trailer e si è rivelato assolutamente all’altezza delle aspettative. Anzi, mi ha persino un po’ sorpresa.

Ok, l’idea della distopia di partenza non è nuova ma la faccenda del proibire il suono e il rumore è carina e, tutto sommato, anche originale. Anche perché tiene vincolati ad un copione rigidamente essenziale – penso che, per quanto riguarda i dialoghi, abbia lo script più breve dai tempi dei film muti – e costringe ad una gestione insolita sia dei personaggi sia delle loro dinamiche relazionali.

La tensione si crea fin da subito, proprio per la condizione anomala in cui si trovano i personaggi, avvolti da questa coperta di silenzio impenetrabile che contribuisce immediatamente a trasmettere una sensazione di minaccia e di pericolo.

Ma chi c’è davvero in ascolto? Chi è pronto ad uccidere per il minimo rumore?

Un po’ di jumpscare – peraltro giustificato dallo script quasi muto, per cui ogni rumore un po’ più forte finisce con l’essere un jumpscare; e poi il crescendo ossessivo in cui gli eventi precipitano.

Un buon ritmo e un buon coinvolgimento fin da subito, e, nei panni di Evelyn, un’ottima Emily Blunt spaventata e lucida.

Un po’ horror, un po’ fantascienza, una prospettiva che non si allarga mai al resto del mondo ma rimane limitata al microcosmo familiare ed è gestita con estrema intelligenza, tra le vestigia fantasma di un pianeta ormai silenzioso e letale.

Decisamente da vedere.

Cinematografo & Imdb.

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Trasposizione cinematografica dell’omonima pièce teatrale di Andy Nyman e Jeremy Dyson, che sono anche i registi.

Nyman veste anche i panni del protagonista, affiancato da Martin Freeman.

A vederlo così sembra avere dei buoni spunti. Bisogna vedere se se la giocano bene o se ne fanno solo un pretesto per riproporre i soliti cliché.

Nelle sale dal 19 aprile.

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Restiamo nell’ambito del filone King-per-lo-schermo con questo B (ma anche C o D) movie del 1992 tratto da un romanzo mai pubblicato dello zio Steve – un testo nato molto probabilmente solo come supporto della sceneggiatura.

Sceneggiatura dello stesso King – e già questo definisce i parametri entro i quali ci muoviamo – regia di Mick Garris, poi regista anche de L’ombra dello Scorpione (1994), Stephen King Shining (1997) e Desperation (2006), tanto per rimanere in ambito kinghiano, senza contare altre numerosissime produzioni horror.

Una piccola cittadina della provincia americana. Un giovane di bell’aspetto, Charles, vi si è appena trasferito con la madre.

Questa l’apparenza.

In realtà madre e figlio sono anche amanti, nonché gli ultimi esemplari di una specie antica e mostruosa.

A metà tra mostri e vampiri, questi sleepwalkers si nutrono dell’anima di fanciulle vergini, possono mutare aspetto e modificare la realtà che li circonda. Temono i gatti, che ne riconoscono la vera natura e il cui graffio è per loro letale.

Charles e sua madre devono nutrirsi e per questo si spostano continuamente, hanno il giardino pieno di trappole per gatti e questa volta hanno messo gli occhi su Tanya, una compagna di scuola di Charles. Giovane, carina e presumibilmente pura.

Se non che Charles ha delle esitazioni, Tanya è più sveglia di quanto sembra e c’è un poliziotto che va sempre in giro con il suo gatto, stramberia che si rivelerà estremamente utile per far sì che le cose non vadano esattamente secondo i piani della coppia demoniaca.

Il pacchetto è esattamente quello che ci si aspetta che sia. La trama è prevedibile e il livello degli effetti decisamente basso – ok i tutoni di gomma alla fine sono un po’ oltre il limite dell’imbarazzante, così come la pannocchia-pugnale – però nel complesso non è male.

Forse saranno i ventisei anni ad attribuire fascino vintage alla pellicola, o forse sarà il mio essere di parte per ciò che arriva da King, sta di fatto che questi Sonnambuli non mi sono dispiaciuti, anzi, ho trovato il film onestamente divertente.

Come molti esponenti di pari categoria, è più un horror di nome che di fatto. Ci sono i mostri che danno la caccia alla giovane vergine e c’è del sangue, ergo, horror. Da lì a dire che ci si spaventi davvero è un altro discorso, però noi ci si diverte lo stesso.

Cameo rituale per King, che questa volta è il custode svampito di un vecchio cimitero e – piccola chicca per appassionati – fa la sua comparsata insieme a Tobe Hooper (Non aprite quella porta, Le notti di Salem, Poltergeist, The Mangler) e Clive Barker (Hellraiser, Candyman) in veste di tecnici della scientifica, in una scena che da sola vale decisamente tutto il film.

Nel cast anche Ron Pearlman (che ritornerà a King con Desperation).

E un sacco di gatti.

Cinematografo & Imdb.

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William Hallek è un avvocato obeso dalla morale non eccessivamente rigida. Il pensiero costante del cibo contrasta con la dieta che cerca di seguire senza eccessivi risultati. Una sera, rientrando in macchina da un party, sua moglie lo distrae, per così dire, dalla guida e William non si accorge di un’anziana zingara che sta attraversando la strada.

Investita, la donna muore.

Segue il processo ma non una condanna.

Ad aspettare fuori dal tribunale però c’è il padre della zingara che si avvicina a Will, lo sfiora e sussurra una parola.

Will, di colpo comincia a perdere peso. Dapprima è felice della cosa ma presto si accorge che non c’è niente di naturale nel suo dimagrimento.

Lo zingaro gli ha detto di consumarsi e lui non può fare altro che osservare il lento deperire del suo corpo.

Solo, senza nessuno che gli creda, Will deve trovare il modo di farsi togliere questa maledizione.

1996, titolo originale Thinner, tratto dal romanzo omonimo di Stephen King uscito nel 1984 ancora sotto lo pseudonimo di Richard Bachman – e che non ho letto, non potendo quindi dire niente sulla fedeltà al testo.

Per la regia di Tom Holland – il papà di Chucky, per intenderci – L’occhio del male è il classico film per la tv tratto da King e da lui stesso sceneggiato.

Il taglio marcatamente televisivo e una certa prevedibilità di trama ne fanno un prodotto decisamente di serie B, ma non per questo necessariamente negativo.

Nonostante i limiti stilistici la trama coinvolge e si è (anche un po’ morbosamente) curiosi di vedere cosa succederà a Will mentre continua a dimagrire a vista d’occhio pur abbuffandosi in modo patologicamente smodato, preda di una fame ormai totalmente fuori controllo.

Incarnazione estrema dell’insano desiderio di mangiare senza freni e, non solo non ingrassare, ma anche dimagrire, Will sprofonda gradualmente in un incubo che sembra non avere via d’uscita.

Cast tutto sommato neanche troppo anonimo, con Robert John Burke nel ruolo di Will, Joe Mantegna e Micheal Constantine.

Non manca neanche il consueto cameo di King stesso, questa volta nei panni di un farmacista.

Imdb.

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New England, 1630. Un colono e la sua famiglia vengono scacciati dalla loro comunità presumibilmente per motivi religiosi.

Si allontanano dunque dalle piantagioni e trovano una sistemazione ai margini della foresta dove tentano di sopravvivere coltivando, cacciando e osservando la parola di Dio.

Eppure, fin dall’inizio, le cose non vanno per il verso giusto.

Il più piccolo dei figli scompare inspiegabilmente e questo evento dà il via ad una serie di disgrazie sempre più terribili.

C’è qualcosa di maligno che ha preso di mira la famiglia, e il maligno si può nascondere ovunque. E in chiunque.

Per la regia dell’esordiente Robert Eggers, The Witch è un film decisamente insolito e anche piuttosto inaspettato.

Basato in parte su racconti e testi originali del 1.600 – alcuni dialoghi sono addirittura trasposizioni letterali prese dai registri e dai documenti riguardanti i processi per stregoneria – questo film, presentato per la prima volta al Sundance nel 2015, ha fin da subito suscitato grande interesse e riscosso notevole successo.

Quattro anni di produzione, ventisei giorni di riprese, girato, a quanto pare, nello stesso formato ideato da Kubrick per Barry Lyndon (1.44:1) e totalmente in luce naturale per gli esterni e a lume di candela per gli interni, un budget di tre milioni e mezzo di dollari per un incasso quasi immediato di 40 milioni.

Una ricostruzione storica meticolosa in ogni minimo dettaglio – dalla quotidianità delle attività contadine ai modi di esprimersi e di relazionarsi – fa da sfondo ad una vicenda che mescola in modo inquietantemente plausibile reale e sovrannaturale.

Il passaggio dalla fede al delirio religioso è graduale ma inesorabile. La caccia alle streghe può avvenire ovunque e nessuno è immune se può fungere da giustificazione per le avversità.

Se la sensazione di minaccia incombe fin dall’inizio, man mano che si procede l’atmosfera intorno alla famiglia diventa veramente insostenibile nel farsi sempre più cupa e opprimente.

Storia di streghe del bosco, fiaba per non dormire ma anche critica rappresentazione simbolica socio-politico-antropologica di una realtà dove i veri demoni tramano indisturbati all’ombra di un patriarcato prevaricante e negli angoli bui della cattiva coscienza di una religione e di una società fortemente discriminanti e intolleranti.

Angosciantissimo nella sensazione di impotenza che trasmette, insieme ad un senso di oppressione che si fa via via intollerabile fino a diventare delirio allucinato.

Un film intelligente e realmente diverso da tutto quello che c’è in circolazione di più o meno rientrante nel genere – quanto meno parlando del panorama degli ultimi 10-15 anni.

Buono il cast, seppur privo di nomi celebri, con particolare menzione per Anya Taylor-Joy – qui al suo esordio cinematografico – nel ruolo di Thomasin.

Decisamente consigliato.

Cinematografo & Imdb.

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Basato sulle reali vicende che seguirono la morte di Anneliese Michel, The Exorcism of Emily Rose (2005) presenta una versione per certi versi edulcorata di quelli che si suppone siano stati i fatti ma non per questo meno efficace da un punto di vista meramente narrativo.

Al centro della vicenda c’è la morte di Emily (Jennifer Carpenter), per quello che sembra un esorcismo non riuscito.

Segue un’indagine e Padre Moore (Tom Wilkinson) viene accusato di omicidio colposo per aver interferito nelle cure mediche cui la ragazza era sottoposta e averne così causato il deterioramento fisico che ha portato al decesso.

Erin Bruner (Laura Linney), giovane avvocato di successo e apparentemente immune ad eccessivi scrupoli morali, si vede assegnato il caso, con particolare raccomandazione da parte dell’arcidiocesi che, manco a dirlo, non è tanto interessata alle sorti di Padre Moore quanto piuttosto a non finire nell’occhio di un ciclone mediatico.

Erin comincia ad indagare e attraverso le parole di Padre Moore viene a conoscenza dei terribili avvenimenti che hanno colpito Emily.

Emily, ragazza di origini semplici e che era da poco partita per il College con una borsa di studio e che si è trovata al centro di fenomeni inspiegabili e incontrollabili.

Epilessia, dicono i medici. E anche psicosi. E schizofrenia.

Ma i farmaci non funzionano e l’interpretazione dei sintomi non è così inequivocabile.

La famiglia si rivolge al proprio sacerdote. Emily stessa si affida a lui.

E allora dov’è il confine? Qual è la realtà?

Malattia o demoni? Scienza o religione? O forse entrambi?

Qualcuno o qualcosa avrebbe potuto salvare Emily?

Diretto dall’ottimo Scott Derrickson – Sinister (2012), Liberaci dal Male (2014), Doctor Strange (2016) – The Exorcism of Emily Rose riesce a coniugare in modo equilibrato ed efficace l’horror movie e il legal movie, lasciando ad entrambi gli aspetti il giusto spazio per risultare perfettamente complementari.

Con una buona sceneggiatura e delle valide interpretazioni, il film di Derrickson si rivela una variante nuova e intelligente dell’inflazionato tema delle possessioni.

Gli elementi tipici dei film esorcistici ci sono ma giusto il tempo di fare presenza per poi lasciare spazio alla ricostruzione legale e giudiziaria della vicenda, cosa che da un lato ravviva piacevolmente gli schemi del canone – evitando il ripetersi di cliché che bene o male abbiamo già visto in tutte le salse – e dall’altro conferisce a tutto il film un livello di plausibilità insolito per il genere. Certo, moltissimi horror ormai giocano la carta del ‘basato su una storia vera’ ma il fatto che qui ci sia di mezzo una vicenda giudiziaria documentata e ricostruita sposta un po’ l’asse dell’attendibilità rendendo inevitabile la domanda di fondo di tutto il film: è possibile?

Buon ritmo, struttura originale, niente trucchetti facili o espedienti di rito.

Avevo visto questo film anni fa e mi era piaciuto. Rivedendolo ora confermo la mia prima impressione e anzi, noto che, nonostante siano passati tredici anni, non ha perso assolutamente nulla.

Consigliato senza dubbio.

Cinematografo & Imdb.

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Mary, Richard e Stephen. Moglie, marito e figlio del marito, circa diciottenne. Lei è una psicologa infantile che lavora in casa. Stephen è un ragazzo problematico. E poi. Un incidente. E la vita di Mary viene definitivamente sconvolta. Richard muore e Stephen è ridotto in stato vegetativo. Mary si prende cura di lui da sola, intanto che continua ad occuparsi dei suoi piccoli pazienti. Poi uno di loro scompare. E ha inizio per Mary un incubo fatto da un crescendo di stranezze che mescolano le carte in tavola fino a renderle impossibile distinguere la realtà dall’allucinazione. Fino ad una scoperta che ribalterà di nuovo la sua esistenza.

Queste per lo meno erano le intenzioni sulla carta.

Di fatto Shut In (2016) è parecchio meno interessante di quel che potrebbe sembrare.

L’ho anche rivisto una seconda volta, un po’ per ripassarlo prima di parlarne qui sopra, un po’ per vedere se la prima impressione fosse stata troppo sbrigativa, ma niente. Non va.

Non che sia bruttissimo eh, si guarda, per carità. Solo, non decolla. Non fa paura. Non coinvolge realmente.

Gli elementi canonici ci sono tutti e sfruttati abbondantemente.

Casa isolata, tempesta di neve che blocca comunicazioni e collegamenti, rumori strani, allucinazioni, bambini inquietanti, disagio psicologico, ossessione. C’è pure un po’ troppa roba, forse.

Naomi Watts è brava però da sola non basta a risollevare le sorti di una sceneggiatura che zoppica vistosamente. Un po’ per la prevedibilità – se non del finale di molti degli sviluppi. E poi non ci si spaventa. Non si crea una vera tensione e si capisce un po’ troppo in fretta dove si vuole andare a parare.

Uno degli aspetti tipici di questo tipo di film è anche lo spazio lasciato alla costruzione del contesto. Ti presentano una bella casa, te ne fanno vedere i dettagli, il che implica che vengono mostrati – più o meno esplicitamente – anche i punti deboli. E poi il giochino è quello di trasmetterne la percezione di un posto caldo e accogliente. Ti devono prima far sentire a casa per far sì che la violazione di questa dimensione domestica sia realmente terrorizzante.

Ecco, tutto questo lavoro qui non c’è e rimane tutto piuttosto scollegato e distaccato.

E poi c’è anche una discreta falla di plausibilità che avrebbe forse potuto passare inosservata (o almeno venire perdonata) se il film fosse stato coinvolgente, ma in tal caso risulta solo l’ennesima cosa che non funzione e respinge lo spettatore anziché tirarlo dentro.

Nel cast anche Oliver Platt e il piccolo Jacob Tremblay.

Cinematografo & Imdb.

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