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Archive for the ‘1996’ Category

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Bè? Adesso devo pure cominciare io?

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E va bene. Cosa c’é che non va?

Niente

Sì, si vede. Cos’è successo?

Soffro.

Immagino.

Senti, se devi fare del sarcasmo lasciamo perdere eh.

Ok, ok. Soffri. E la causa di tanta sofferenza?

Ieri era il 18 marzo.

Ah. E quindi?

E cheppalle, ma non lo leggi il blog?

Dovevano uscire Suede e Kodaline.

E quindi?

E quindi sono andata a cercarli.

E…?

Feltrinelli.

Suede…sì, risulta l’album ma non ci è stato consegnato. Anzi non è stato proprio consegnato in tutta Italia.

Kodaline…con la C?

Con la K.

mmmm…non mi risultano proprio

Fnac.

Suede…(con tono risentito) no, al massimo l’uscita sarà domani perché di lunedì non esce mai niente (quarta legge della termodinamica?)

Ma veramente sul sito c’è scritto…

E’ sbagliato! (col tono di chi sta enunciando la cosa più ovvia del mondo)

No, comunque non mi risultano. Ma a volte escono prima all’estero. Possono metterci anche due mesi ad arrivare in Italia

(a quel punto ero già accasciata sotto il bancone)

Kodaline? Con la y?

No, con la i normale.

Non risulta neanche il nome.

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Che poi, sugli Suede va detto che ho preso una mezza cantonata io perché il 18 è la data di uscita ufficiale ma l’album è disponibile solo online. Nei punti vendita arriverà il 30 marzo.

Ciò non toglie che ho dovuto in qualche modo consolarmi e quindi mi sono sfogata arraffando queste due belle Deluxe Editions che mi guardavano curiose e amichevoli dallo scaffale.

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Poi. Visto che ieri si parlava di lui.

allen

Non l’ho ancora letto tutto quindi questa non è una vera e propria recensione. Lo consiglio a chiunque ami il regista perché è veramente una miniera di aneddoti, curiosità, retroscena di come sono nati i suoi film, tutti raccontati da Allen stesso in modo informale e diretto nel corso di quasi trentasei anni di carriera, dal 1971 al 2007, anno della pubblicazione.

A proposito di Match Point (2005).

EL: Hai provato una sensazione liberatoria lavorando a Londra, in un ambiente completamente nuovo?

WA: Non è stato liberatorio. Io mi sento sempre liberato. Giro solo a New York perché sono pigro e mi rimane comodo. Mi piace mangiare nei miei ristoranti preferiti e dormire nel mio letto, in fondo la verità è solo questa. Adoro trascorrere una settimana di vacanza a Londra per andare a teatro o vedere amici, ma non avevo tutta questa voglia di fermarmi diversi mesi. Invece è stata un’esperienza talmente positiva che la ripeterò quest’estate.

La mia impressione è che potrei girare i miei film ovunque. Ho girato con delle troupe in Ungheria; ho girato con delle troupe in Italia e in Francia. Come ho già detto, senza alcun intento faceto, il cinema non è astrofisica. Non è il lavoro più astruso del mondo. Hai la tua sceneggiatura, le troupe lavorano bene in tutto il mondo, sono professionisti, e sono professionisti a Parigi come lo sono a Budapest, a Londra, a New York o in California. Se conosci il mestiere non è poi così difficile. Basta usare un minimo di buon senso.

Quando il cinema diventa un’esperienza sovrumana infarcita di scatti di ira e assurdità, una scusa per vivere la propria vita in un certo modo, allora si trasforma in una seccatura, a cominciare dalle star che pretendono nel contratto persino il pagamento della massaggiatrice, del truccatore personale, del consulente politico.

Settembre 2005.

EL: Cosa si prova, dopo aver scritto la sceneggiatura, averla interpretata, averla girata per diversi mesi, aver visionato un giornaliero dopo l’altro, a entrare poi in sala di montaggio e doverti guardare, doverti giudicare come attore?

WA: Facilissimo. Ti guardi e dici “Qui sono tremendo”, “In quest’altro punto faccio schifo”, “In questa scena sono assolutamente finto”, “Qui penso di essere andato molto bene, la scena è credibile, sono divertente, non esagero né ammicco troppo.” Non è difficile individuare le parti soddisfacenti. Certo, stando seduto qui con un montatore e magari altre persone, capita ogni tanto di sentirsi dire: “Lo so che ti piace molto il ciak numero due, ma devo proprio dirtelo…” e allora o riguardo, scopro che l’osservazione è corretta e dico: “Bè, d’accordo, se preferisci il numero otto, per me sono buoni entrambi ma usiamo l’otto.”

Non è difficile. I veri guai arrivano quando non sei sorretto dall’ispirazione, quando scopri che hai seguito un’immagine fallace del film nel suo complesso.

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Choose Life. Choose a job. Choose a career. Choose a family. Choose a fucking big television, choose washing machines, cars, compact disc players and electrical tin openers. Choose good health, low cholesterol, and dental insurance. Choose fixed interest mortgage repayments. Choose a starter home. Choose your friends. Choose leisurewear and matching luggage. Choose a three-piece suit on hire purchase in a range of fucking fabrics. Choose DIY and wondering who the fuck you are on Sunday morning. Choose sitting on that couch watching mind-numbing, spirit-crushing game shows, stuffing fucking junk food into your mouth. Choose rotting away at the end of it all, pissing your last in a miserable home, nothing more than an embarrassment to the selfish, fucked up brats you spawned to replace yourselves. Choose your future. Choose life… But why would I want to do a thing like that? I chose not to choose life. I chose somethin’ else. And the reasons? There are no reasons. Who needs reasons when you’ve got heroin?

Causa weekend trascorso tra i monti a passeggiare in mezzo ai colori che cambiano e a raccogliere castagne, non ho grandi news cinematografiche o editoriali da proporre. Ergo, ne approfitto per parlare di un film che venerdì sera mi sono trovata quasi per caso a rivedere dopo diversi anni.  

Trainspotting. Danny Boyle. 1996.

Quello che ormai si può dire “un classico”. Per lo meno per la mia generazione.

Ci sono anni destinati a rimanere particolarmente impressi nella memoria. Anni che in qualche modo non riuscirai più a dimenticare, anche se quello che sei diventato non c’entra più niente con chi eri allora.

Resta la domanda. Quanto conta la percezione? Quando si dice che un film, un libro, un disco hanno segnato un periodo, quanto ha a che fare questo con la percezione che di esso ha avuto la generazione in quel momento più ricettiva per gli stimoli forniti dalla produzione artistico/creativa ad essa contemporanea? Domanda oziosa? Forse.

Tanto per dare un’idea del panorama cinematografico, il 1996 è l’anno in cui Baz Luhrmann si cimenta in quel curioso (e secondo me ben riuscito nonostante il binomio un po’ sciatto Di Caprio/Danes) esperimento che è Romeo+Juliet; e’ l’anno di Rodriguez con Dal tramonto all’alba; di Io ballo da sola di Bertolucci (del quale continuo a pensare che l’unica cosa bella di tutto il film sia Liv Tyler); di quel film che personalmente ritengo bruttissimo (non è pigrizia lessicale, è proprio brutto) ma al tempo stesso da vedere che è Crash di Cronenberg; di quel capolavoro di tristezza che è Le onde del destino di Lars von Trier (non il suo più terribile ma sicuramente il suo più crudele); è anche l’anno di Larry Flynt di Milos Forman (il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo e de L’ultimo inquisitore)con tutta l’ondata di astio verso la povera Courtney Love ancora nel mirino di tutti quelli che l’accusavano della morte di Cobain; l’anno di Independence Day con il quale Roland Emmerich scopre il divertimento di distruggere la terra in grande stile (tanto che poi non riuscirà a smettere visti i vari The Day After Tomorrow e 2012); l’anno del primo Mission Impossible, che, anche se nessuno se lo ricorda, era pur sempre di Brian de Palma; l’anno di Woody Allen con Tutti dicono I Love You, non tra i miei preferiti, per la cronaca; di Scream di Wes Craven che un po’ fa sul serio e un po’ si prende in giro da solo ma intanto lancia una specie di nuova moda teen-horror; de La sindrome di Stendhal del nostro Dario Argento; di quel film stucchevole che è Striptease (Andrew Bergman) con Demi Moore, gravato da tutta la pesantezza della cappa di perbenismo moralista degli anni Novanta (un po’ la versione triste dell’attuale Magic Mike che, come livello, non sarà tanto più su ma almeno non pontifica ed è ragionevolmente divertente); l’anno di Alan Parker con Evita; di quella perla indimenticabile che è il Riccardo III di Al Pacino.

In mezzo a tutto questo Danny Boyle se ne esce con la trasposizione cinematografica del primo romanzo dello scozzese Irvine Welsh Trainspotting, del 1993. Diventa subito uno di quei casi in cui ad essere ricordato sarà prevalentemente il film. Uno di quei rari casi (come Fight Club di Fincher) dove la potenza visiva ed emotiva del film è tale da lasciare in secondo piano il libro.

We took morphine, diamorphine, cyclizine, codeine, temazepam, nitrazepam, phenobarbitone, sodium amytal, dextropropo xyphene, methadone, nalbuphine, pethidine, pentazocine, buprenorphine, dextromoramide, chlormethiazole. The streets are a wash with drugs you can have for unhappiness and pain, and we took them all. Fuck it, we would of injected vitimin C if only they’d made it illegal.

Ci sono tutti gli anni Novanta, inquadrati e impacchettati prima ancora di essersi conclusi. Cominciano a radicarsi le idiosincrasie e le nevrosi collettive che saranno amplificate e dominanti del decennio successivo. C’è un’ironia impietosa nel demolire ogni parvenza di credibilità delle strutture sociali e civili. Siano esse istituzionali o legate alla sfera affettiva. C’è un approccio dissacrante e distruttivo. C’è una leggerezza sfacciata e ostentata. Celebrazione e trionfo dell’autodistruzione – ma quale? Quella dell’eroina o quella del finale?

E ovviamente c’è l’Aids. Che andava tanto di moda negli anni Novanta. Capiamoci, non è che voglia sminuire la cosa in sé, ma è un dato di fatto che ogni decennio ha bisogno del suo Spettro da temere e (far finta di) combattere. Negli anni Novanta c’era l’Aids. Anche perché era la novità. Poi, quando non è stata più tale, hanno smesso tutti di parlarne. E non è che sia sparita. Semplicemente i malati di Aids non se li caga più nessuno. Non ci sono neanche più quelli che ti danno la coccardina rossa in giro per strada. Passata di moda. Passati oltre.

E poi c’è tutto l’aspetto grottesco surreale, con alcune scene ormai strafamose, da quella di apertura con Ewan McGregor che corre (con Lust for Life di Iggy Pop come colonna sonora), a quella della peggiore toilet di tutta la Scozia (tralasciando quella terribile di Spud), fino alla galleria di allucinazioni durante la crisi d’astinenza. E il personaggio di Begbie (Robert Carlyle).

C’è anche Irvine Welsh nei panni dello spacciatore Mikey.

You see if you ask me we’re heterosexual by default, not by decision. It’s just a question of who you fancy. It’s all about aesthetics and it’s fuck all to do with morality. But you try telling Begbie that.

Cinematografo & Imdb

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Non sono una grande appassionata di fantascienza. Anzi. A voler proprio essere sincera, la fantascienza decisamente non è il mio genere. Il che fa sì che sia anche piuttosto ignorante in materia. Ogni tanto mi ripropongo di tentare un qualche tipo di approccio all’argomento ma per ora l’unico risultato è la trilogia della Fondazione di Asimov parcheggiata sul mio comodino da qualcosa come tre anni. Periodicamente la spolvero.

Con i film me la cavo un po’ meglio che con i libri ma anche lì, sui grandi classici sono un tantino carente. Anche quei film che mi rendo conto essere dei capolavori non mi riescono mai a coinvolgere troppo sul piano emotivo. Tendenzialmente, già se si parla di “spazio” mi scatta una sorta di calo di curiosità. Ci son cose che uno proprio non ce la fa. Comunque. Complice il fatto che, dal trailer, il taglio sembrava più quello di un film d’avventura, nonché il fatto che Burroughs lo conosco persino io – quanto meno per Tarzan – , ieri sono andata a vedere John Carter. E mi è pure piaciuto. Non credo che mi butterò sulla lettura del Ciclo di Marte ma il film è risultato nient’affatto male.

Divertente, avventuroso, coinvolgente. C’è un po’ tutto quello che dev’esserci in un film d’avventura. Ci sono i buoni e ci sono i cattivi; ci sono grandi scenari, paesaggi e ambientazioni spettacolari; ci sono creature strane – anche se non con le esagerazioni dei nuovi Star Wars; ci sono battaglie; ci sono momenti divertenti – fortunatamente ben dosati in modo da non diventare caricaturali; c’è una Giusta Causa per la quale proprio non si può rifiutare di combattere; e ovviamente c’è una bella principessa guerriera e ribelle. Il tutto poi ha un buon ritmo, senza tempi morti o inutili deviazioni. E una bella cornice di fine Ottocento, con il nipote di John Carter che scopre le vicende dello zio dal diario ricevuto in eredità.

Il regista è Andrew Stanton (Alla ricerca di Nemo, Wall-E, Monsters & Co).

Qui e qui il resto del cast e le solite info.

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